La semantica del linguaggio morale
Bene: termine che designa il complesso delle proprietà delle cose che sono dette buone (eventualmente identificate con una proprietà unica).
Bene intrinseco e sommo bene: Fra i greci la domanda sulla matura del bene intrinseco fu discussa in connessione con una questione non immediatamente identificabile con la prima: quale sia il sommo bene. Nella Repubblica di Platone troviamo la prima identificazione delle due questioni: il bene in sé o l'idea del bene indica anche quale sia il bene per gli esseri umani, cioè l'eudaimonìa (la felice conduzione della propria vita), di cui le virtù e la giustizia in particolare costituiscono parte.
Aristotele critica Platone in nome dell'impossibilità di ridurre tutto ciò che viene chiamato buono a una singola idea. Infatti la parola buono viene detta "con una pluralità di significati", non meno della parola essere. Viene usata secondo tutte le categorie: "buono si dice infatti nella categoria della sostanza per esempio di dio e della ragione, nella categoria della qualità per esempio delle virtù, nella categoria della quantità per esempio della giusta misura, nella relazione per esempio delle cose utili, nel tempo per esempio del momento giusto, nella categoria del luogo per esempio della dimora salubre ecc..."
Nell'etica aristotelica il significato di bene che svolge un ruolo effettivo è però quello relativo alla categoria della relazione: buono è "ciò a cui tutto tende", e questo è diverso per ogni ente secondo la natura; in senso ancora più ristretto è da intendere per bene "ciò che è buono per l'essere umano". Questo a sua volta si suddivide in una molteplicità di beni, di cui alcuni sono tali per se stessi e altri solo in vista di altri beni. I beni possono così venire ordinati in un ordine piramidale, al cui vertice sta il sommo bene: questo è il bene che è sempre da scegliersi di per sé e non in vista di altro, cioè l'eudaimonìa, la quale consiste di una vita all'insegna dell'attività dell'anima secondo la virtù, ovvero secondo la ragione.
Da parte di molti critici si riconosce una tensione in Aristotele fra questa concezione della pluralità (anche se ordinata in un'unità gerarchica) dei beni, e una concessione al platonismo che Aristotele fa quando afferma che il bene supremo è però la conoscenza teoretica, e lo stesso bene di una vita governata dalla ragione e dotata dei beni esteriori necessari è da vedere in funzione della possibilità di dedicarsi alla conoscenza teoretica.
Nella filosofia ellenistica divenne centrale un particolare elemento del quadro aristotelico: la conformità alla natura. Lo stoico Crisippo definisce il bene come "ciò che è perfetto secondo natura per l'ente razionale in quanto ente razionale".
Il bene come realtà ultima:
Per Plotino, che sviluppa una particolare linea di pensiero fra quelle indicate da Platone, il bene si identifico con l'Uno, cioè con la realtà più autentica, e quindi è superiore all'Essere e al Pensiero. L'influsso di Plotino fu grande in tutta la filosofia medievale, che nel linguaggio plotiniano si sforzò di riformulare nozioni tutte tratte dalla tradizione biblica.
Per lo stesso Tommaso, che è l'autore della riscoperta medievale di Aristotele, "bene e essere sono la stessa cosa in realtà, per quanto possano distinguersi l'uno dall'altro razionalmente".
Ogni ente è buono in quanto è - in linguaggio aristotelico - "atto", o in quanto è - in linguaggio biblico - prodotto della creazione divina; ma tutto ciò che costituisce una perfezione è appetibile, e quindi "il bene è l'essere in quanto oggetto di desiderio"; il desiderio, a sua volta, ha sempre Dio come suo oggetto più vero, in quanto Dio è il Sommo Bene.
Le concezioni soggettivistiche del bene:
La prima teoria "soggettivistica" (che nega cioè l'esistenza di un bene oggettivo, e che identifica il bene con ciò che è bene per qualcuno), viene proposta dai sofisti, precedendo la stessa teoria oggettivistica platonica, che nasce anzi come reazione alle dottrine dei sofisti.
Riedizioni di questa posizione non sono mai mancate nell'antichità: la scuola cirenaica, i cinici, le diverse scuole scettiche (in una certa misura l'epicureismo). Queste posizioni "soggettiviste" in un certo senso restano pre- aristoteliche, in quanto si limitano ad affermare la negazione speculare della tesi platonica non tenendo conto della critica aristotelica a Platone.
