I filosofi e la morte
La morte si può considerare come decesso, cioè come un fatto che ha luogo nell'ordine delle cose naturali e nel suo rapporto specifico con l'esistenza umana.
Come decesso, la morte è un fatto naturale come tutti gli altri e non ha, per l'uomo, un significato specifico. Esistono procedimenti oggettivi per la constatazione o il controllo di questo fatto. Un medico, ad esempio, è chiamato a constatare il decesso di una persona: il decesso in questo caso è un fatto accertabile, di natura biologica, che può avere conseguenze determinate, ma indirette, nei confronti di altre persone. Ogni volta che si parla della morte in questo senso, come di un fatto naturale accertabile con procedimenti appropriati, s'intende la morte come decesso. Lo stesso accade quando si considera la morte come una condizione dell'economia in generale della natura vivente o della circolazione della vita o della materia è così via.
Marco Aurelio parlava, in questo senso, dell'uguaglianza degli uomini di fronte alla morte: "Alessandro il Macedone e il sugo mulattiere, morti, si ridussero allo stesso punto: o riassorbiti entrambi nelle ragioni seminali del mondo o entrambi dispersi fra gli atomi" (Ricordi, VI, 24). E Shakespeare nello stesso senso asseriva: "Alessandro morì, Alessandro fu seppellito, Alessandro ritornò in polvere. La polvere è terra e con la terra si fa l'argilla e perchè quell'argilla in cui egli fu trasformato non potrebbe diventare un tappo o per balie di birra?" (Hamlet, a.V, sc.I).
In tutti questi casi per morte s'intende il decesso dell'essere vivente quale che sia; e non si fa riferimento in modo specifico all'essere umano. Di fronte alla morte così intesa, l'unico atteggiamento filosofico possibile è quello espresso da Epicuro: "Quando ci siamo noi, la morte non c'è; e quando c'è la morte noi non ci siamo" (Diog.L, X,125). Nello stesso senso Wittgenstein ha detto: "La morte non è un evento della vita: non si vive la morte" (Tract.Logico-Philos. 6.4311). E Sartre ha insistito sull'insignificanza derlla morte: "La morte è un puro fatto, come la nascita; essa viene a noi dall'esterno e ci trasforma in esteriorità. In fondo, essa non si distingue in alcun modo dalla nascita ed è l'identità della nascita e della morte che noi chiamiamo fatticità "(Letre te le neant, 1955, pag.630).
Intesa in questo senso, la morte, non concerne propriamente l'esistenza umana. Il contrasto tra la morte così intesa e la morte come minaccia incombente sull'esistenza singola è stato bene espresso da Leone Tolstoi nel racconto "La morte di Ivan Lljtsch": nel quale il protagonista, che riconosce giusta è valida l'idea generica della morte come decesso, si ribella alla minaccia che la morte fa incombere su se stesso.
Nel suo rapporto specifico con l'esistenza umana la morte può essere intesa:
a) come inizio di un ciclo di vita: la morte è intesa da molte dottrine che ammettono l'immortalità dell'anima. Per tali dottrine, la morte è quello che Platone diceva: "la separazione dell'anima dal corpo"(Fed,64 c). Con questa separazione s'inizia infatti il nuovo ciclo di vita dell'anima: sia che questo ciclo s'intende come il reincarnarsi dell'anima in un nuovo corpo sia che s'intende come una vita corporea.
Plotino esprimeva questa concezione dicendo:" Se la vita e l'anima esistono dopo la morte, essa è un bene per l'anima perchè essa esercita meglio la sua attività senza il corpo. E se con la morte l'anima entra a far parte dell'Anima universale, che male può esserci per essa?" (Enn.,I,7,3). L'identico concetto della morte ricorre ogni volta che si considera la vita dell'uomo sulla terra come preparazione o avvicinamento a una vita diversa. E ricorda pure quando si afferma l'immortalità impersonale della vita come Schopenhauer: il quale paragona la morte al tramonto del sole che è, insieme, il levarsi del solo in un altro posto (Die Welt,I, 65).
