Pensatori ebrei moderni
SIMONE WEIL (1909-1943)
Nacque a Parigi da una famiglia ebrea non praticante. Studiò filosofia e per alcuni anni insegnò al liceo. Poi, spinta dalla sua passione per gli "altri", si dimise e lavorò come operaia. Allo scoppio della guerra civile spagnola (1936) si unì ai militanti anti-franchisti ma, per un incidente, fu costretta a rientrare in Francia. Nel 1938 avvenne la sua conversione religiosa anche se, fino all’ultimo, non volle mai accettare il Battesimo. Morì nel sanatorio di Ashford in Inghilterra.
Nel saggio L’Iliade, poema della forza (1939), esalta il modo in cui l’uomo greco viveva la guerra e il suo terribile gioco senza infingimenti, accordando eguale rispetto al vinto e al vincitore, provando sgomento per la distruzione di una città. Quando gli uomini entravano nel gioco della guerra, diventavano pietre nelle mani degli dèi, ossia cose sotto il giogo della Forza. Alla fine vince solo la Guerra. La Guerra è una prova della miseria umana, dei limiti dell’essere umano, è l’emergere di una Forza che domina l’anima dell’uomo e la incatena al suo destino immodificabile. La visione greca dell’uomo si prolunga, per la W., fino al Vangelo. Ciò che unisce Omero agli Evangelisti è il senso del valore della miseria umana, una miseria vissuta dallo stesso Cristo sulla croce. Una miseria a cui i Greci opponevano la virtù e i Vangeli la Grazia .
Nello studio su Dio in Platone (1940), Platone viene da lei considerato il padre della mistica occidentale. In Platone alla virtù si affianca la possibilità della grazia, cioè della salvezza che viene da Dio. Dio è quindi attivo nei confronti dell’uomo, lo chiama, chiede di essere da lui riconosciuto. La W. reinterpreta la disputa di Platone contro i Sofisti come anticipazione dei temi e concetti che verranno poi utilizzati dal Cristianesimo. L’Eros in Platone non è solo impulso dell’uomo verso il divino ma è prerogativa del Dio stesso. Sono anticipazioni del concetto di amore legato alla divinità che è tipico del Cristianesimo. Il 1942 fu l’anno della sua più intensa meditazione sul tema religioso. Eppure W. precisò ulteriormente il suo proposito di voler restare al di fuori della Chiesa. Quella Chiesa che, secondo la W., si era fatta impero, inquisizione, persecuzione, interiorizzando la potenza e l’oppressione che sono anche tipici dei regimi totalitari del XX secolo. D’altra parte - diceva – "tante cose sono fuori dalla Chiesa, tante cose che io amo e non voglio abbandonare, tante cose che Dio ama", e qui enumerava: i secoli prima di Cristo e le loro civiltà, i paesi abitati da razze di colore, la vita profana dei paesi di razza bianca, i Manichei, gli Albigesi, tutto ciò che è nato col Rinascimento". Evidentemente, la sua strada verso il divino non era quella dell'adesione ad una delle confessioni storiche. La sua via fu quella della "croce" e della "sofferenza": "Se non potrà essermi concesso di meritare di condividere un giorno la croce di Cristo, spero mi sia data almeno quella del buon ladrone". Come dire: la croce è intesa da W. oltre la Chiesa, all’intersezione di più destini e di più culture. Nei pensieri raccolti sotto il titoloL’amore di Dio (scritti tra il 1940 e il 1942), W. svela il suo misticismo : "non tocca all’uomo cercare Dio e credere in lui : egli deve semplicemente rifiutarsi di amare quelle cose che non sono Dio. Un tale rifiuto non presuppone alcuna fede. Si basa semplicemente sulla constatazione di un fatto evidente: che tutti i beni della terra …sono finiti e limitati, radicalmente incapaci di soddisfare quel desiderio di un bene infinito e perfetto che brucia perpetuamente in noi". "Perciò il problema della fede non si pone affatto. Finché un essere umano non è stato conquistato da Dio, non può avere fede, ma solo una semplice credenza; e che egli abbia o no una simile credenza, non ha nessuna importanza: infatti arriverà alla fede anche attraverso l’incredulità. La sola scelta che si pone all’uomo è quella di legare o meno il proprio amore alle cose di quaggiù". "Sono convinta che l’infelicità per un verso e la gioia per l’altro verso, la gioia come adesione totale e pura alla bellezza perfetta, implicano entrambe la perdita dell’esistenza personale e sono quindi le due sole chiavi con cui si possa entrare nel paese puro, nel paese respirabile, nel paese del reale"(trad.it. Borla,Torino, 1968, pp. 111,112,157).
