Il termine comico in filosofia
Termine che indica ciò che suscita il riso. Sul piano filosofico, il comico è in primo luogo una categoria estetica, originata all'interno di un genere letterario e teatrale genericamente definito commedia e comunque opposto alla serietà della tragedia e del tragico.
Una prima definizione si può rintracciare nella Poetica di Aristotele, in cui il comico è considerato alcunché di sbagliato e brutto che "non procura né dolore né danno"; dunque un elemento caratterizzato dall'imprevisto e dal non ragionevole, applicabile ad aspetti minori o parodistici dell'esistenza.
E' in questo senso che Aristotele costruì un legame tra il comico e la commedia, considerata come "imitazione di uomini ignobili". La connessione fra il comico e il genere teatrale della commedia ritarda una sua autonoma elaborazione teorica come categoria estetica. Ne sono esempio le definizioni di Cicerone e Quintiliano, che lo connettono al ridicolo generato da elementi sconvenienti o difettosi.
Solo nel pensiero del Seicento e del Settecento il comico assume una valenza filosofica: Hobbes definisce il riso generato dal comico come un moto di inorgoglimento dovuto all'improvvisa percezione di una nostra superiorità, mentre Shaftesbury lo vede connesso alla percezione deforme. I pensatori dell'illuminismo tendono a loro volta a utilizzare espedienti comici e ironici sia per opporsi all'accademismo sia per farsi beffe della censura.
Diderot (che pure non ne previde una voce nell'Enciclopedia), ritiene che il comico sia una funzione essenziale nel teatro e nella narrazione romanzesca perché nella sua paradossalità rivela le ambiguità e le incongruenze del senso comune (Jacques il fatalista). Al tempo stesso, nel Settecento si approfondisce la natura specifica del comico come categoria estetica. Nel par.54 della Critica del Giudizio, Kant ritiene comico tutto ciò che provoca il riso, che a sua volta, è un'affezione derivante da un'attesa ridotta in nulla, e gli attribuisce una funzione indiretta e momentanea di rallegramento.
Per Jean Paul il comico è generato da un infinito contrasto tra la ragione e la finitezza: se il sublime è l'infinitamente grande, il comico è invece l'infinitamente piccolo, l'irrazionale intuito sensibilmente.
Hegel, nelle Lezioni sull'estetica, sottrae il comico al legame con l'ironia, poiché, diversamente da quest'ultima, indica una sicurezza di possesso della verità e un conseguente sentimento di soddisfazione.
Nell'ambito di una simile definizione artistica del comico si colloca il saggio di Ch. Baudelaire, Dell'essenza del riso (1855), in cui vengono distinte due forme di comicità: una significativa, che si esplica nel mondo sociale e ne colpisce i vizi; un'altra assoluta, che è disinteressata, al di sopra della storia e quasi radicata in un cielo metafisico.
Tra le interpretazioni filosofiche si ricordano ancora quella di Schopenhauer, secondo cui il comico esprime un'incongruenza tra un concetto e gli oggetti reali a cui si riferisce, e quella di Kierkegaard, che condanna moralmente il comico come negazione del fine morale di un essere ragionevole.
Un'interpretazione psicologica del comico come forza psichica esuberante rispetto a un oggetto insignificante si deve a Th. Lipps.
Sulla strada di studi non distanti dalla psicologia sperimentale un'esposizione generale e sistematica del problema del comico si trova in Il riso. Saggio sul significato del comico (1900) di H. Bergson.
Il comico è qui visto in primo luogo come fenomeno sociale: chi ride è portatore di un'esigenza comunitaria.
Il comico, che si oppone alla meccanizzazione della vita attraverso le risorse di mobilità e dell'immaginazione, è per Bergson un sogno sognato dalla società intera, che ci riporta al movimento della vita.
Se Bergson, affermando che il comico proviene dall'inconscio intende sottolinearne il radicamento nel senso comune, Freud, nel Motto di spirito (1905), attribuisce invece al comico una precisa funzione nella sfera della psicologia individuale, come recupero del riso infantile perduto.
Interamente sociale è invece la dimensione del comico in Rabelais e la cultura popolare (1965) di Bachtin, che vi ravvisa un archetipo connesso a una società originaria legata alla terra e ai suoi ritmi, dove non si è ancora verificata una scissione tra anima e corpo e tra vita e morte.
Il comico può allora sopravvivere in situazioni "rovesciate", come per esempio quella che appare in varie tradizioni popolari del carnevale, in cui il riso è in grado di integrare la morte nell'unità della vita del tutto e, al tempo stesso, di presentare una visione del mondo alternativa.