b) come fine di un ciclo di vita: è stato variamente espresso dai filosofi. Marco Aurelio lo intendeva come riposo o cessazione dalle cure della vita: un concetto che ricorre frequentemente nelle considerazioni della sapienza popolare intorno alla morte. "Nella morte, diceva Marco Aurelio, è il riposo dai contraccolpi dei sensi, dai movimenti impulsivi che ci tirano qua e là come marionette, dalle divagazioni dei nostri ragionamenti, dalle cure che dobbiamo avere per il corpo" (Ricordi, VI, 28). Leibniz concepiva la fine del ciclo vitale come diminuzione o involuzione della vita. "Non si può, egli diceva, parlare di generazione totale o di morte perfetta, intesa rigorosamente come separazione dell'anima. Ciò che chiamiamo generazione sono sviluppi ed accrescimenti e ciò che chiamiamo morti sono involuzioni e diminuzioni" (Mon.73)
Con la morte, in altri termini, la vita diminuisce e scende a un livello inferiore a quello dell'appercezione o coscienza, in una specie di stordimento ma non cessa Principes de la nature et de la grace, 1714, 4).
A sua volta, Hegel considera la morte come fine del ciclo dell'esistenza individuale o finita per la sua impossibilità di adeguarsi all'universale. "La inadeguatezza dell'animale all'universalità, egli dice, è la sua malattia origianl; ed è il germe innato della morte. La negazione di questa inadeguatezza è appunto l'adempimento del suo destino" (Enc, 375).
Infine u il concetto biblico della morte come pena del peccato originale (Gen. II, 17; Rom, V,12)è, nello stesso tempo, il concetto di una limitazione fondamentale che la vita umana ha subìto a partire dal peccato di Adamo. Dice S. Tommaso a questo proposito: "La morte, la malattia e qualsiasi difetto corporeo dipende da un difetto nell'assoggettamento del corpo all'anima. E come la ribellione dell'aspetto carnale allo spirito è la pena del peccato dei primi genitori, tale è anche la morte ed ogni altro difetto corporeo" (S.Th, II, 2, q.164, a.1).
Ma questo secondo aspetto che è proprio della teologia cristiana, appartiene propriamente al concetto della morte come possibilità esistenziale.
c) come possibilità esistenziale:implica che la morte non sia un evento particolare, situabile all'inizio o al termine di un ciclo di vita proprio dell'uomo, ma una possibilità sempre presente nella vita umana è tale da determinare le caratteristiche fondamentali di essa. Alla considerazione della morte in questo senso ha avviato nella filosofia moderna, la cosiddetta filosofia della vita e specialmente Dilthey. "Il rapporto che caratterizza in modo più profondo e generale il senso del nostro essere, egli ha detto, è quello della vita con la morte, perchè la limitazione della nostra esistenza mediante la morte è decisiva per la comprensione e la valutazione della vita" (Das Erlebnis una dei Dichtung, 5 edizione, 1905, pag-230).. L'idea importante qui espressa da Dilthey è che la morte costituisca una limitazione dell'esistenza non già in quanto ne costituisce il termine ma in quanto costituisce una condizione che accompagna tutti i momenti di essa. Questa concezione che riproduce in qualche modo, sul piano filosofico, la concezione della morte della teologia cristiana, è stata espressa da Jaspers con il concetto della situazione limite: cioè di una situazione decisiva, essenziale ch è collegata con la natura umana in quanto tale ed è inevitabilmente data con l'essere finito". Rifacendosi a questi precedenti, Heidegger ha considerato la morte come possibilità esistenziale. "La morte, egli ha detto, come fine dell'Esserci, è la psssibilità dell'Esserci più propria, incondizionata, certa è, come tale, indeterminata e insuperabile" (Seind und Zeit, 52). Da questo punto di vista, cuioè come possibilità, la morte non offre niente che possa essere come realtà attuale. Essa è la possibilità dell'impossibilità di ogni rapporto, di ogni esistere. E poichè la morte può essere compresa solo come possibilità, la sua comprensione non è nè l'attesa di essa nè il fuggire di fronte ad essa, il non pensarci, ma l'anti citazione emotiva di essa, l'angoscia.
L'espressione utilizzata da Heideggere nel definire la morte come possibilità dell'impossibilità può a buon diritto apparire contraddittoria. Essa è suggerita da Heidegger dalla sua dottrina della impossibilità radicale dell'esistenza: la morte è la minaccia che tale impossibilità fa incombere sull'esistenza medesima. Se si vuol prescindere da questa interpretazione dell'0esisetnza in termini di necessità negativa, si può dire che la morte è nullità possibile delle possibilità dell'uomo e dell'intera forma dell'uomo.