HANNAH ARENDT (1906-1975)
Nata ad Hannover da una famiglia ebrea, studiò filosofia con i più importanti filosofi tedeschi del tempo (Husserl, Heidegger, Jaspers). A causa delle persecuzioni antisemite si trasferì in Francia e qui collaborò col Movimento Sionista. Nel 1940 fu arrestata ma riuscì a fuggire ed emigrò negli Stati Uniti, dove rimase per tutto il resto della vita.
L’analisi del fenomeno del totalitarismo in tutte le sue forme è alla base del lavoro intellettuale della A. Ne Le origini del totalitarismo (1951) la A. vide nel totalitarismo di questo secolo un fenomeno nuovo, che rompe con qualsiasi altra tradizione precedente. Nei regimi totalitari gli individui sono come i granelli di sabbia indistinguibili gli uni dagli altri. Ognuno sta nel proprio isolamento. In tali regimi la violenza è gratuita: è il terrore per il terrore. A questo proposito la A. introduce l’idea del "male radicale", cioè del male fine a se stesso, che non serve a nulla e non segue nessuna logica. Il libro venne molto discusso proprio perché sosteneva una trasformazione nella natura umana. Qualcosa che prima non s’era mai visto. L’uomo che si era così perfettamente inserito negli ingranaggi della macchina nazista dello sterminio era l’uomo massa, un uomo senza qualità né coscienza morale che era adattabile ad ogni evenienza, capace di uccidere come di portare a spasso il cane. Per questo il nazismo ha rappresentato l’apparizione del male assoluto nella storia: ci ha dimostrato che in certe circostanze l’uomo è un nulla, un agente passivo, è in grado di compiere qualsiasi atto in quanto nessun valore o principio aprioristico è in grado di indirizzare il suo comportamento.
Anni dopo, in un’altra opera intitolata Eichmann a Gerusalemme.La banalità del male (1963), la A. modifica la sua opinione dicendo che il male che ha fatto per esempio l’aguzzino Eichmann è spiegabile nel modo seguente: il male non è più qualcosa di eccezionale ma fa parte di noi e delle persone che ci sono vicine. Di fronte al giudice che lo accusava dello sterminio degli ebrei, Eichmann sostenne che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini. Ad Eichmann mancò quello che lei chiama "lo spazio pubblico", cioè lo spazio per giudicare quello che avviene. Lo spazio pubblico non è un bene garantito per sempre. Non è un bene stabile e acquisito. Mancando di questo, tutta la vita di Eichmann è un esempio di impossibilità di esprimere un giudizio. E’ la singolarità, che si mostra come tale, che permette che vi sia uno spazio pubblico. Ora Eichmann è esattamente l’esempio di una vita che non ha mai raggiunto la singolarità. Ed infatti la sua è una esistenza impostata nell’obbedienza agli ingranaggi burocratici di potere, qualsiasi essi siano. Dunque il suo non è un vero agire, ma una ripetizione degli ordini ricevuti. La sua incapacità di arrivare ad una sua singolarità si manifesta anche nel linguaggio adoperato. E’ un linguaggio "burocratico", intessuto di luoghi comuni, con frasi fatte. Sono queste le radici del male. Si tratta di un male molto quotidiano. Abituale quanto i nostri luoghi comuni. Le frasi fatte sono infatti dei modi di sottrarsi alla realtà, cioè al dire no agli avvenimenti. Il male è l’assenza, il rifiuto del pensiero. Pensare è infatti dialogare con se stessi, cioè porsi di fronte alla scelta fra il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto. Chi pensa, si dissocia, si allontana: anche senza far nulla, dissente e apre lo spazio al giudizio. Il pensiero è l’unico antidoto contro la massificazione e il conformismo che sono le forme moderne della barbarie.