Il cosiddetto "soggettivismo moderno" che molti cliché storiografici contrappongono all'oggettivismo"classico" e "cristiano" non è che la ripresa di queste dottrine greche. Quando Hobbes afferma che "l'uomo china a buono l'oggetto del suo appetito...cattivo l'oggetto del suo odio e della sua avversione" si tratta di una ripresa letterale delle tesi che Platone attribuisce ai sofisti. Quando Bentham formula la sua dottrina utilitarista introduce una novità con il principio di utilità, ma ripete un'antica dottrina in sede di antropologia quando identifica la felicità con il piacere.
Il significato di buono: Moore
Mentre nel linguaggio economico e giuridico si parla di "beni" al plurale, l'uso del termine al singolare è rimasto non casualmente confinato alla filosofia. Infatti in greco il neutro sostantivato to agathòn (tradotto in italiano con l'avverbio sostantivato "il bene") è stato coniato specificamente in vista del problema di discriminare fra la pluralità di usi dell'aggettivo "buono": la grande domanda della filosofia morale è sempre stata se, e in caso di risposta affermativa in base a quali criteri, vi sia una specificità degli usi "fori" del termine ( come in casi in cui si dicono buoni la vita, il piacere, la libertà) da usi banali (come nelle espressioni "una buona anfora" o "un buon timoniere").
Il problema nasce con Moore, Principia Ethica. Buono in senso etico per Moore.
1) denota qualcosa di semplice e non definibile (una proprietà semplice che cose o azioni possono avere) oppure
2) denota qualcosa di complesso;
3) non denota alcuna alcuna proprietà né semplice né complessa ( e quindi non significa nulla e l'etica non esiste).
Moore esclude che la nozione di buono sua una nozione complessa per le seguenti ragioni:
a) coloro che hanno tentato di definire "buono" dandogli un significato descrittivo hanno confuso la domanda su che cos'è la bontà in sé con la domanda su quali cose siano buone; alla seconda domanda si può rispondere in termini descrittivi, naturali; ma soltanto una risposta alla prima costituirebbe una definizione o analisi di "buono";
Afferma Moore: "Buono è una nozione semplice, proprio come è una nozione semplice "giallo"; e come non c'è alcun mezzo di spiegare a qualcuno che già non lo sappia che cosa sia il giallo". La fallacia naturalistica consisterebbe nella pretesa di dare una definizione di "buono" enumerando altre qualità che le cose che sono buone possederebbero. Nel caso del colore giallo "possiamo tentare di definirlo descrivendo il suo equivalente fisico, possiamo dire quale tipo di vibrazioni luminose debbono stimolare l'occhio normale affinché lo si possa percepire "tuttavia" quelle vibrazioni luminose non sono esse stesse ciò che noi intendiamo per giallo". L'errore che consisterebbe nell'identificare l'equivalente fisico con il colore "si è sempre comunemente fatto circa il concetto di "buono". Può essere vero che tutte le cose che sono buone sono anche qualcosa d'altro, così come è vero che tutte le cose che sono gialle producono un certo tipo di vibrazione dell'aria... Ma troppo filosofi hanno creduto di definire realmente il buono con l'enumerare semplicemente quelle altre qualità".
b) l'argomento della open question. Si prenda una definizione di "buono", per esempio "ciò che produce piacere"; sarebbe del tutto comprensibile la domanda: "ammetto che questa cosa produce piacere ma è buona?"; ciò prova che la definizione data di "buono" non è una definizione corretta.
Moore chiama fallacia naturalistica la pretesa di definire il termine "buono". L'espressione caratterizza quello che ritiene l'errore fondamentale del naturalismo etico.
In sostanza, il naturalismo come lo si intende da Moore in poi, sostiene che:
a) i giudizi morali sono giudizi veri o falsi (quindi è una forma di cognitivismo, opposto a emotivismo e prescrittivismo);
b) esistono almeno alcuni giudizi morali veri (e quindi è, almeno in senso minimale, una forma di realismo o oggettivismo etico, opposto allo scetticismo etico);
c) la verità o falsità di questi giudizi può essere stabilita a partire da "fatti" di natura non morale; non esistono fatti specificamente morali (e quindi è una forma di riduzionismo, opposto all'intuizionismo).
Si noti che anche per Moore i giudizi morali sono veri o falsi, ma vertono su proprietà "non - naturali" (cioè, non oggetto di possibile osservazione empirica).
La pretesa "fallacia" è stata designata da Moore con un nome che non brilla di chiarezza: non è chiaro in che senso sia una "fallacia" (cioè una forma invalida di argomentazione).