E. Fr.
Bibliografia:
Le garzantine filosofia
Una prima definizione si può rintracciare nella Poetica di Aristotele, in cui il comico è considerato alcunché di sbagliato e brutto che "non procura né dolore né danno"; dunque un elemento caratterizzato dall'imprevisto e dal non ragionevole, applicabile ad aspetti minori o parodistici dell'esistenza.
E' in questo senso che Aristotele costruì un legame tra il comico e la commedia, considerata come "imitazione di uomini ignobili". La connessione fra il comico e il genere teatrale della commedia ritarda una sua autonoma elaborazione teorica come categoria estetica. Ne sono esempio le definizioni di Cicerone e Quintiliano, che lo connettono al ridicolo generato da elementi sconvenienti o difettosi.
Solo nel pensiero del Seicento e del Settecento il comico assume una valenza filosofica: Hobbes definisce il riso generato dal comico come un moto di inorgoglimento dovuto all'improvvisa percezione di una nostra superiorità, mentre Shaftesbury lo vede connesso alla percezione deforme. I pensatori dell'illuminismo tendono a loro volta a utilizzare espedienti comici e ironici sia per opporsi all'accademismo sia per farsi beffe della censura.
Diderot (che pure non ne previde una voce nell'Enciclopedia), ritiene che il comico sia una funzione essenziale nel teatro e nella narrazione romanzesca perché nella sua paradossalità rivela le ambiguità e le incongruenze del senso comune (Jacques il fatalista). Al tempo stesso, nel Settecento si approfondisce la natura specifica del comico come categoria estetica. Nel par.54 della Critica del Giudizio, Kant ritiene comico tutto ciò che provoca il riso, che a sua volta, è un'affezione derivante da un'attesa ridotta in nulla, e gli attribuisce una funzione indiretta e momentanea di rallegramento.
Per Jean Paul il comico è generato da un infinito contrasto tra la ragione e la finitezza: se il sublime è l'infinitamente grande, il comico è invece l'infinitamente piccolo, l'irrazionale intuito sensibilmente.
Hegel, nelle Lezioni sull'estetica, sottrae il comico al legame con l'ironia, poiché, diversamente da quest'ultima, indica una sicurezza di possesso della verità e un conseguente sentimento di soddisfazione.
Nell'ambito di una simile definizione artistica del comico si colloca il saggio di Ch. Baudelaire, Dell'essenza del riso (1855), in cui vengono distinte due forme di comicità: una significativa, che si esplica nel mondo sociale e ne colpisce i vizi; un'altra assoluta, che è disinteressata, al di sopra della storia e quasi radicata in un cielo metafisico.
Tra le interpretazioni filosofiche si ricordano ancora quella di Schopenhauer, secondo cui il comico esprime un'incongruenza tra un concetto e gli oggetti reali a cui si riferisce, e quella di Kierkegaard, che condanna moralmente il comico come negazione del fine morale di un essere ragionevole.
Un'interpretazione psicologica del comico come forza psichica esuberante rispetto a un oggetto insignificante si deve a Th. Lipps.
Sulla strada di studi non distanti dalla psicologia sperimentale un'esposizione generale e sistematica del problema del comico si trova in Il riso. Saggio sul significato del comico (1900) di H. Bergson.
Il comico è qui visto in primo luogo come fenomeno sociale: chi ride è portatore di un'esigenza comunitaria.
Il comico, che si oppone alla meccanizzazione della vita attraverso le risorse di mobilità e dell'immaginazione, è per Bergson un sogno sognato dalla società intera, che ci riporta al movimento della vita.
Se Bergson, affermando che il comico proviene dall'inconscio intende sottolinearne il radicamento nel senso comune, Freud, nel Motto di spirito (1905), attribuisce invece al comico una precisa funzione nella sfera della psicologia individuale, come recupero del riso infantile perduto.
Interamente sociale è invece la dimensione del comico in Rabelais e la cultura popolare (1965) di Bachtin, che vi ravvisa un archetipo connesso a una società originaria legata alla terra e ai suoi ritmi, dove non si è ancora verificata una scissione tra anima e corpo e tra vita e morte.
Il comico può allora sopravvivere in situazioni "rovesciate", come per esempio quella che appare in varie tradizioni popolari del carnevale, in cui il riso è in grado di integrare la morte nell'unità della vita del tutto e, al tempo stesso, di presentare una visione del mondo alternativa.
E. Fr.
Bibliografia:
Le garzantine filosofia