Nel 1958 apparve La condizione umana (Vita activa in italiano), un'opera bellissima, sintesi più filosofica del suo pensiero. Il mondo d’oggi è il mondo della tecnica. Tale situazione non è altro che il compimento di un processo intrapreso dall’uomo occidentale dal XVI secolo. I Greci distinguevano la vita attiva fatta di lavoro, creazione artistica e azione politica, dalla vita contemplativa. Nella prima l’uomo plasmava le cose al fine di renderle utili, durevoli, di conquistarsi quella immortalità dell’operare che poteva renderlo presente ai mortali anche dopo la morte. Nella vita contemplativa l’uomo era messo di fronte all’eternità del divino, che lo portava all’ascesi e al misticismo. Con l’età moderna, la vita attiva e quella contemplativa perdevano la loro ragion d’essere. Il theoréin passava dal filosofo allo scienziato o meglio ai suoi strumenti, diventando così la più astratta delle attività pratiche. Il fare diventava un complemento della tecnica e il pensare si trovava ad avere, come suo unico oggetto, il mondo interiore per il tramite dell’introspezione. Una tale trasformazione influì anche sulla sfera sociale: la sfera dell’agire fu sottomessa a quella del fare e dell'utilità. Il risultato fu la "spoliticizzazione" del fare e il trasferimento del "gioco politico" nelle mani di pochi. La A. critica la società moderna perché ha privilegiato l’economico ed ha dimenticato il vero significato dell’agire. Ogni azione è un inizio. Quando un essere umano nasce è una singolarità assoluta, che apre un imprevisto nel mondo. E’ agendo che noi ci mostriamo. Nell’azione c’è anche rischio perché le conseguenze di ogni azione sono senza limiti e non dipendono da noi. Iniziare qualcosa è politico, perché è visto e rilanciato dagli altri. Presuppone dunque una pluralità di esseri umani in rapporto tra loro. Però non è sufficiente agire perché ci sia una vera e propria azione significativa. Occorre che quella azione venga raccontata. Bisogna che ci sia qualcuno che faccia conoscere quella azione a chi non era presente e la tramandi alle generazioni future. E solo così il tempo che viviamo non è semplicemente quello biologico della vita e della morte, ma ha un passato e un futuro significativi.
MARTIN BUBER (1878-1965)
Nacque a Vienna e studiò in diverse università. Nel 1923 pubblicò una delle opere più famose, Io e tu. Nello stesso anno cominciò ad insegnare a Francoforte. Nel 1925 incontrò Franz Rosenzweig, con cui tradurrà la Bibbia (impresa che porterà a termine nel 1962). Nel 1938 si trasferisce a Gerusalemme dove rimarrà per tutto il resto della vita.
Buber ha riproposto innanzitutto la questione dell'identità ebraica. Quali sono le caratteristiche dell'ebraismo? Una prima caratteristica è la coscienza della scissione e l'anelito all'unità; una seconda è la ricerca di una relazione tra morale e religione, intendendo la religiosità come azione e come spinta messianica verso il futuro. Questi principi - unità, azione e futuro - sono i principi validi anche per l'umanità: un autentico ritorno all'ebraismo coincide per lui ad un ritorno verso la vera umanità.
