Filosofia e cucina
E' noto il motto che non c'è eroe per il proprio cameriere: io ho aggiunto [...] non perchè l'uno non è un eroe, ma perché l'altro è il cameriere. Questi cava gli stivali all'eroe, l'aiuta a mettersi a letto, sa che preferisce lo champagne, ecc. Per il cameriere l'eroe non esiste: esiste per il mondo, per la realtà, per la storia. (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, p. 95)In quanto uomini ancor prima che pensatori (si ricordi il detto latino “primum vivere, deinde philosophari”), anche i filosofi hanno (avuto) i loro “piatti preferiti”, rivelandosi non di rado dei grandi estimatori del “mangiar bene”. L’attenzione che essi hanno riservato al cibo affiora, oltre che dalle loro autobiografie (nelle quali spesso menzionano esplicitamente i loro piatti preferiti), anche nelle loro stesse opere filosofiche, in cui le metafore – diciamo così – culinarie sono ricorrenti e testimoniano un’incredibile attenzione alla sfera eno-gastronomica…Ludwig Feuerbach, a una sua famosa opera del 1862, aveva dato il titolo Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia. L’uomo è ciò che mangia: in tedesco, “der Mensch ist was er ist”. L’obiettivo manifesto che Feuerbach si pone è, naturalmente, quello di sostenere un materialismo radicale e anti-idealistico, a tal punto da portarlo a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò che ingeriamo… Forse questa coincidenza tra essere e mangiare potrà sembrare un po’ eccessiva, ma è innegabile il fatto che, se siamo, è perché mangiamo. Che poi siamo ciò che mangiamo, forse è un po’ troppo, con buona pace di Feuerbach.
Un antico adagio dice che non si può pensare con la pancia vuota: e Aristotele stesso ci ricorda, nella Metafisica (982 b 21), che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari. Platone, che pure a questo mondo preferiva decisamente quello eterno e immutabile delle Idee, non era certo insensibile al mangiar bene: di lui si sa che amava olive e fichi secchi. Nella Lettera settima, inoltre, Platone se la prende con i Siracusani, accusandoli di mangiare ben tre volte al giorno!
È poi risaputo che i Pitagorici teorizzarono il vegetarianesimo come prassi di vita, nella convinzione che l’uomo non dovesse cibarsi di carni perché, nella misura in cui le anime possono reincarnarsi anche negli animali, ciò equivarrebbe a essere cannibali… E Pitagora proibì ai suoi discepoli di mangiare fave e la leggenda vuole che egli stesso, inseguito dai suoi nemici, si fece da essi catturare anziché mettersi in salvo correndo per un campo di fave.
Di Epicuro, invece, è diventata proverbiale l’ingordigia, come se egli in tutta la sua vita non avesse fatto altro che fare grandi abbuffate e grandi bevute… Tant’ che se oggi diamo dell’epicureo a qualcuno, alludiamo alla sua sfrenatezza in materia di piaceri… Eppure quest’immagine di Epicuro che beve e si abbuffa a più non posso non corrisponde pienamente alla realtà, benché, nel tramandarcela, la tradizione sia stata piuttosto uniforme. Nella famosa Lettera a Meneceo, scrive testualmente Epicuro:“Allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento dei sensi – come ritengono alcuni ignoranti che non sono d’accordo oppure che interpretano malamente –, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell’anima. Non sono infatti le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne, né il gustare pesci e altre cibarie, quante ne porta una tavola riccamente imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e repulsa, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime”.All’immagine di un Epicuro che si abbuffa di cibi raffinati, si deve sostituire quella di un uomo sobrio ed equilibrato, che si accontenta di tacitare i morsi della fame con del cibo frugale: fichi e formaggio.
Lo stesso Lucrezio, che si professava epicureo, nel suo poema De rerum natura(III, 931 e ss.) cercava di fugare la paura della morte ricorrendo a un’immagine “culinaria”. Chi si accinge a morire – spiega Lucrezio – deve ragionare come un convitato sazio quando finisce il banchetto: se la vita trascorsa é stata colma di gioia, allora ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice dopo un lauto banchetto; se, al contrario, é stata segnata da dolori e tristezze, non ha senso desiderare che essa prosegua, trascinandosi tra nuove sofferenze.
