Il concetto di dolore in filosofia
Il dolore e' una delle o tonalità fondamentali della vita emotiva, e precisamente quella negativa, che viene solitamente assunta come segno o indicazione del carattere ostile o sfavorevole della situazione in cui l'essere vivente si trova.
Il dolore pur diversamente configurato come sofferenza fisica, psicologica o spirituale o come dolore totale cioè comprendente tutti questi ed altri aspetti e' stato da sempre oggetto di riflessione da parte dei filosofi.
Nel pensiero antico il dolore era visto come qualcosa di naturale (di fatale), effetto della disarmonia degli elementi che mettono in pericolo la vita ( Platone) o come ciò che contrasta con la felicità (Aristotele).
Gli Epicurei, in primis il romano Lucrezio, il più noto dei seguaci di Epicuro (degli altri rimangono pochi frammenti filosofici, mentre di Lucrezio un intero poema), vedono nella filosofia la via d'accesso alla felicità, dove per felicità s'intende l'atarassia(liberazione dalle paure e dai turbamenti), contingentemente al raggiungimento del piacere. La filosofia, quindi, ha uno scopo pratico nella vita degli uomini; essa è uno strumento il cui fine è la felicità:
« È vano il discorso di quel filosofo che non curi qualche male dell'animo umano. (Epicuro) »
Su questa convinzione, la ricerca scientifica atta all'investigazione delle cause del mondo naturale ha lo stesso fine della filosofia:
Per lo Stoicismo (Seneca, Epitteto) il dolore e' un nostro atteggiamento di fronte alle cose che non dipendono da noi; da qui l'imperativo stoico della sopportazione del dolore attraverso l'apatia.
Nel pensiero cristiano (tardi antico e medievale) il dolore acquista un significato nuovo, in quanto si caratterizza non solo come male fisico, conseguente al disordine introdotto dal peccato, e male morale legato alla libertà dell'uomo, ma anche come via privilegiata di purificazione se cristianamente vissuto; da qui non la semplice sopportazione, bensì una vera e propria accettazione, o addirittura la ricerca del dolore come mezzo di espiazione e di elevazione: così in Sant' Agostino e, sulla scia, in San Tommaso.
Il pensiero moderno, in linea con il processo di secolarizzazione, tende invece a desacralizzare il dolore, che viene visto come realtà non che redime ma che è da redimere. Da qui il riconoscimento della funzione biologica, vitale, naturale del dolore: così Telesio, Hobbes, Spinoza, Leibniz (con il quale nemmeno il dolore inficia l'ottimismo metafisico del mondo migliore possibile) e Kant (il quale lo considero' ineliminabile dalla vita, seppure riconducibile con l'uso della ragione).
Due posizioni antitetiche sono quelle di Hegel ( il quale, con il suo panlogismo, assorbe il dolore nella positività della dialettica) e di Schopenhauer (che lo considero' conseguente al desiderio in cui si esprime la volontà di vivere, desiderio che se insoddisfatto genera dolore e se soddisfatto noia).
Con Schopenhauer viene prestata al dolore un'attenzione del tutto nuova, che apre al pensiero contemporaneo: da Schopenhauer infatti viene riconosciuta al dolore una importanza tale che ne fa un (il) problema filosofico fondamentale: non una realtà sensata (che redime o che è da redimere) ma insensata: il dolore non ha una giustificazione o una spiegazione: è la cifra rivelatrice dell'esistenza.
Nel nostro tempo alla dimensione metafisica del dolore si tende a sostituire la dimensione empirica dei dolori, sulla base delle analisi delle scienze naturali e umane e della riflessione di carattere bioetico.
Bibliografia:
Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano
Il dolore pur diversamente configurato come sofferenza fisica, psicologica o spirituale o come dolore totale cioè comprendente tutti questi ed altri aspetti e' stato da sempre oggetto di riflessione da parte dei filosofi.
Nel pensiero antico il dolore era visto come qualcosa di naturale (di fatale), effetto della disarmonia degli elementi che mettono in pericolo la vita ( Platone) o come ciò che contrasta con la felicità (Aristotele).
Gli Epicurei, in primis il romano Lucrezio, il più noto dei seguaci di Epicuro (degli altri rimangono pochi frammenti filosofici, mentre di Lucrezio un intero poema), vedono nella filosofia la via d'accesso alla felicità, dove per felicità s'intende l'atarassia(liberazione dalle paure e dai turbamenti), contingentemente al raggiungimento del piacere. La filosofia, quindi, ha uno scopo pratico nella vita degli uomini; essa è uno strumento il cui fine è la felicità:
« È vano il discorso di quel filosofo che non curi qualche male dell'animo umano. (Epicuro) »
Su questa convinzione, la ricerca scientifica atta all'investigazione delle cause del mondo naturale ha lo stesso fine della filosofia:
- Liberare gli uomini dal timore degli dèi, dimostrando che per la loro natura perfetta, essi non si curino delle faccende degli uomini (esseri imperfetti);
- Liberare gli uomini dal timore della morte dimostrando che essa non è nulla per l’uomo dal momento che "quando ci siamo noi, non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo noi";
- Dimostrare l’accessibilità del limite del piacere, ossia la facile raggiungibilità del piacere stesso;
- Dimostrare la lontananza del limite del male, cioè la provvisorietà e la brevità del dolore. Epicuro infatti divide il dolore in due tipi: quello sordo, con cui si convive, e quello acuto, che passa in fretta.
Per lo Stoicismo (Seneca, Epitteto) il dolore e' un nostro atteggiamento di fronte alle cose che non dipendono da noi; da qui l'imperativo stoico della sopportazione del dolore attraverso l'apatia.
Nel pensiero cristiano (tardi antico e medievale) il dolore acquista un significato nuovo, in quanto si caratterizza non solo come male fisico, conseguente al disordine introdotto dal peccato, e male morale legato alla libertà dell'uomo, ma anche come via privilegiata di purificazione se cristianamente vissuto; da qui non la semplice sopportazione, bensì una vera e propria accettazione, o addirittura la ricerca del dolore come mezzo di espiazione e di elevazione: così in Sant' Agostino e, sulla scia, in San Tommaso.
Il pensiero moderno, in linea con il processo di secolarizzazione, tende invece a desacralizzare il dolore, che viene visto come realtà non che redime ma che è da redimere. Da qui il riconoscimento della funzione biologica, vitale, naturale del dolore: così Telesio, Hobbes, Spinoza, Leibniz (con il quale nemmeno il dolore inficia l'ottimismo metafisico del mondo migliore possibile) e Kant (il quale lo considero' ineliminabile dalla vita, seppure riconducibile con l'uso della ragione).
Due posizioni antitetiche sono quelle di Hegel ( il quale, con il suo panlogismo, assorbe il dolore nella positività della dialettica) e di Schopenhauer (che lo considero' conseguente al desiderio in cui si esprime la volontà di vivere, desiderio che se insoddisfatto genera dolore e se soddisfatto noia).
Con Schopenhauer viene prestata al dolore un'attenzione del tutto nuova, che apre al pensiero contemporaneo: da Schopenhauer infatti viene riconosciuta al dolore una importanza tale che ne fa un (il) problema filosofico fondamentale: non una realtà sensata (che redime o che è da redimere) ma insensata: il dolore non ha una giustificazione o una spiegazione: è la cifra rivelatrice dell'esistenza.
Nel nostro tempo alla dimensione metafisica del dolore si tende a sostituire la dimensione empirica dei dolori, sulla base delle analisi delle scienze naturali e umane e della riflessione di carattere bioetico.
Bibliografia:
Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano