Caratteri del pensiero e della civiltà indiana
Una prima caratteristica che ci colpisce nell'antica cultura indiana è la quasi totale mancanza di interesse storico e di una seria storiografia: la conoscenza del passato dell'India fino all'invasione musulmana rimane quasi esclusivamente affidata alle fonti epigrafiche.
La stessa storiografia tradizionale della filosofia indiana, il cui testo più noto è forse il Sommario dei sei sistemi filosofici di Haribhadrasuri (VIII secolo ca. d.C.) aveva un fine piuttosto polemico che storico. Gli « storici » indiani partivano dalla scuola ideologicamente più lontana dalla propria e, senza alcuna preoccupazione cronologica, accettando e criticando alternativamente le teorie delle diverse scuole, concludevano presentando il loro sistema come il culmine della verità.
Scarsissime e ricche di elementi leggendari sono pertanto le notizie che ci sono pervenute intorno ai singoli pensatori, di alcuni dei quali, anche fra i più importanti, possiamo difficilmente determinare persino il secolo e la regione in cui svilupparono il loro magistero culturale.
Dovendo perciò rinunciare a ricostruire la personalità spirituale (ed eventualmente l'impegno politico) dei filosofi indiani, saremo costretti anche noi a condurre la nostra esposizione secondo i « sistemi »: le correnti di pensiero cioè, che, iniziate in periodi antichissimi, si sono andate sviluppando nei secoli contemporaneamente le une alle altre, con alterne fasi di fioritura ed una profonda influenza reciproca, ed hanno trovato la definitiva sistemazione del loro corpus di dottrine nei primi secoli della nostra era. Dopo la fase creativa, compiuta in un periodo relativamente breve, i «sistemi » subirono un processo di codificazione e, potremmo dire, di irrigidimento ad opera di una sottile scolastica, che aveva come strumento principale una enorme letteratura di commenti.
Diversamente dalla filosofia greca, che fin dai filosofi presocratici ha come motivo principale la conoscenza e l'interpretazione della natura, la speculazione indiana cerca soprattutto di chiarire l'essenza dell'io ed il suo rapporto con il principio della realtà, e di preparare -- con la conoscenza -- la salvazione o la liberazione dell'individuo, il suo passaggio dal piano del samsara, la realtà dubbia che ci circonda, ossia il divenire fenomenico considerato l'origine del dolore, a quello del nirvana, cioè all'identità con l'assoluto.
Ciò spiega perché sia sempre stata minima in India la divisione fra religione e filosofia, e perché tutti i principali sistemi abbiano avuto, accanto a quella filosofica, una interpretazione strettamente religiosa.
Ma, se il carattere principale della speculazione indiana è l'interpretazione della filosofia come ascesi e del filosofo come santo, non si deve dimenticare -- ed è anzi ciò che più ci interessa — che, nello sviluppare le loro teorie della conoscenza intesa come « liberazione » e nelle aspre polemiche che li divisero, i pensatori indiani seppero associare ad una metafisica misticheggiante una serie di discussioni logiche ed epistemologiche di eccezionale rigore e profondità: in esse ritroviamo sia taluni significativi paralleli con la logica occidentale (dal sillogismo nyaya alla dialettica dell'asti-nasti-vada dei giainisti), sia taluni spunti di pensiero e suggerimenti di ricerca assai originali.
Prima di iniziare, con l'antica speculazione vedica, l'esposizione dei « sistemi » filosofici indiani, accenneremo ancora ad un interessante problema storico: i rapporti dell'India con l'occidente mediterraneo nell'antichità classica.
Non occorre giungere alla fortunata spedizione di Alessandro Magno per trovare punti di contatto tra il mondo greco e quello indiano: l'impero persiano aveva costituito infatti fin dai tempi più antichi il luogo di incontro piuttosto che di separazione delle due civiltà. Alla morte di Alessandro tale funzione passò ai Seleucidi, il cui dominio si estendeva appunto sui territori dell'antico impero di Dario. Fu un loro ambasciatore, Megastene, a dare nei suoi Indikà una descrizione accurata della corte di Ciandragupta (che regnò circa dal 313 al 289 a.C.) e dell'India fino ai suoi confini orientali. Durante il periodo imperiale romano i rapporti commerciali fra Mediterraneo ed India crebbero ancora, creando la fortuna economica e sociale di città come Alessandria; i romani stabilirono anzi in India degli empori commerciali, come quello scoperto nei dintorni di Pondichéry.
Anche in campo culturale gli scambi si fecero via via più intensi: Apollonio di Tiana compì un viaggio in India, e numerosi asceti indiani vennero in occidente, trovando un'accoglienza favorevole nel clima culturale e spirituale misticheggiante creatosi in Egitto ed in Siria nei primi secoli dell'era volgare. In realtà però, come afferma il Tucci, « né l'uno né l'altro pensiero filosofico ha influito notevolmente sull'altro nel senso di determinare nuovi Orientamenti e sviluppi. Se anche influssi non mancarono, essi rientrano nell'episodico e nel particolare. L'una tradizione filosofica si svolge nel suo insieme indipendentemente dall'altra, legata dal proprio passato alle correnti spirituali ed alle situazioni storiche nelle quali germinò o dalle quali fu nutrita. Tutt'al più la conoscenza dell'altra stimolò la ricerca, allargò gli interessi o servì di giustificazione all'accentuarsi di certe tendenze o correnti o propensioni del pensiero ».
Un brevissimo cenno merita infine il problema dei rapporti tra cultura indiana e cultura araba. E' noto che sul finire del x secolo ebbe inizio la conquista islamica dell'India, conquista i cui effetti politici si protrassero fino alla penetrazione inglese nel XVIII secolo. Ebbene, nemmeno un evento politico così importante riuscì a influire profondamente sul corso della filosofia indiana, scuotendo il processo di irrigidimento e inaridimento delle scuole, cui abbiamo poco sopra fatto cenno. La conquista musulmana fece bensì scomparire in modo quasi completo alcune correnti, come il buddismo, che avevano più forti manifestazioni religiose, ma — per aver sempre mantenuto stretti legami con i paesi d'origine e aver conservato l'arabo ed il persiano come lingue erudite della storiografia e della cultura — non seppe far confluire gli elementi più vivi dei vecchi « sistemi » indiani in un nuovo indirizzo di pensiero musulmano-indiano, capace di assumere un importante peso culturale.
I vecchi « sistemi », esercitando sugli invasori arabi un'influenza più religiosa che filosofica — come nel rigido monoteismo musulmano sikh — conservarono pressoché immutati i loro caratteri esposti nei diversi secoli in una serie di opere (in sanscrito) concepite come commenti agli antichi testi. Questa situazione si è protratta fino ai nostri giorni, fino a quando, cioè, il contatto con l'occidente non ha aperto un periodo di radicale ripensamento e di rapida trasformazione culturale.