Ben più radicale degli epicurei era Diogene di Sinope, il celebre “Cinico”: rigettando la sontuosità delle mense imbandite di cibi raffinati che titillano il palato, anch’egli opta per la frugalità dei pasti, tant’è che ci viene spesso descritto nell’atto di mangiare del pane ordinario e delle lenticchie; addirittura, se questo aneddoto non è solo una leggenda, quando vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani, Diogene gettò via dalla bisaccia la ciotola, esclamando con soddisfazione: “un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità!”. Diogene buttò poi via anche il catino, quando vide un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane.
Anch’egli nemico dello sfarzo (senza però arrivare all’estremismo di Diogene),Seneca amava la cucina poco elaborata, alla buona, semplice ma genuina. Egli scrive nel De tranquillitate animi:“Mi piace il cibo che non debbano elaborare e sorvegliare stuoli di servi, non ordinato molti giorni prima né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio né per il corpo, tale da non uscire poi per la stessa via dalla quale è entrato 7. Mi piacciono il servo alla buona e lo schiavetto rustico, l'argenteria massiccia ereditata dal padre contadino che non reca norni di artigiani, e una tavola che non si fa notare per la varietà delle venaturel e che non è famosa in città per il frequente susseguirsi di padroni eleganti, ma che sia improntata alla praticità, tale da non trattenere su di sé gli occhi di nessun commensale per il piacere né accenderli di invidia”.In sintonia coi Pitagorici, anche Porfirio porta avanti la causa vegetariana: nel suo trattato Astinenza dagli animali, egli spiega che gli animali non possono essere sfruttati dall’uomo e considerati semplicemente disponibili per i suoi bisogni. Il suo trattato consiglia l’astinenza anche in un’ottica ascetico-religiosa: un’alimentazione a base di frutta e verdura, più sobria e frugale di quella a base di carne, oltre a essere più salubre per il corpo, è certamente migliore per la vita dell’anima, e più adatta all'uomo religioso che cerca l’assimilazione al divino nel distacco da tutte le passioni e da tutti i piaceri del corpo; gli dèi, inoltre, non gradirebbero affatto i sacrifici cruenti e le combustioni delle vittime, che andrebbero a ingrassare solo il godimento dei dèmoni malvagi. Scrive Porfirio:“La carne non contribuisce alla buona salute, ma è piuttosto di ostacolo ad essa. Infatti la salute si conserva con quei mezzi dai quali essa riceve forza: e riceve forza da una dieta leggerissima e senza carne [...]. Infatti né della forza né dell’accrescimento della robustezza ha bisogno il filosofo se vuole volgere la mente alla contemplazione e non alle azioni e alle intemperanze. Nulla di strano che la maggioranza degli uomini creda che il mangiar carne contribuisce alla buona salute: perché è degli stessi credere che conservano la salute i godimenti e i piaceri erotici, i quali non hanno mai giovato a nessuno, e bisogna contentarsi se non l’hanno danneggiato”.