Bene intrinseco e sommo bene: Fra i greci la domanda sulla matura del bene intrinseco fu discussa in connessione con una questione non immediatamente identificabile con la prima: quale sia il sommo bene. Nella Repubblica di Platone troviamo la prima identificazione delle due questioni: il bene in sé o l'idea del bene indica anche quale sia il bene per gli esseri umani, cioè l'eudaimonìa (la felice conduzione della propria vita), di cui le virtù e la giustizia in particolare costituiscono parte.
Aristotele critica Platone in nome dell'impossibilità di ridurre tutto ciò che viene chiamato buono a una singola idea. Infatti la parola buono viene detta "con una pluralità di significati", non meno della parola essere. Viene usata secondo tutte le categorie: "buono si dice infatti nella categoria della sostanza per esempio di dio e della ragione, nella categoria della qualità per esempio delle virtù, nella categoria della quantità per esempio della giusta misura, nella relazione per esempio delle cose utili, nel tempo per esempio del momento giusto, nella categoria del luogo per esempio della dimora salubre ecc..."
Nell'etica aristotelica il significato di bene che svolge un ruolo effettivo è però quello relativo alla categoria della relazione: buono è "ciò a cui tutto tende", e questo è diverso per ogni ente secondo la natura; in senso ancora più ristretto è da intendere per bene "ciò che è buono per l'essere umano". Questo a sua volta si suddivide in una molteplicità di beni, di cui alcuni sono tali per se stessi e altri solo in vista di altri beni. I beni possono così venire ordinati in un ordine piramidale, al cui vertice sta il sommo bene: questo è il bene che è sempre da scegliersi di per sé e non in vista di altro, cioè l'eudaimonìa, la quale consiste di una vita all'insegna dell'attività dell'anima secondo la virtù, ovvero secondo la ragione.
Da parte di molti critici si riconosce una tensione in Aristotele fra questa concezione della pluralità (anche se ordinata in un'unità gerarchica) dei beni, e una concessione al platonismo che Aristotele fa quando afferma che il bene supremo è però la conoscenza teoretica, e lo stesso bene di una vita governata dalla ragione e dotata dei beni esteriori necessari è da vedere in funzione della possibilità di dedicarsi alla conoscenza teoretica.
Nella filosofia ellenistica divenne centrale un particolare elemento del quadro aristotelico: la conformità alla natura. Lo stoico Crisippo definisce il bene come "ciò che è perfetto secondo natura per l'ente razionale in quanto ente razionale".
Il bene come realtà ultima:
Per Plotino, che sviluppa una particolare linea di pensiero fra quelle indicate da Platone, il bene si identifico con l'Uno, cioè con la realtà più autentica, e quindi è superiore all'Essere e al Pensiero. L'influsso di Plotino fu grande in tutta la filosofia medievale, che nel linguaggio plotiniano si sforzò di riformulare nozioni tutte tratte dalla tradizione biblica.
Per lo stesso Tommaso, che è l'autore della riscoperta medievale di Aristotele, "bene e essere sono la stessa cosa in realtà, per quanto possano distinguersi l'uno dall'altro razionalmente".
Ogni ente è buono in quanto è - in linguaggio aristotelico - "atto", o in quanto è - in linguaggio biblico - prodotto della creazione divina; ma tutto ciò che costituisce una perfezione è appetibile, e quindi "il bene è l'essere in quanto oggetto di desiderio"; il desiderio, a sua volta, ha sempre Dio come suo oggetto più vero, in quanto Dio è il Sommo Bene.
Le concezioni soggettivistiche del bene:
La prima teoria "soggettivistica" (che nega cioè l'esistenza di un bene oggettivo, e che identifica il bene con ciò che è bene per qualcuno), viene proposta dai sofisti, precedendo la stessa teoria oggettivistica platonica, che nasce anzi come reazione alle dottrine dei sofisti.
Riedizioni di questa posizione non sono mai mancate nell'antichità: la scuola cirenaica, i cinici, le diverse scuole scettiche (in una certa misura l'epicureismo). Queste posizioni "soggettiviste" in un certo senso restano pre- aristoteliche, in quanto si limitano ad affermare la negazione speculare della tesi platonica non tenendo conto della critica aristotelica a Platone.
