Il dualismo "Samkhya" e le pratiche Yoga
Anche se la sua sistemazione filosofica risale ad un'epoca abbastanza recente, ed il primo testo della scuola giunto fino a noi, il Samkhya-karika, è forse del IV secolo dopo Cristo, la dottrina samkhYa è senza dubbio una delle più antiche dell'India.
Essa, astraendo completamente dall'esistenza di un dio, ritiene che esistano due realtà differenti ed ugualmente eterne: le anime individuali (purusa), molteplici, intelligenti ma inattive, e la materia (prakrti), unica sebbene non semplice, combinazione dinamica di tre modi di essere: sattva (leggero, luminoso e piacevole), rajas (mobile, dinamico e doloroso) e tamas (inerte, ottuso ed ostacolante).
Proprio sull'opinione che tutte le cose del mondo empirico siano prodotte dalla perpetua agitazione e dal reciproco avvicendamento di sattva, rajas e tamas, il samkhya fondò una delle sue teorie più interessanti: quella della preesistenza dell'effetto nella causa. L'effetto non sarebbe altro che una trasformazione della causa,identico ad essa nella sua sostanza.
Il samsara e quindi il dolore sono determinati per il sistema samkkya dall'attribuire erroneamente all'anima qualità della materia, cioè dalla mancata « discriminazione » fra la psiche che è un particolare momento dell'evoluzione della materia — e l'anima.
Ma come può originarsi questa confusione, come possono comunicare due sostanze opposte e per natura incomunicabili quali le purusa e la prakrti? E' questa forse la maggiore difficoltà della filosofia samkhya, che ritiene non vi sia una vera e propria comunicazione, ma piuttosto un'influenza dovuta alla reciproca vicinanza: il puro spirito si rifletterebbe nella psiche senza riuscire più a distinguersi da essa, avvertendo anzi il dolore ed i difetti intellettuali e morali, limita zioni di cui per sua natura sarebbe libero.
Il dolore e la materia non avrebbero tuttavia un valore negativo: la materia è principio attivo « come la gente si dedica alle proprie azioni allo scopo di quietare i propri desideri, così anche la prakrti si svolge affinché l'anima possa
conseguire la liberazione » -- ed il dolore con la sua stessa presenza obbliga l'anima a cercare i mezzi per liberarsi.
La liberazione — che è il fine della dottrina samkhya come di quasi tutti i sistemi metafisici indiani -- si ottiene quando la psiche riconosce di essere derivata dalla prakrti: allora l'anima ritorna al suo stato di purezza, chiusa nella sua coscienzialità, al di là del piacere e del dolore.
Convinto che la conoscenza fosse uno dei mezzi che possono condurre l'uomo sulla via della liberazione dal samsara, il sistema samkhya, che nutriva profondi interessi logici elaborò un'interessante teoria epistemologica. L'individuo, per effetto del rajas, sarebbe dotato di dieci sensi, cinque di percezione (vista, udito, olfatto, gusto, tatto) e cinque d'azione (che risiedono nella lingua, nei piedi, nelle mani, negli organi di escrezione ed in quelli di generazione). Le percezioni registrate dai sensi sarebbero raccolte e combinate da un undicesimo senso, il manas (intelletto) che, per essere in rapporto con gli altri sensi, è composto di parti. Il manas, senso di per sé indifferente, reagisce di volta in volta a seconda dello stimolo sensorio che riceve.
A rendere lo spirito capace di ricuperare la sua libertà ed autonomia, la filosofia samkhya raccomandava pure le pratiche yoga. Lo yoga era un altro sistema filosofico religioso molto antico — le sue origini si possono forse far risalire alle pratiche magiche dell'India prearia - la cui letteratura si incentra sugli Yogasutra attribuiti al grammatico Patanjali e composti, sulla base di testi più antichi, verso il V o VI secolo d.C.
Discostandosi dalla metafisica del sainkhya solo per l'ammissione di un dio (Isvara) che non è creatore, ma dirige teleologicamente l'attività della materia, per sé eterna ed increata, la scuola yoga influenzò profondamente con le sue ricerche mistico-psicologiche tutte le forme della religiosià indiana, ed ha avuto un notevole successo, negli ultimi anni, anche presso alcuni circoli inrrazionalisti dell'Europa e dell'America.
Per scoprire il nostro vero essere dietro la nostra personalità empirica ed illusoria occorre, secondo lo yoga, compiere un continuo sforzo psicofisico, seguire una disciplina che liberi la psiche da ogni memoria passata e produca il completo arresto delle funzioni della mente. La disciplina yoga comprende otto stadi successivi: i primi due (yama e niyama) consistono nell'astensione dall'offesa verso ogni creatura vivente, nella continenza, nel rispetto della verità, nel rifiuto di possedere ogni cosa non necessaria per il puro sostentamento, nell'indifferenza a tutti gli avvenimenti, nello studio dei testi sacri (i Veda) e nella devozione a dio. Il terzo stadio della prassi yoga (pranayama) consiste nella assunzione di posizioni convenienti alla meditazione e nel controllo del respiro; il quarto (pratyahara) nella riduzione della funzione dei sensi a semplice percezione senza partecipazione alcuna. Seguono lo sforzo di concentrare la mente su di un oggetto o su un'idea (dharana), l'attenzione continuata su di esso (dhyana) e la scomparsa del senso di dualità fra il contemplante e l'oggetto contemplato (samadhi). Nell'ultimo stadio della disciplina yoga, l'asamprajnata, si raggiunge l'assoluta quiescenza delle funzioni mentali e contemporaneamente l'estasi mistica, la coscienza della differenza essenziale fra l'anima e la psiche, e la liberazione dal ciclo del samsara.