Uova, noci, riso, patate, pane, mele, biscotti, latte e soprattutto salsicce, sono gli alimenti per i quali Friedrich Nietzsche ebbe una particolare predilezione. Potrebbe sembrare apparentemente alquanto poco usuale che, l’ideatore del Superuomo avesse anche una passione travolgente per il cibo e per alcuni prodotti in modo particolare. Eppure è così. Certo, il suo modo di cibarsi non era particolarmente ordinato e forse neanche dieteticamente equilibrato. Basti pensare che, nel suo ultimo anno di lucidità, il 1888, spesso accostava “bistecca, omelette, prosciutto e tuorli d’uovo crudi con pane”. La sua dieta, come si evince, era tutt’altro che “in bianco”. L’alimento, però, per il quale aveva una vera e propria forma di attrazione erano le salsicce, che si faceva inviare regolarmente per posta dalla madre. Infatti, nell’anno 1880, la quasi totalità della sua corrispondenza con la propria madre, era costituita da una serie interminabile di ordinazioni di prosciutti e salsicce; che egli appendeva delicatamente e con cura, tramite una cordicella, alla parete. Stranamente, come bevanda non amava né l’alcol, né la birra. Al contrario, ebbe parole d’elogio verso la buona acqua, per bere la quale, portava sempre con sé un bicchiere. Nell’anno trascorso a Torino, Nietzsche apprezza molto l’atmosfera che vi si respira. Non manca di parlarne, nella sua fitta corrispondenza, con la sorella, con Peter Gast e con Franz Overbeck. A Torino, era spesso di ottimo umore e raccomandava agli amici di prevedere un soggiorno nella città subalpina. Che cosa lo esaltava particolarmente? Il clima allegro delle persone che incontrava quotidianamente, dalla fruttivendola ai librai, dal gelataio al signor Fino, l’edicolante che gli affittava una stanza in Via Carlo Alberto. Ma soprattutto amava sostare nelle osterie e mangiare i piatti poveri ma molto nutrienti della cucina piemontese. “La cucina piemontese è la mia preferita”, scrive in Ecce homo, la sua autobiografia.
Un antico adagio dice che non si può pensare con la pancia vuota: e Aristotele stesso ci ricorda, nella Metafisica (982 b 21), che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari. Platone, che pure a questo mondo preferiva decisamente quello eterno e immutabile delle Idee, non era certo insensibile al mangiar bene: di lui si sa che amava olive e fichi secchi. Nella Lettera settima, inoltre, Platone se la prende con i Siracusani, accusandoli di mangiare ben tre volte al giorno!
È poi risaputo che i Pitagorici teorizzarono il vegetarianesimo come prassi di vita, nella convinzione che l’uomo non dovesse cibarsi di carni perché, nella misura in cui le anime possono reincarnarsi anche negli animali, ciò equivarrebbe a essere cannibali… E Pitagora proibì ai suoi discepoli di mangiare fave e la leggenda vuole che egli stesso, inseguito dai suoi nemici, si fece da essi catturare anziché mettersi in salvo correndo per un campo di fave.
Di Epicuro, invece, è diventata proverbiale l’ingordigia, come se egli in tutta la sua vita non avesse fatto altro che fare grandi abbuffate e grandi bevute… Tant’ che se oggi diamo dell’epicureo a qualcuno, alludiamo alla sua sfrenatezza in materia di piaceri… Eppure quest’immagine di Epicuro che beve e si abbuffa a più non posso non corrisponde pienamente alla realtà, benché, nel tramandarcela, la tradizione sia stata piuttosto uniforme. Nella famosa Lettera a Meneceo, scrive testualmente Epicuro:“Allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento dei sensi – come ritengono alcuni ignoranti che non sono d’accordo oppure che interpretano malamente –, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell’anima. Non sono infatti le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne, né il gustare pesci e altre cibarie, quante ne porta una tavola riccamente imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e repulsa, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime”.All’immagine di un Epicuro che si abbuffa di cibi raffinati, si deve sostituire quella di un uomo sobrio ed equilibrato, che si accontenta di tacitare i morsi della fame con del cibo frugale: fichi e formaggio.
Lo stesso Lucrezio, che si professava epicureo, nel suo poema De rerum natura(III, 931 e ss.) cercava di fugare la paura della morte ricorrendo a un’immagine “culinaria”. Chi si accinge a morire – spiega Lucrezio – deve ragionare come un convitato sazio quando finisce il banchetto: se la vita trascorsa é stata colma di gioia, allora ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice dopo un lauto banchetto; se, al contrario, é stata segnata da dolori e tristezze, non ha senso desiderare che essa prosegua, trascinandosi tra nuove sofferenze.
