I problemi della metafisica
Primo problema:
In Aristotele - si è visto - convivono entrambe le nozioni di metafisica, poiché quest'ultima è definita, a seconda dei contesti, come ontologia o come teologia. La filosofia prima in quanto scienza dell'essere in quanto essere, ossia scienza del senso dell'essere è ontologia. Ma Aristotele distingue poi tre tipi di sostanza: quelle sublunari (sensibili e corruttibili); quelle celesti (sensibili ma eterne) e quelle immobili (né sensibili né corruttibili): la metafisica, in quanto scienza della sostanza somma, quella immobile, ossia Dio, è allora teologia. La metafisica è dunque in senso stretto più ampia della teologia perché comprende tutti e tre i tipi di sostanze, ma culmina in essa in quanto scienza della sostanza prima che è l'essere di Dio. E ancora, Aristotele definisce la metafisica come scienza che studia le cause e i principi primi di tutte le cose (ontologia); ma allora essa è inevitabilmente anche scienza di Dio (teologia) che è la causa prima dell'ordinamento del mondo.
Si vede quindi come le due definizioni si connettano senza escludersi, si uniscano senza identificarsi. Non è dunque il caso di ricorrere ad audaci (e peraltro indimostrabili) interpretazioni, volte a giustificare la duplicità della filosofia di Aristotele, riferendola a due momenti diversi dell'evoluzione del suo pensiero - il lato teologico corrispondente a una concezione ancora inscritta nell'impronta platonica, il lato ontologico frutto invece di una riflessione più matura, ormai emancipata dall'egida del maestro; infatti le due definizioni non si escludono ma si implicano vicendevolmente, e connettendosi l'un l'altra rendono superflue tutte quelle letture che assumono come punto di partenza.
Secondo problema:
Nell'Etica Nicomachea Aristotele inserisce la sapienza (sophia) tra le virtù dianoetiche, definendola come unione di scienza (episteme) e intelligenza (nous). La filosofia come sapienza perenta dunque un'articolazione interna in due momenti, o meglio le sono propri due organi di conoscenza: in questo modo Aristotele intende sottolineare che la filosofia si serve del processo dimostrativo (scientifico), ma non può prescindere dal nous, ossia dall'apprensione intellettuale di un contenuto, non assimilabile al processo dimostrativo.
L'intelligenza non è però intuizione isolata, una sorta di solitaria illuminazione, ma procede attraverso un movimento di progressiva chiarificazione che permette di giungere alla conoscenza dei principi primi, come ad esempio di quello di non contraddizione . Esso infatti non è né il risultato di una dimostrazione deduttivamente ricavata, né il dono imprevisto e imprevedibile di una pura intuizione, ma piuttosto un contenuto di pensiero che soggiace alla possibilità di una sua conferma argomentativa.
Aristotele attribuisce questo particolare procedimento argomentativo di carattere non dimostrativo alla dialettica, individuando in essa il processo che può concludersi con la piena intelligenza dei principi.
Ma in che cosa consiste propriamente la dialettica?
Essa mira a esibire la validità di un principio, prendendo in esame le ipotesi ad esso contrarie e dimostrandone il loro carattere apiretico, il fatto cioè che, condotte sino in fondo nella logica che le sostiene, si rivelano inammissibili. Si tratta dunque di un procedimento ipotetico cui Aristotele ricorre quando deve vagliare la validità di ciò che non è deduttivamente affermabile, ma necessita comunque di una giustificazione soddisfacente; è un metodo che si basa sulla ricerca (dialettica).
Se ne possono addurre due esempi. Il primo riguarda il già ricordato principio di non contraddizione. L'argomentazione che lo accerta nella sua validità non è deduttiva - e non può esserlo: si tratta infatti del principio primo, per definizione non deducibile da altro; ma è un ragionamento che porta a concludere che chi lo rifiuta e lo nega rinuncia anche a conferire un senso alle proprie e alle altrui tesi, perché sarebbe altrettanto vero sia ciò che esse dicono che il contrario.
