Autobiografia
Scopo dell'autobiografia è quello di presentare una ricostruzione della vita dell'autore. Ciò può avere un certo interesse da un punto di vista strettamente storiografico (come nel caso della Historia calamitatum mearum di Abelardo, uno dei massimi esempi di autobiografia medievale) o della formazione intellettuale dell'autore, per esempio nel caso di autobiografie dei filosofi contemporanei, come quelle di B. Russell (Il mio sviluppo filosofico, 1959; Autobiografia, 1967-69), di J. P. Sartre (Autoritratto a 70 anni, 1975, in forma di intervista), o di H. G. Gadamer (Autobiografia filosofia, 1977).
Più precisamente, però, il ricorso all'autobiografia è tipico delle filosofie che sottolineano la rilevanza degli aspetti soggettivi nella pratica filosofica, per le quali l'esposizione in prima persona è un motivo essenziale e costitutivo della ricerca. In questo caso, all'autobiografia è riconosciuta una portata di carattere teoretico che esorbita dalla mera narrazione e che, come ha messo in rilievo il filosofo W: Dilthey, concerne piuttosto il problema filosofico della possibilità della conoscenza di sé stessi, più in generale, della conoscenza storica.
Dilthey infatti ha conferito una peculiare dignità al genere autobiografico per il fatto che in esso si realizza una delle condizioni fondamentali della conoscenza storica, la coincidenza di soggetto e oggetto.
L'autobiografia è per Dilthey "una riflessione dell'uomo sul corso della sua vita portata a espressione letteraria". Esigenza peculiare della conoscenza storica, cui l'autobiografia risponde in maniera unica, è che gli eventi esterni siano compresi dall'interno, riappropriati attraverso il ricordo, il quale non ne è una mera riproduzione meccanica ma un modo di riorganizzarli secondo un processo creativo, un intimo legame di materia e forma che a essi conferisce - o in essi riconosce - un significato, un ordine, un'unità.
G. Misch, allievo di Dilthey, che a questo genere ha dedicato una monumentale Storia dell'autobiografia (1907-69), vede pertanto nell'autobiografia la forma eminente di autoespressione della vita, "testimonianza della coscienza della personalità e dell'individualità", in cui essa giunge a una particolare forma di autocomprensione. Non è perciò un caso che l'autobiografia cominci a imporsi come genere filosofico con la svolta in senso soggettivistico e riflessivo realizzata dalla filosofia di Cartesio nel sec. XVII: il Discorso sul Metodo (1637) e le stesse Meditazioni Metafisiche (1641) sono in larga parte delle autobiografie intellettuali.
La svolta realizzata da Cartesio ha però un antecedente storico nelle varie confessioni, preghiere, meditazioni, frequenti soprattuto nella tradizione mistica, o in scritti che descrivono l'itinerario, non reale, ma filosofico o ideale, dell'anima verso Dio: dall'Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura (129) alla Divina Commedia di Dante (1406-21). Ciò evidenzia che uno dei motivi che portarono all'affermazione dell'autobiografia è l'interesse per temi di carattere religioso: esemplare resta a questo proposito la prima vera autobiografia dell'antichità, le Confessioni (397-401) di Agostino, opera che in forma narrativa mira a esprimere il mutamento di senso che si realizza nella vita dell'autore in seguito alla sua conversione al cristianesimo.
Se il carattere intimistico, solipsistico, dell'autobiografia si afferma a partire dall'accentuazione, in essa, di motivi religiosi, non mancano però esempi di autobiografie a carattere puramente storico-narrativo già nell'antichità (Isocrate, Senofonte): da questo punto di vista, autobiografie possono essere considerate anche la Settima lettera di Platone o i Ricordi (il cui titolo originale è A sé stesso) di Marco Aurelio, esempi che mostrano come spesso la narrazione autobiografica possa assumere la veste di un dialogo, reale o fittizio, con sé stessi o con altri (persino le Confessioni di Agostino sono state lette come una sorta di grande "epistola a Dio").
Volti nell'introspezione psicologica e quasi una sorta di "fenomenologia dell'Io" sono i Saggi di Montaigne (1580). Essa infatti, come dice il titolo, sono un tentativo di mettere alla prova, di saggiare, di "raccontare", senza imporre o ricercare un senso sovraordinante, la propria esperienza umana, di fare cioè una "pittura dell'Io", fedele, che, per l'impossibilità di fissare il proprio oggetto, procede incerta e vacillante, seguendolo nei suoi continui cambiamenti, "di giorno in giorno, di minuto in minuto".
Meno psicologizzanti , ma piuttosto apologetiche e perciò rivolte implicitamente a un pubblico dal quale si esige ascolto e riconoscimento, sono invece le autobiografie di Rousseau (Confessioni) e di Nietzsche (Ecce Homo), entrambe pubblicate postume.
Come la fortuna dell'autobiografia è legata all'enfasi sulla riflessione e sulla possibilità di una autoconsapevolezza raggiunta attraverso la narrazione di sé, così a una critica del cogito (soprattutto in chiave psicoanalitica) o alla paradossalità della riflessione (tema importante sia nella logica si nella letteratura contemporanea, si pensi a Borges) è legata non tanto una svalutazione dell'autobiografia, quanto una messa in luce dei suoi limiti e delle sue pretese conoscitive: di fatto, essa non può prescindere da un costitutivo elemento di finzione (J. Derrida, Memorie Per Paul De Man).
Bibliografia
Dizionario filosofico Nicola Abbagnano
L'Universale, Filosofia