Ben più radicale degli epicurei era Diogene di Sinope, il celebre “Cinico”: rigettando la sontuosità delle mense imbandite di cibi raffinati che titillano il palato, anch’egli opta per la frugalità dei pasti, tant’è che ci viene spesso descritto nell’atto di mangiare del pane ordinario e delle lenticchie; addirittura, se questo aneddoto non è solo una leggenda, quando vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani, Diogene gettò via dalla bisaccia la ciotola, esclamando con soddisfazione: “un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità!”. Diogene buttò poi via anche il catino, quando vide un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane.
Anch’egli nemico dello sfarzo (senza però arrivare all’estremismo di Diogene),Seneca amava la cucina poco elaborata, alla buona, semplice ma genuina. Egli scrive nel De tranquillitate animi:“Mi piace il cibo che non debbano elaborare e sorvegliare stuoli di servi, non ordinato molti giorni prima né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio né per il corpo, tale da non uscire poi per la stessa via dalla quale è entrato 7. Mi piacciono il servo alla buona e lo schiavetto rustico, l'argenteria massiccia ereditata dal padre contadino che non reca norni di artigiani, e una tavola che non si fa notare per la varietà delle venaturel e che non è famosa in città per il frequente susseguirsi di padroni eleganti, ma che sia improntata alla praticità, tale da non trattenere su di sé gli occhi di nessun commensale per il piacere né accenderli di invidia”.In sintonia coi Pitagorici, anche Porfirio porta avanti la causa vegetariana: nel suo trattato Astinenza dagli animali, egli spiega che gli animali non possono essere sfruttati dall’uomo e considerati semplicemente disponibili per i suoi bisogni. Il suo trattato consiglia l’astinenza anche in un’ottica ascetico-religiosa: un’alimentazione a base di frutta e verdura, più sobria e frugale di quella a base di carne, oltre a essere più salubre per il corpo, è certamente migliore per la vita dell’anima, e più adatta all'uomo religioso che cerca l’assimilazione al divino nel distacco da tutte le passioni e da tutti i piaceri del corpo; gli dèi, inoltre, non gradirebbero affatto i sacrifici cruenti e le combustioni delle vittime, che andrebbero a ingrassare solo il godimento dei dèmoni malvagi. Scrive Porfirio:“La carne non contribuisce alla buona salute, ma è piuttosto di ostacolo ad essa. Infatti la salute si conserva con quei mezzi dai quali essa riceve forza: e riceve forza da una dieta leggerissima e senza carne [...]. Infatti né della forza né dell’accrescimento della robustezza ha bisogno il filosofo se vuole volgere la mente alla contemplazione e non alle azioni e alle intemperanze. Nulla di strano che la maggioranza degli uomini creda che il mangiar carne contribuisce alla buona salute: perché è degli stessi credere che conservano la salute i godimenti e i piaceri erotici, i quali non hanno mai giovato a nessuno, e bisogna contentarsi se non l’hanno danneggiato”.
Uova, noci, riso, patate, pane, mele, biscotti, latte e soprattutto salsicce, sono gli alimenti per i quali Friedrich Nietzsche ebbe una particolare predilezione. Potrebbe sembrare apparentemente alquanto poco usuale che, l’ideatore del Superuomo avesse anche una passione travolgente per il cibo e per alcuni prodotti in modo particolare. Eppure è così. Certo, il suo modo di cibarsi non era particolarmente ordinato e forse neanche dieteticamente equilibrato. Basti pensare che, nel suo ultimo anno di lucidità, il 1888, spesso accostava “bistecca, omelette, prosciutto e tuorli d’uovo crudi con pane”. La sua dieta, come si evince, era tutt’altro che “in bianco”. L’alimento, però, per il quale aveva una vera e propria forma di attrazione erano le salsicce, che si faceva inviare regolarmente per posta dalla madre. Infatti, nell’anno 1880, la quasi totalità della sua corrispondenza con la propria madre, era costituita da una serie interminabile di ordinazioni di prosciutti e salsicce; che egli appendeva delicatamente e con cura, tramite una cordicella, alla parete. Stranamente, come bevanda non amava né l’alcol, né la birra. Al contrario, ebbe parole d’elogio verso la buona acqua, per bere la quale, portava sempre con sé un bicchiere. Nell’anno trascorso a Torino, Nietzsche apprezza molto l’atmosfera che vi si respira. Non manca di parlarne, nella sua fitta corrispondenza, con la sorella, con Peter Gast e con Franz Overbeck. A Torino, era spesso di ottimo umore e raccomandava agli amici di prevedere un soggiorno nella città subalpina. Che cosa lo esaltava particolarmente? Il clima allegro delle persone che incontrava quotidianamente, dalla fruttivendola ai librai, dal gelataio al signor Fino, l’edicolante che gli affittava una stanza in Via Carlo Alberto. Ma soprattutto amava sostare nelle osterie e mangiare i piatti poveri ma molto nutrienti della cucina piemontese. “La cucina piemontese è la mia preferita”, scrive in Ecce homo, la sua autobiografia.