In questo caso non si induce l'avversario in contraddizione - perché sarebbe il suo gioco - ma lo si costringe ad ammettere che dice anche ciò che non dice: ogni tesi infatti può essere contraddetta, anche quella che sostiene la non validità del principio di non contraddizione. L'avversario è così costretto a non sostenere alcuna posizione, restando, per così dire, chiuso nel suo silenzio.
Il secondo esempio è quello della dimostrazione dell'esistenza di Dio, così come Aristotele la presenta in un passo della Metafisica. Si tratta di dimostrare l'esistenza di una sostanza immobile ed eterna. Ora, potrebbe darsi il caso che esistano solo sostanze corruttibili e tutto ciò che esiste sia pertanto tale; ma così lo sarebbe anche il movimento, che invece è sempre stato perché si colloca nel tempo che, nella concezione aristotelica, è eterno: se infatti il tempo fosse corruttibile si darebbe per ipotesi un tempo prima del tempo in cui esso non c'era, ma è solo a partire dal tempo che è possibile pensare a un prima e un poi. Esiste dunque un movimento continuo, che richiede perciò una causa: ma se si pensasse questo principio solo in senso potenziale, si introdurrebbe la possibilità che non si converta in atto, poiché tale passaggio non risulta di per sé necessario. Ciò significherebbe però riconoscere la possibilità di un effetto (il movimento) senza la sua causa (la potenza del principio del movimento non passata all'atto) e in questo modo il movimento non sarebbe eterno, come invece si era affermato.
Perché dunque il movimento sia necessario ed eterno, si richiede una causa che necessariamente lo garantisca, la quale deve essere un atto senza potenza, un atto puro, Dio come motore immobile.
Per i concetti primi dunque, come quello di Dio quale sostanza prima, non si può ricorrere a una dimostrazione, ma soltanto ad argomentazioni dialettiche che, dopo aver preso in esame le tesi contrarie, le confutano. Si tratta, per così dire, di una dimostrazione per assurdo, per cui ammettere una determinata tesi porta alla negazione dell'ipotesi: in questo caso, se non ci fosse Dio come atto puro, eterno e immobile, non si giustificherebbe la necessità del movimento.
Va infine ricordato come nella metafisica neoplatonica l'organo della conoscenza del principio non sia né la ragione argomentativa né l'intelletto, ma la visione dell'Uno che richiede il superamento di quelle facoltà. Il culmine del movimento filosofico è in un oltre a cui si perviene tramite un "salto" che rompe la continuità: la visione non è più attestabile a livello dell'argomentazione e del procedere argomentativi, poiché si colloca al di là di ogni argomentazione.
Terzo problema:
Per Aristotele la domanda fondamentale della metafisica consiste nel chiedersi che cos'è e come è l'essere, secondo una modalità tipicamente greca. Ma quando secoli dopo, in un contesto radicalmente diverso, propriamente moderno, Leibniz la riformula, questa acquista una differente connotazione e diviene: "Perché l'essere e non il nulla?" Che cosa ha determinato questo cambiamento, che cosa separa Leibniz da Aristotele? E' il cristianesimo ad aver prodotto questa frattura. Per i greci il mondo è eterno, per i moderni creato; per i primi è necessario, per i secondi è possibile: e questo significa che la sua realtà, la sua effettiva esistenza è, ma poteva anche non essere. Se l'essere è eterno, la singola esistenza non assume alcuna valenza problematica e si può limitare la domanda a cosa propriamente sia ciò che ovviamente è; se invece l'essere è possibile, se poteva anche non essere, allora il fatto che sia non è scontato e si deve domandare perché è ciò che è, potendo anche non essere. La domanda che per Aristotele riguardava la causa finale, per i moderno rinvia alla causa efficiente. L'essere si presenta come alternativo al nulla, come principio positivo affermatosi contro quello negativo, e la domanda metafisica ne chiede la ragione.