Il cosiddetto "soggettivismo moderno" che molti cliché storiografici contrappongono all'oggettivismo"classico" e "cristiano" non è che la ripresa di queste dottrine greche. Quando Hobbes afferma che "l'uomo china a buono l'oggetto del suo appetito...cattivo l'oggetto del suo odio e della sua avversione" si tratta di una ripresa letterale delle tesi che Platone attribuisce ai sofisti. Quando Bentham formula la sua dottrina utilitarista introduce una novità con il principio di utilità, ma ripete un'antica dottrina in sede di antropologia quando identifica la felicità con il piacere.
Il significato di buono: Moore
Mentre nel linguaggio economico e giuridico si parla di "beni" al plurale, l'uso del termine al singolare è rimasto non casualmente confinato alla filosofia. Infatti in greco il neutro sostantivato to agathòn (tradotto in italiano con l'avverbio sostantivato "il bene") è stato coniato specificamente in vista del problema di discriminare fra la pluralità di usi dell'aggettivo "buono": la grande domanda della filosofia morale è sempre stata se, e in caso di risposta affermativa in base a quali criteri, vi sia una specificità degli usi "fori" del termine ( come in casi in cui si dicono buoni la vita, il piacere, la libertà) da usi banali (come nelle espressioni "una buona anfora" o "un buon timoniere").
Il problema nasce con Moore, Principia Ethica. Buono in senso etico per Moore.
1) denota qualcosa di semplice e non definibile (una proprietà semplice che cose o azioni possono avere) oppure
2) denota qualcosa di complesso;
3) non denota alcuna alcuna proprietà né semplice né complessa ( e quindi non significa nulla e l'etica non esiste).
Moore esclude che la nozione di buono sua una nozione complessa per le seguenti ragioni:
a) coloro che hanno tentato di definire "buono" dandogli un significato descrittivo hanno confuso la domanda su che cos'è la bontà in sé con la domanda su quali cose siano buone; alla seconda domanda si può rispondere in termini descrittivi, naturali; ma soltanto una risposta alla prima costituirebbe una definizione o analisi di "buono";
Afferma Moore: "Buono è una nozione semplice, proprio come è una nozione semplice "giallo"; e come non c'è alcun mezzo di spiegare a qualcuno che già non lo sappia che cosa sia il giallo". La fallacia naturalistica consisterebbe nella pretesa di dare una definizione di "buono" enumerando altre qualità che le cose che sono buone possederebbero. Nel caso del colore giallo "possiamo tentare di definirlo descrivendo il suo equivalente fisico, possiamo dire quale tipo di vibrazioni luminose debbono stimolare l'occhio normale affinché lo si possa percepire "tuttavia" quelle vibrazioni luminose non sono esse stesse ciò che noi intendiamo per giallo". L'errore che consisterebbe nell'identificare l'equivalente fisico con il colore "si è sempre comunemente fatto circa il concetto di "buono". Può essere vero che tutte le cose che sono buone sono anche qualcosa d'altro, così come è vero che tutte le cose che sono gialle producono un certo tipo di vibrazione dell'aria... Ma troppo filosofi hanno creduto di definire realmente il buono con l'enumerare semplicemente quelle altre qualità".
b) l'argomento della open question. Si prenda una definizione di "buono", per esempio "ciò che produce piacere"; sarebbe del tutto comprensibile la domanda: "ammetto che questa cosa produce piacere ma è buona?"; ciò prova che la definizione data di "buono" non è una definizione corretta.
Moore chiama fallacia naturalistica la pretesa di definire il termine "buono". L'espressione caratterizza quello che ritiene l'errore fondamentale del naturalismo etico.
In sostanza, il naturalismo come lo si intende da Moore in poi, sostiene che:
a) i giudizi morali sono giudizi veri o falsi (quindi è una forma di cognitivismo, opposto a emotivismo e prescrittivismo);
b) esistono almeno alcuni giudizi morali veri (e quindi è, almeno in senso minimale, una forma di realismo o oggettivismo etico, opposto allo scetticismo etico);
c) la verità o falsità di questi giudizi può essere stabilita a partire da "fatti" di natura non morale; non esistono fatti specificamente morali (e quindi è una forma di riduzionismo, opposto all'intuizionismo).
Si noti che anche per Moore i giudizi morali sono veri o falsi, ma vertono su proprietà "non - naturali" (cioè, non oggetto di possibile osservazione empirica).
La pretesa "fallacia" è stata designata da Moore con un nome che non brilla di chiarezza: non è chiaro in che senso sia una "fallacia" (cioè una forma invalida di argomentazione).