Poichè ogni possibilità può, come possibilità, non essere, la morte è nullità possibile di ognuna è tutta le possiblità esistenziali; in questo senso, Merleau Ponty dice che il senso della morte è la contingenza del vissuto, cioè la minaccia perpetua per cui i significati eterni in cui esso crede di esprimersi per intero.
Attualmente il problema della morte è al centro del dibattito della bioetica, che affronta la ridefinizione della morte (intesa non puiù come morte cardiaca, bensì come morte cerebrale) e la collega al problema della dignità della persona (questionerei dell'accanimento terapeutico, dell'espiabnto di organi, dell'eutanasia). Dal punto di vista filosofico è da segnalare la riflessione sviluppata da Hans Jonas, il quale in uno scritto del 1985 (Il diritto di morire) sostiene il diritto di morire (indicando a quali condizioni il malato terminale può rivendicare il dritto di liberare se stesso e gli altri da un futuro di sofferenza che riconosce più come dovere) e, quindi, "il diritto di prendere possesso della propria morte nella coscienza del suo incombere (non soltanto dunque nella consapevolezza astratta della mortalità)" (pag.28).
Si tratta di una rivendicazione che, secondo Jonas, va fatta in nome dell'autentica vocazione della medicina, nel senso che la tutela della medicina ha a che fare con l'integrità della vita o almeno con la situazione nella quale essa sia ancora desiderabile (PAG.49).
Jonas afferma tale principio affinchè "il medico torni ad essere al servizio dell'uomo e non tiranno e a sua volta tiranizzato padrone della vita del paziente" (pag.50).
In tal modo il problema risulta essere quello del riconoscimento del diritto di vivere come fonte di tutti i diritti. Correttamente e integralmente inteso, esso include anche il diritto di morire (G.G)
Bibliografia:
Dizionario filosofico di Nicola Abbagnano
Personalmente concordo con le dottrine che ritengono la morte come l'inizio di un ciclo di vita. Credo nell'immortalità dell' anima e quindi a mio avviso la morte consiste nella separazione dell'anima dal corpo per poi ricongiungersi con l'anima universale e infine trasmigrare in un altro corpo il quale non deve essere necessariamente quello di un essere umano ma anche di un animale. (E.D.)
Come decesso, la morte è un fatto naturale come tutti gli altri e non ha, per l'uomo, un significato specifico. Esistono procedimenti oggettivi per la constatazione o il controllo di questo fatto. Un medico, ad esempio, è chiamato a constatare il decesso di una persona: il decesso in questo caso è un fatto accertabile, di natura biologica, che può avere conseguenze determinate, ma indirette, nei confronti di altre persone. Ogni volta che si parla della morte in questo senso, come di un fatto naturale accertabile con procedimenti appropriati, s'intende la morte come decesso. Lo stesso accade quando si considera la morte come una condizione dell'economia in generale della natura vivente o della circolazione della vita o della materia è così via.
Marco Aurelio parlava, in questo senso, dell'uguaglianza degli uomini di fronte alla morte: "Alessandro il Macedone e il sugo mulattiere, morti, si ridussero allo stesso punto: o riassorbiti entrambi nelle ragioni seminali del mondo o entrambi dispersi fra gli atomi" (Ricordi, VI, 24). E Shakespeare nello stesso senso asseriva: "Alessandro morì, Alessandro fu seppellito, Alessandro ritornò in polvere. La polvere è terra e con la terra si fa l'argilla e perchè quell'argilla in cui egli fu trasformato non potrebbe diventare un tappo o per balie di birra?" (Hamlet, a.V, sc.I).
In tutti questi casi per morte s'intende il decesso dell'essere vivente quale che sia; e non si fa riferimento in modo specifico all'essere umano. Di fronte alla morte così intesa, l'unico atteggiamento filosofico possibile è quello espresso da Epicuro: "Quando ci siamo noi, la morte non c'è; e quando c'è la morte noi non ci siamo" (Diog.L, X,125). Nello stesso senso Wittgenstein ha detto: "La morte non è un evento della vita: non si vive la morte" (Tract.Logico-Philos. 6.4311). E Sartre ha insistito sull'insignificanza derlla morte: "La morte è un puro fatto, come la nascita; essa viene a noi dall'esterno e ci trasforma in esteriorità. In fondo, essa non si distingue in alcun modo dalla nascita ed è l'identità della nascita e della morte che noi chiamiamo fatticità "(Letre te le neant, 1955, pag.630).