Così Schelling nella Filosofia della Rivelazione (pubblicata postuma) afferma che per tutti gli esseri naturali è possibile ravvisare il senso del loro essere; solo l'uomo sembra escluso da questa condizione, a lui soltanto sembra negato tale riconoscimento. La natura si presenta come una totalità ordinata al cui vertice si insedia l'uomo, ma tale posizione preminente non gli procura alcun reale privilegio perché egli non riceve da ciò nessuna connotazione di senso, non ottiene la realizzazione di alcun fine.
Al contrario sembra piuttosto trascinato dal corso storico degli eventi, imprigionato in un ordinamento di cui non è che una comparsa, di cui non decide propriamente il divenire. Ma, se l'esistenza di ciò che è al vertice della natura è priva di senso, allora lo è anche l'intero universo su cui l'uomo estende la sua signoria: il tutto sembra regolato da un'invincibile logica della ripetizione, da un'eterna riproposizione dell'identico. Tutto ciò che l'uomo compie, i suoi sforzi e le sue fatiche, non fanno che riprodurre quanto già prodotto dalla generazione precedente, senza che alcun passo venga compiuto in direzione di un fine che non si riesce a scorgere.
"Nulla di nuovo sotto il sole", è scritto nell'Ecclesiaste; e l'inquietudine della voce biblica ripete l'angoscia di un movimento che non vede alcun fine nel suo affannato muoversi.
L'uomo sembra essere ciò che conferisce senso al mondo, quando invece è ciò che di tale senso lo depriva. Ecco dunque insinuarsi la domanda: "Perché è l'essere e non il nulla?". Ma in queste pagine schellinghiane essa si è caricata di un nuovo significato, ancora più moderno, poiché il nulla che qui si pone come alternativa all'essere è il nulla in quanto privazione di senso, è quel nulla che lo minaccia alla radice. Non a caso Schelling definisce la domanda metafisica come la domanda suprema e più universale: solo la filosofia si assume il rischio di una risposta, il cui esito riguarda però tutto il sapere, poiché solo se si riesce ad attribuire un senso al mondo - avrà un senso, solo così esso si salverà dall'abisso di quel nulla che tutto trascina nella vacuità del suo non senso.
La domanda assume dunque una valenza più profondamente inquietante: non solo il mondo, in quanto creato, poteva non essere poiché è il risultato di un atto di libertà, ma anche nel suo esser - creato esso può apparire, pur liberamente fondato, come privo di senso, può mancare il suo fine o non averlo affatto. Il tema è già anticipato in un passo tratto dalle Conferenze di Erlangen (1821) dove si afferma che l'inizio reale del filosofare coincide con la rinuncia ad ogni convinzione precostituita, con la radicalizzazione del dubbio, con l'abbandono di tutte le certezze parziali riguardanti i singoli enti: nemmeno Dio può essere conservato in questo "punto zero" in cui ogni legame e ogni sostegno vengono annullati e che obbliga a rinunciare alla "navigazione sicura" per avventurarsi in mare aperto.
Per fare filosofia è dunque necessario il coraggio esistenziale che si sporge al di là di ogni certezza, restando sospeso nel nulla: un passo rischioso, dove tutto si perde per guadagnare tutto. Si tratta, in altre parole, di esporsi al non senso di un nulla senza fondo: finchè non si abbandonano le proprie certezze, sino a quando ci si congeda anche da Dio - pur nella speranza di ritrovarlo lungo il cammino - non si fa filosofia, perché non si mette in discussione tutto, ma si rimane ancor sempre legati alle proprie verità indiscutibili.
La domanda metafisica nella formulazione di Schelling è quasi disperata perché il nulla rischia di far sprofondare in sé tutto l'essere con una forza distruttiva che ancora mancava a Leibniz.