Anche in filosofia Buber ha incentrato il suo pensiero sul concetto di relazione. L'uomo si può porre nei confronti del mondo con due atteggiamenti base, una relazione di io-tu oppure una relazione di io-esso. Il primo è il mondo vero e proprio della relazione, il secondo è il mondo dell'esperienza. Fare esperienza di una cosa o di una persona è inteso da Buber in senso impersonale, strumentale, oggettivo, superficiale. Mentre io-tu è la relazione fondamentale perché non esiste, per Buber, un io da solo bensì solo e sempre il rapporto io-tu, nel senso che nessun uomo è autosufficiente ("All'inizio è la relazione", scrive Buber). Quindi se la realtà o l'essere è basilare, la coppia io-tu precede la coppia io-esso: noi ci rapportiamo al mondo, come indica l'esperienza dei primitivi e dei bambini, secondo io-tu e solo secondariamente come io-esso, soggetto-oggetto. Per cui, se la realtà vera è relazione, essa è dialogo, mentre dove non c'è relazione, dove c'è egoismo, non c'è dialogo e non c'è nemmeno realtà. Solo impegnandosi nel mondo e solo assumendo le proprie responsabilità l'uomo giunge ad un vero rapporto con sé, con gli altri e con Dio stesso.
FRANZ ROSENZWEIG (1886-1929)
Nacque da una famiglia borghese di ebrei assimilati. Studiò filosofia e storia con Rickert e Meinecke. Pensò quindi di dedicarsi alla carriera accademica ma ebbe una profonda crisi spirituale che lo avvicinò al cristianesimo. Tuttavia, in seguito ad un ripensamento, decise di riconvertirsi all'ebraismo e ciò fu l'avvenimento decisivo per la sua vita. Il suo capolavoro è La stella della redenzione (1921).
L'opera si apre con una celebre tesi: la paura della morte è all'origine della filosofia (come già diceva ad es. Schopenhauer) ma la filosofia non fa che negare la realtà della morte. Da questo punto di vista la filosofia è idealistica. Ma allora egli propone un nuovo pensiero che sia fedele all'esperienza e al concreto e, nello stesso tempo, che non abbia paura di diventare una scienza che in certo modo unisca il pensiero e la fede. L'uomo, il mondo e Dio sono l'oggetto del nuovo pensiero. A questa triade se ne affianca un'altra di creazione, rivelazione, redenzione. La religione in questo contesto è vista da Rosenzweig in primo luogo come una sorta di struttura fondamentale che mette in relazione l'uomo, il mondo e Dio. Affinché sia possibile una redenzione, l'uomo deve però collocarsi all'interno di una comunità di fede. L'ebraismo è visto da lui come la vita eterna mentre il cristianesimo è definito come la via eterna. Ebraismo e cristianesimo sono i due modi in cui accade storicamente l'unità verità divina. Anzi, per lui non è la verità che è Dio, ma è Dio che è la verità, nel senso che Egli è più che la verità proprio in quanto origine e luce del vero. All'uomo e ai vari popoli della terra spetta il compito di inverare il vero, di vivere autenticamente la verità. Dunque il vero non è tanto un paradigma logico quanto piuttosto una conquista morale, che più che teorizzare si deve vivere. L'opera, che era cominciata parlando della morte, si conclude invece con un appello alla vita e all'amore. Quersta vuole essere l'ultima parola di Rosenzweig.
EMMANUEL LEVINAS (1905-1995)
Nacque in Lituania ed emigrò in Francia. Si laureò alla Sorbona dove poi insegnerà e sarà anche direttore della Scuola Normale Israelita. In Totalità ed infinito (1961), (uno dei suoi capolavori), Levinas sostiene che la filosofia occidentale ha teso sovente a soffocare ogni alterità e trascendenza. I filosofi hanno praticato la filosofia alla stregua di uno sforzo di ridurre ogni cosa a se stessi. Sono colpevoli di non riconoscere altra realtà o verità al di fuori di sé autori diversissimi tra loro, che vanno da Socrate a Hegel fino ad Heidegger. Configurandosi come una fagocitazione dell'altro e come una prevaricazione dell'essere nei confronti degli enti, l'ontologia fino ad Heidegger si configura, per Levinas, come una filosofia della potenza che porta, inevitabilmente, al dominio e alla sopraffazione del prossimo. Infatti alla violenza teorica dell'approccio ontologico corrisponde, sul piano pratico, la violenza sull'uomo e l'intolleranza verso il diverso, tant'è vero che per esempio Heidegger finirà di coniugarsi col nazismo. Si tratta allora di rompere con la totalità e il totalitarismo. Ma come fare? La rottura non può essere opera di puro pensiero ma dev'essere un'esperienza esistenziale che si realizza nell'incontro concreto con l'altro. E l'altro si manifesta a me nel volto; volto che è infinito, è linguaggio, è etica. In sintesi, se la totalità è l'essere immanente e tutto inglobante, l'infinito è quella realtà trascendente e non totalizzabile che è l'altro in quanto volto.