Sappiamo invece (e non è un pettegolezzo) che, sempre a Torino, Jean-Jacques Rousseau rubò in diverse occasioni… i famosi grissini torinesi, dei quali andava ghiotto. La ben nota scrupolosità di Immanuel Kant trovò anche in sede alimentare un suo campo d’applicabilità: il filosofo tedesco fu sicuramente quello che definiremmo oggi una “buona forchetta”. In particolare, quando assaggiava qualcosa di nuovo che gli piaceva, non mancava di farsi dare la ricetta. Tra le sue abitudini alimentari più bizzarre ricordiamo che, quando mangiava la carne, la masticava a lungo in modo da ricavarne il succo, che poi ingoiava, mentre la parte solida non veniva ingoiata. Non era di suo gradimento la cucina particolarmente sofisticata: preferiva quella semplice e alla buona. A differenza delle abitudini moderne, tutti i suoi pasti duravano molto, poiché non mangiava velocemente e non gli piaceva alzarsi dalla tavola subito dopo aver finito il pasto. Non mangiava mai da solo, poiché sosteneva che mangiare da soli è nocivo e che c’è sempre bisogno di una buona compagnia, alla quale faceva recapitare sin dal mattino l’invito a pranzo. Preferiva che i commensali fossero da tre a nove: “non meno delle Grazie e non più delle Muse”. Un aneddoto racconta che, un giorno, ritrovandosi da solo, disse al proprio cameriere di invitare il primo passante a pranzare con lui. Solamente i suoi pranzi erano particolarmente lunghi ed elaborati; la sua colazione, invece, che consumava alla cinque del mattino, consisteva soltanto in una o due tazze di tè. Durante le stagioni calde, sembra che Kant avesse l’abitudine di mangiare con la finestra che si affacciava sul giardino aperta, in modo che l’aria profumata stimolasse il suo appetito e la sua digestione. Si può allora dire che Kant non si cibava solo di quelle idee che sconvolsero il pensiero filosofico a partire dal 1700... Pare aggiungesse la senape ad ogni alimento e andasse matto per il baccalà e per il formaggio olandese.
Dal canto suo, Ludwig Wittgenstein al cibo non s’interessava affatto: l’importante era che in tavola trovasse sempre lo stesso piatto…
Karl Marx sembrava invece attento al bere più che al mangiare: in particolare, egli era un gran bevitore di birra, specie nei suoi anni universitari.
Anche Hegel pare che non disdegnasse il bere, preferendo però il vino alla birra: addirittura, per render conto del passaggio dalla religione alla filosofia all’interno del suo sistema, egli spiega che è un po’ come con lo champagne, quando nel calice la schiume si fonde con vino… Il più materialista dei materialisti, l’ateo illuminista La Mettrie, pare amasse gozzovigliare e fare pasti pantagruelici: a tal punto che sarebbe morto per un indigestione di patè di fagiano, di cui era davvero ghiotto (forse troppo…).