In Aristotele - si è visto - convivono entrambe le nozioni di metafisica, poiché quest'ultima è definita, a seconda dei contesti, come ontologia o come teologia. La filosofia prima in quanto scienza dell'essere in quanto essere, ossia scienza del senso dell'essere è ontologia. Ma Aristotele distingue poi tre tipi di sostanza: quelle sublunari (sensibili e corruttibili); quelle celesti (sensibili ma eterne) e quelle immobili (né sensibili né corruttibili): la metafisica, in quanto scienza della sostanza somma, quella immobile, ossia Dio, è allora teologia. La metafisica è dunque in senso stretto più ampia della teologia perché comprende tutti e tre i tipi di sostanze, ma culmina in essa in quanto scienza della sostanza prima che è l'essere di Dio. E ancora, Aristotele definisce la metafisica come scienza che studia le cause e i principi primi di tutte le cose (ontologia); ma allora essa è inevitabilmente anche scienza di Dio (teologia) che è la causa prima dell'ordinamento del mondo.
Si vede quindi come le due definizioni si connettano senza escludersi, si uniscano senza identificarsi. Non è dunque il caso di ricorrere ad audaci (e peraltro indimostrabili) interpretazioni, volte a giustificare la duplicità della filosofia di Aristotele, riferendola a due momenti diversi dell'evoluzione del suo pensiero - il lato teologico corrispondente a una concezione ancora inscritta nell'impronta platonica, il lato ontologico frutto invece di una riflessione più matura, ormai emancipata dall'egida del maestro; infatti le due definizioni non si escludono ma si implicano vicendevolmente, e connettendosi l'un l'altra rendono superflue tutte quelle letture che assumono come punto di partenza.
Secondo problema:
Nell'Etica Nicomachea Aristotele inserisce la sapienza (sophia) tra le virtù dianoetiche, definendola come unione di scienza (episteme) e intelligenza (nous). La filosofia come sapienza perenta dunque un'articolazione interna in due momenti, o meglio le sono propri due organi di conoscenza: in questo modo Aristotele intende sottolineare che la filosofia si serve del processo dimostrativo (scientifico), ma non può prescindere dal nous, ossia dall'apprensione intellettuale di un contenuto, non assimilabile al processo dimostrativo.
L'intelligenza non è però intuizione isolata, una sorta di solitaria illuminazione, ma procede attraverso un movimento di progressiva chiarificazione che permette di giungere alla conoscenza dei principi primi, come ad esempio di quello di non contraddizione . Esso infatti non è né il risultato di una dimostrazione deduttivamente ricavata, né il dono imprevisto e imprevedibile di una pura intuizione, ma piuttosto un contenuto di pensiero che soggiace alla possibilità di una sua conferma argomentativa.
Aristotele attribuisce questo particolare procedimento argomentativo di carattere non dimostrativo alla dialettica, individuando in essa il processo che può concludersi con la piena intelligenza dei principi.
Ma in che cosa consiste propriamente la dialettica?
Essa mira a esibire la validità di un principio, prendendo in esame le ipotesi ad esso contrarie e dimostrandone il loro carattere apiretico, il fatto cioè che, condotte sino in fondo nella logica che le sostiene, si rivelano inammissibili. Si tratta dunque di un procedimento ipotetico cui Aristotele ricorre quando deve vagliare la validità di ciò che non è deduttivamente affermabile, ma necessita comunque di una giustificazione soddisfacente; è un metodo che si basa sulla ricerca (dialettica).
Se ne possono addurre due esempi. Il primo riguarda il già ricordato principio di non contraddizione. L'argomentazione che lo accerta nella sua validità non è deduttiva - e non può esserlo: si tratta infatti del principio primo, per definizione non deducibile da altro; ma è un ragionamento che porta a concludere che chi lo rifiuta e lo nega rinuncia anche a conferire un senso alle proprie e alle altrui tesi, perché sarebbe altrettanto vero sia ciò che esse dicono che il contrario.