Intesa in questo senso, la morte, non concerne propriamente l'esistenza umana. Il contrasto tra la morte così intesa e la morte come minaccia incombente sull'esistenza singola è stato bene espresso da Leone Tolstoi nel racconto "La morte di Ivan Lljtsch": nel quale il protagonista, che riconosce giusta è valida l'idea generica della morte come decesso, si ribella alla minaccia che la morte fa incombere su se stesso.
Nel suo rapporto specifico con l'esistenza umana la morte può essere intesa:
a) come inizio di un ciclo di vita: la morte è intesa da molte dottrine che ammettono l'immortalità dell'anima. Per tali dottrine, la morte è quello che Platone diceva: "la separazione dell'anima dal corpo"(Fed,64 c). Con questa separazione s'inizia infatti il nuovo ciclo di vita dell'anima: sia che questo ciclo s'intende come il reincarnarsi dell'anima in un nuovo corpo sia che s'intende come una vita corporea.
Plotino esprimeva questa concezione dicendo:" Se la vita e l'anima esistono dopo la morte, essa è un bene per l'anima perchè essa esercita meglio la sua attività senza il corpo. E se con la morte l'anima entra a far parte dell'Anima universale, che male può esserci per essa?" (Enn.,I,7,3). L'identico concetto della morte ricorre ogni volta che si considera la vita dell'uomo sulla terra come preparazione o avvicinamento a una vita diversa. E ricorda pure quando si afferma l'immortalità impersonale della vita come Schopenhauer: il quale paragona la morte al tramonto del sole che è, insieme, il levarsi del solo in un altro posto (Die Welt,I, 65).
b) come fine di un ciclo di vita: è stato variamente espresso dai filosofi. Marco Aurelio lo intendeva come riposo o cessazione dalle cure della vita: un concetto che ricorre frequentemente nelle considerazioni della sapienza popolare intorno alla morte. "Nella morte, diceva Marco Aurelio, è il riposo dai contraccolpi dei sensi, dai movimenti impulsivi che ci tirano qua e là come marionette, dalle divagazioni dei nostri ragionamenti, dalle cure che dobbiamo avere per il corpo" (Ricordi, VI, 28). Leibniz concepiva la fine del ciclo vitale come diminuzione o involuzione della vita. "Non si può, egli diceva, parlare di generazione totale o di morte perfetta, intesa rigorosamente come separazione dell'anima. Ciò che chiamiamo generazione sono sviluppi ed accrescimenti e ciò che chiamiamo morti sono involuzioni e diminuzioni" (Mon.73)
Con la morte, in altri termini, la vita diminuisce e scende a un livello inferiore a quello dell'appercezione o coscienza, in una specie di stordimento ma non cessa Principes de la nature et de la grace, 1714, 4).
A sua volta, Hegel considera la morte come fine del ciclo dell'esistenza individuale o finita per la sua impossibilità di adeguarsi all'universale. "La inadeguatezza dell'animale all'universalità, egli dice, è la sua malattia origianl; ed è il germe innato della morte. La negazione di questa inadeguatezza è appunto l'adempimento del suo destino" (Enc, 375).
Infine u il concetto biblico della morte come pena del peccato originale (Gen. II, 17; Rom, V,12)è, nello stesso tempo, il concetto di una limitazione fondamentale che la vita umana ha subìto a partire dal peccato di Adamo. Dice S. Tommaso a questo proposito: "La morte, la malattia e qualsiasi difetto corporeo dipende da un difetto nell'assoggettamento del corpo all'anima. E come la ribellione dell'aspetto carnale allo spirito è la pena del peccato dei primi genitori, tale è anche la morte ed ogni altro difetto corporeo" (S.Th, II, 2, q.164, a.1).