E Arthur Schopenhauer, dal canto suo, consumava i suoi pasti generalmente al “Ristorante Inglese”: cominciando a mangiare, metteva sulla tavola, dinanzi a se, una moneta d’oro, che riponeva in tasca a pasto finito. Un cameriere, senza dubbio indignato, gli chiese alla fine il significato di quell’invariabile cerimonia. Schopenhauer rispose di aver promesso a se stesso di lasciar cadere la moneta nella cassetta dei poveri il primo giorno in cui avesse udito gli ufficiali inglesi, che pranzavano nel ristorante, discorrere di qualche cosa che non fosse di cavalli o di donne o di cani… Con un’immagine alquanto efficace, Ernst Bloch dice che “l’uomo non vive di solo pane, specialmente quando non ne ha”: fuor di metafora, è nei momenti più desolati e difficili (le carestie, le guerre, ecc) che si fa sentire con più forza la spinta a trascendere il presente e a sperare in un futuro migliore.
La gola del filosofo. Il mangiare come metafora del pensare.
Homo animal edax
Nel frontespizio del primo volume dell'"Almanach des Gourmands" di Grimond de la Reynière, stampato nel 1804 a Parigi, è raffigurata una strana e singolare libreria. Si tratta della biblioteca del goloso. Qui, sui lignei e seriosi scaffali a muro rappresentati nell'incisione che, alti e profondi, giungono fino al soffitto e fanno pensare al facile anacronismo di un gigantesco e capiente frigorifero, trovano posto, accostate in luogo dei volumi rilegati in pelle e oro zecchino, provviste alimentari d'ogni tipo. Ci sono il porcellino da latte, il cappone, i salumi e i paté, liquori, formaggi e bottiglie di vino, boccali di frutta sotto spirito, vasi di verdure sott'olio e sott'aceto, budini farciti, panettoni e dolci ripieni. Al centro della stanza, una tavola imbandita di leccornie sostituisce lo scrittoio dell'erudito, mentre dal soffitto, a mo' di lampadario in vetro di Murano, pende un enorme e gustoso prosciutto. Leggere è mangiare, scrivere è cucinare. Parola e cibo, sapere e sapore sono, nella nostra cultura, circondati da un'aria di famiglia che lo stesso linguaggio si affretta a testimoniare. Noi abbiamo "appetito" di conoscenza, "sete" di sapere o "fame" d'informazioni. Noi "divoriamo" un libro, "facciamo indigestione" di dati, "abbiamo la nausea" di leggere o di scrivere, non siamo mai "sazi" di racconti, "mastichiamo" un po' di inglese, "ruminiamo" qualche progetto, "digeriamo" a fatica alcuni concetti, mentre "assimiliamo" meglio certe idee piuttosto che altre. Noi ci "beviamo" una storia soprattutto se nel narrarcela sono state usate parole "dolci", invece di condirla con "amare" considerazioni, con battute "acide" o "disgustose", o, peggio, con allocuzioni "insipide" e "senza sale". Non a caso le storielle più "appetitose" sono quelle infarcite di aneddoti "pepati", di descrizioni "piccanti" e, vuoi anche, di paragoni "gustosi".
Ecco allora che a partire dall'analogia fra il nutrimento del corpo e il nutrimento della mente è possibile riconsiderare il rapporto, in verità non troppo sotterraneo, fra il cibo e il pensiero. Fra le cose che distinguono l'uomo dagli altri esseri viventi vi è il particolare legame che egli, sin dall'inizio della sua storia, ha istituito con il cibo. Gli animali si nutrono, l'uomo mangia e, nel mangiare, non si accontenta di consumare gli alimenti, ma insieme li pensa, ha, cioè, nei confronti dei cibi, un rapporto eminentemente simbolico. Il detto "parla come mangi", al di là dell'invettiva del luogo comune, rivela un fondo di verità difficilmente smentibile. La cultura umana si specchia, infatti, tanto nelle parole del linguaggio che dalla bocca escono, quanto in quegli alimenti e in quelle pietanze che nella bocca, invece, entrano. Se l'atto biologico di mangiare è sempre anche un atto simbolico, la prima sfera che il cibo incontra è quella religiosa. Nel sacrificio, come ci insegna il mito greco di Prometeo, è in ballo la stessa ripartizione delle risorse alimentari fra gli dèi e gli uomini. Allora, Prometeo non è soltanto colui che consegna agli uomini il dono del fuoco, ma anche il benefattore che, ingannando gli dèi con il fumo delle ossa, delle pelli e del grasso delle vittime sacrificali, consente agli uomini di cibarsi delle carni degli animali uccisi senza commettere sacrilegio. Nelle culture tradizionali, dietro all'aspetto rituale del mangiare vi è sempre l'ombra del sacrificio.