In questo caso non si induce l'avversario in contraddizione - perché sarebbe il suo gioco - ma lo si costringe ad ammettere che dice anche ciò che non dice: ogni tesi infatti può essere contraddetta, anche quella che sostiene la non validità del principio di non contraddizione. L'avversario è così costretto a non sostenere alcuna posizione, restando, per così dire, chiuso nel suo silenzio.
Il secondo esempio è quello della dimostrazione dell'esistenza di Dio, così come Aristotele la presenta in un passo della Metafisica. Si tratta di dimostrare l'esistenza di una sostanza immobile ed eterna. Ora, potrebbe darsi il caso che esistano solo sostanze corruttibili e tutto ciò che esiste sia pertanto tale; ma così lo sarebbe anche il movimento, che invece è sempre stato perché si colloca nel tempo che, nella concezione aristotelica, è eterno: se infatti il tempo fosse corruttibile si darebbe per ipotesi un tempo prima del tempo in cui esso non c'era, ma è solo a partire dal tempo che è possibile pensare a un prima e un poi. Esiste dunque un movimento continuo, che richiede perciò una causa: ma se si pensasse questo principio solo in senso potenziale, si introdurrebbe la possibilità che non si converta in atto, poiché tale passaggio non risulta di per sé necessario. Ciò significherebbe però riconoscere la possibilità di un effetto (il movimento) senza la sua causa (la potenza del principio del movimento non passata all'atto) e in questo modo il movimento non sarebbe eterno, come invece si era affermato.
Perché dunque il movimento sia necessario ed eterno, si richiede una causa che necessariamente lo garantisca, la quale deve essere un atto senza potenza, un atto puro, Dio come motore immobile.
Per i concetti primi dunque, come quello di Dio quale sostanza prima, non si può ricorrere a una dimostrazione, ma soltanto ad argomentazioni dialettiche che, dopo aver preso in esame le tesi contrarie, le confutano. Si tratta, per così dire, di una dimostrazione per assurdo, per cui ammettere una determinata tesi porta alla negazione dell'ipotesi: in questo caso, se non ci fosse Dio come atto puro, eterno e immobile, non si giustificherebbe la necessità del movimento.
Va infine ricordato come nella metafisica neoplatonica l'organo della conoscenza del principio non sia né la ragione argomentativa né l'intelletto, ma la visione dell'Uno che richiede il superamento di quelle facoltà. Il culmine del movimento filosofico è in un oltre a cui si perviene tramite un "salto" che rompe la continuità: la visione non è più attestabile a livello dell'argomentazione e del procedere argomentativi, poiché si colloca al di là di ogni argomentazione.
Terzo problema:
Per Aristotele la domanda fondamentale della metafisica consiste nel chiedersi che cos'è e come è l'essere, secondo una modalità tipicamente greca. Ma quando secoli dopo, in un contesto radicalmente diverso, propriamente moderno, Leibniz la riformula, questa acquista una differente connotazione e diviene: "Perché l'essere e non il nulla?" Che cosa ha determinato questo cambiamento, che cosa separa Leibniz da Aristotele? E' il cristianesimo ad aver prodotto questa frattura. Per i greci il mondo è eterno, per i moderni creato; per i primi è necessario, per i secondi è possibile: e questo significa che la sua realtà, la sua effettiva esistenza è, ma poteva anche non essere. Se l'essere è eterno, la singola esistenza non assume alcuna valenza problematica e si può limitare la domanda a cosa propriamente sia ciò che ovviamente è; se invece l'essere è possibile, se poteva anche non essere, allora il fatto che sia non è scontato e si deve domandare perché è ciò che è, potendo anche non essere. La domanda che per Aristotele riguardava la causa finale, per i moderno rinvia alla causa efficiente. L'essere si presenta come alternativo al nulla, come principio positivo affermatosi contro quello negativo, e la domanda metafisica ne chiede la ragione.