Ma questo secondo aspetto che è proprio della teologia cristiana, appartiene propriamente al concetto della morte come possibilità esistenziale.
c) come possibilità esistenziale:implica che la morte non sia un evento particolare, situabile all'inizio o al termine di un ciclo di vita proprio dell'uomo, ma una possibilità sempre presente nella vita umana è tale da determinare le caratteristiche fondamentali di essa. Alla considerazione della morte in questo senso ha avviato nella filosofia moderna, la cosiddetta filosofia della vita e specialmente Dilthey. "Il rapporto che caratterizza in modo più profondo e generale il senso del nostro essere, egli ha detto, è quello della vita con la morte, perchè la limitazione della nostra esistenza mediante la morte è decisiva per la comprensione e la valutazione della vita" (Das Erlebnis una dei Dichtung, 5 edizione, 1905, pag-230).. L'idea importante qui espressa da Dilthey è che la morte costituisca una limitazione dell'esistenza non già in quanto ne costituisce il termine ma in quanto costituisce una condizione che accompagna tutti i momenti di essa. Questa concezione che riproduce in qualche modo, sul piano filosofico, la concezione della morte della teologia cristiana, è stata espressa da Jaspers con il concetto della situazione limite: cioè di una situazione decisiva, essenziale ch è collegata con la natura umana in quanto tale ed è inevitabilmente data con l'essere finito". Rifacendosi a questi precedenti, Heidegger ha considerato la morte come possibilità esistenziale. "La morte, egli ha detto, come fine dell'Esserci, è la psssibilità dell'Esserci più propria, incondizionata, certa è, come tale, indeterminata e insuperabile" (Seind und Zeit, 52). Da questo punto di vista, cuioè come possibilità, la morte non offre niente che possa essere come realtà attuale. Essa è la possibilità dell'impossibilità di ogni rapporto, di ogni esistere. E poichè la morte può essere compresa solo come possibilità, la sua comprensione non è nè l'attesa di essa nè il fuggire di fronte ad essa, il non pensarci, ma l'anti citazione emotiva di essa, l'angoscia.
L'espressione utilizzata da Heideggere nel definire la morte come possibilità dell'impossibilità può a buon diritto apparire contraddittoria. Essa è suggerita da Heidegger dalla sua dottrina della impossibilità radicale dell'esistenza: la morte è la minaccia che tale impossibilità fa incombere sull'esistenza medesima. Se si vuol prescindere da questa interpretazione dell'0esisetnza in termini di necessità negativa, si può dire che la morte è nullità possibile delle possibilità dell'uomo e dell'intera forma dell'uomo.
Poichè ogni possibilità può, come possibilità, non essere, la morte è nullità possibile di ognuna è tutta le possiblità esistenziali; in questo senso, Merleau Ponty dice che il senso della morte è la contingenza del vissuto, cioè la minaccia perpetua per cui i significati eterni in cui esso crede di esprimersi per intero.
Attualmente il problema della morte è al centro del dibattito della bioetica, che affronta la ridefinizione della morte (intesa non puiù come morte cardiaca, bensì come morte cerebrale) e la collega al problema della dignità della persona (questionerei dell'accanimento terapeutico, dell'espiabnto di organi, dell'eutanasia). Dal punto di vista filosofico è da segnalare la riflessione sviluppata da Hans Jonas, il quale in uno scritto del 1985 (Il diritto di morire) sostiene il diritto di morire (indicando a quali condizioni il malato terminale può rivendicare il dritto di liberare se stesso e gli altri da un futuro di sofferenza che riconosce più come dovere) e, quindi, "il diritto di prendere possesso della propria morte nella coscienza del suo incombere (non soltanto dunque nella consapevolezza astratta della mortalità)" (pag.28).
Si tratta di una rivendicazione che, secondo Jonas, va fatta in nome dell'autentica vocazione della medicina, nel senso che la tutela della medicina ha a che fare con l'integrità della vita o almeno con la situazione nella quale essa sia ancora desiderabile (PAG.49).
Jonas afferma tale principio affinchè "il medico torni ad essere al servizio dell'uomo e non tiranno e a sua volta tiranizzato padrone della vita del paziente" (pag.50).
In tal modo il problema risulta essere quello del riconoscimento del diritto di vivere come fonte di tutti i diritti. Correttamente e integralmente inteso, esso include anche il diritto di morire (G.G)
Bibliografia:
Dizionario filosofico di Nicola Abbagnano
Personalmente concordo con le dottrine che ritengono la morte come l'inizio di un ciclo di vita. Credo nell'immortalità dell' anima e quindi a mio avviso la morte consiste nella separazione dell'anima dal corpo per poi ricongiungersi con l'anima universale e infine trasmigrare in un altro corpo il quale non deve essere necessariamente quello di un essere umano ma anche di un animale. (E.D.)