La direzione etica del pensiero di Levinas si accentua in Altrimenti che essere o al di là dell'essenza (1974), in cui il soggetto è tale quando dice "eccomi", quando si dona e fa qualcosa per l'altro. L'uomo nasce per Levinas responsabile prima ancora di essere libero: egli si trova originariamente assegnato all'alterità e alla responsabilità, prima di ogni eventuale accettazione o rifiuto. Questo peso della responsabilità è anche la mia suprema dignità. "Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me. Questa è la mia inalienabile identità di soggetto"(cfr. Etica e infinito, p. 115).
Il problema dei rapporti si complica quando all'io e al tu si aggiunge un terzo. Vi deve dunque essere il superamento dell'essere egoistico e conflittuale in direzione dell'alterità e della fraternità. Inoltre nell'incontro con l'altro posso incontrare l'Assoluto. O meglio ancora: se è vero che attraverso il prossimo incontriamo Dio, è altrettanto vero che è attraverso Dio che incontriamo il prossimo.
HANS JONAS (1903-1993)
Studiò filosofia e teologia con Husserl, Bultmann e Heidegger. Dopo l'avvento del nazismo, emigrò negli Stati Uniti e qui insegnò in diverse università americane. Il suo itinerario intellettuale, come egli stesso disse, può essere suddiviso in tre tappe: gli studi sullo gnosticismo, gli studi per una filosofia dell'organismo che incontra le scienze naturali, gli studi infine per una filosofia pratica che affronti i problemi posti dalla società odierna. Qui accennerò brevemente solo all'ultima fase del suo pensiero. Jonas parte dalla constatazione che oggi l'uomo ha messo in pericolo la natura che lo circonda e in cui vive. Quindi l'uomo ha bisogno di una nuova etica, un'etica della previsione e della responsabilità. L'etica tradizionale, secondo Jonas, era un'etica antropocentrica, che si fermava al qui ed ora e non si poneva il problema degli effetti futuri delle nostre azioni. Da qui l'esigenza di passare da un'etica puramente antropocentrica ad un'etica planetaria, e da un'etica della contemporaneità ad un'etica per la posterità. L'imperativo categorico di Jonas diventa quindi: "Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra". Ma perché si dovrebbe preferire l'essere al non-essere, la vita alla distruzione? Per rispondere, Jonas dice che bisogna trovare un fondamento della morale, e questo si trova nella constatazione che essere è meglio che non essere (anche perché come potrebbe il nulla difendere le proprie posizioni se non …essendo, cioè non essendo più nulla ma qualcosa?). Da ciò deriva che l'uomo ha il dovere di dire sì alla vita. Il diritto alla vita si trasforma nel principio responsabilità. L'uomo ha il dovere di essere responsabile nei confronti della natura e delle generazioni future. E per vivere realmente questa responsabilità, egli parla di una "euristica della paura", nel senso che la responsabilità si deve fondare sia sulla speranza, fondamento per ogni azione, e sia sulla paura, che funge da stimolo per evitare di combinare troppi guai. Da questo punto di vista, Jonas è contrario alla manipolazione genetica mentre è favorevole all'eutanasia (il diritto di vivere include anche il diritto di morire). In ultimo, in un breve e famosissimo saggio intitolato Il concetto di Dio dopo Auschwitz, egli sostenne che Dio non è intervento ad Auschwitz perché…non ha potuto! Dio, per Jonas, non è onnipotente! Di fronte al dilemma di come un Dio buono abbia potuto permettere certe atrocità, la risposta di Jonas è: io faccio salva la bontà di Dio ma debbo negargli l'onnipotenza.
Martin Buber. Una vita per il dialogo.pdf |