Così Schelling nella Filosofia della Rivelazione (pubblicata postuma) afferma che per tutti gli esseri naturali è possibile ravvisare il senso del loro essere; solo l'uomo sembra escluso da questa condizione, a lui soltanto sembra negato tale riconoscimento. La natura si presenta come una totalità ordinata al cui vertice si insedia l'uomo, ma tale posizione preminente non gli procura alcun reale privilegio perché egli non riceve da ciò nessuna connotazione di senso, non ottiene la realizzazione di alcun fine.
Al contrario sembra piuttosto trascinato dal corso storico degli eventi, imprigionato in un ordinamento di cui non è che una comparsa, di cui non decide propriamente il divenire. Ma, se l'esistenza di ciò che è al vertice della natura è priva di senso, allora lo è anche l'intero universo su cui l'uomo estende la sua signoria: il tutto sembra regolato da un'invincibile logica della ripetizione, da un'eterna riproposizione dell'identico. Tutto ciò che l'uomo compie, i suoi sforzi e le sue fatiche, non fanno che riprodurre quanto già prodotto dalla generazione precedente, senza che alcun passo venga compiuto in direzione di un fine che non si riesce a scorgere.
"Nulla di nuovo sotto il sole", è scritto nell'Ecclesiaste; e l'inquietudine della voce biblica ripete l'angoscia di un movimento che non vede alcun fine nel suo affannato muoversi.
L'uomo sembra essere ciò che conferisce senso al mondo, quando invece è ciò che di tale senso lo depriva. Ecco dunque insinuarsi la domanda: "Perché è l'essere e non il nulla?". Ma in queste pagine schellinghiane essa si è caricata di un nuovo significato, ancora più moderno, poiché il nulla che qui si pone come alternativa all'essere è il nulla in quanto privazione di senso, è quel nulla che lo minaccia alla radice. Non a caso Schelling definisce la domanda metafisica come la domanda suprema e più universale: solo la filosofia si assume il rischio di una risposta, il cui esito riguarda però tutto il sapere, poiché solo se si riesce ad attribuire un senso al mondo - avrà un senso, solo così esso si salverà dall'abisso di quel nulla che tutto trascina nella vacuità del suo non senso.
La domanda assume dunque una valenza più profondamente inquietante: non solo il mondo, in quanto creato, poteva non essere poiché è il risultato di un atto di libertà, ma anche nel suo esser - creato esso può apparire, pur liberamente fondato, come privo di senso, può mancare il suo fine o non averlo affatto. Il tema è già anticipato in un passo tratto dalle Conferenze di Erlangen (1821) dove si afferma che l'inizio reale del filosofare coincide con la rinuncia ad ogni convinzione precostituita, con la radicalizzazione del dubbio, con l'abbandono di tutte le certezze parziali riguardanti i singoli enti: nemmeno Dio può essere conservato in questo "punto zero" in cui ogni legame e ogni sostegno vengono annullati e che obbliga a rinunciare alla "navigazione sicura" per avventurarsi in mare aperto.
Per fare filosofia è dunque necessario il coraggio esistenziale che si sporge al di là di ogni certezza, restando sospeso nel nulla: un passo rischioso, dove tutto si perde per guadagnare tutto. Si tratta, in altre parole, di esporsi al non senso di un nulla senza fondo: finchè non si abbandonano le proprie certezze, sino a quando ci si congeda anche da Dio - pur nella speranza di ritrovarlo lungo il cammino - non si fa filosofia, perché non si mette in discussione tutto, ma si rimane ancor sempre legati alle proprie verità indiscutibili.
La domanda metafisica nella formulazione di Schelling è quasi disperata perché il nulla rischia di far sprofondare in sé tutto l'essere con una forza distruttiva che ancora mancava a Leibniz.