Un sacrificio che stabilisce le regole alimentari, determinando i codici di ciò che è puro e di ciò che è impuro, di ciò che è lecito e di ciò che è tabù. Un sacrificio che doveva riguardare, all'inizio, lo stesso impiego e, in seguito, la sostituzione della vittima umana (remota testimonianza, forse, di un pasto cannibalico), come sembrano documentare i miti paralleli di Ifigenia, nella cultura greca, e di Isacco, in quella ebraica. Ma l'intrinseco simbolismo religioso del cibo si riflette sia nelle culture del sangue e della carne, che nelle culture prevalentemente vegetariane, come quella del riso. Già nel "Milione" Marco Polo raccontava dell'esistenza, in Cina, di ben 54 tipi di riso. In giapponese "gohan", significa "riso cotto", "pranzo" e "buon appetito", attestando la coincidenza di quest'alimento con la sfera dell'alimentazione tout court. In ogni chicco di riso si ritrova, così, l'anima della Dea Madre, che presiede alla fecondazione e alla generazione degli uomini. Questi ultimi, per non offenderla, avranno l'accortezza - a tutt'oggi ancora in vigore, in Oriente -, di cuocere il riso lontano dai campi in cui è stato colto. Il rapporto con il cibo come fonte di vita spinge l'uomo all'osservanza e al rispetto della natura. Anche quando, come nella cultura eschimese, l'unica fonte alimentare, o quasi, è rappresentata dalla carne degli animali, questo fatto è motivo di seria apprensione e di timore. "La vita è esposta ad un grande pericolo", dicono gli inuit della Groenlandia, "perché la nutrizione umana è basata sul consumo di anime". In questa prospettiva, la comparsa del pensiero filosofico, anche nella simbolica del cibo, sovverte laicamente il grande paradigma sacrificale della religione. Dal punto di vista più generale la filosofia è attività essenzialmente autofagica, autocannibalica.
Fonte:Giornale di confine, Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006
Cibo e filosofia:
Nelle antiche raffigurazioni iconografiche la filosofia era rappresentanta come un'orsa colta nell'atto di divorarsi la zampa. Questa figura era simbolo dell'autosufficienza della disciplina che, come recitava il motto che spesso si accompagnava all'immagine, "ipse alimenta sibi", "trae da se stessa il suo proprio nutrimento". Tuttavia, al destino autofagico della filosofia può fungere da divertente appendice aneddotica l'esame di quello che già Michel Onfray chiamava "il ventre dei filosofi". Guardare i filosofi dal punto di vista della pancia, infatti, può riservare qualche divertente sorpresa. Per esempio, Platone era ghiottissimo di fichi secchi e olive, che divorava anche all'Accademia, fra una lezione e l'altra. Se Platone preferiva, per così dire, degli stuzzichini, le abitudini alimentari di Aristotele dovevano essere, indubbiamente, più ricercate dal momento che la tradizione ci dice che avesse una ricchissima collezione di pentole. Le prime prescrizioni dietetiche in filosofia risalgono tuttavia a Pitagora che, circa un secolo prima di Socrate e Platone, per i seguaci della scuola pitagorica aveva prescritto una dieta prevalentemente vegetariana, a base di verdure cotte e crude, sale, pane, acqua pura, vietando assolutamente il consumo del pesce fragolino, del melanuro, della matrice, della triglia, del cuore degli animali e delle fave. Epicuro, invece, pare debba la cattiva nomea dell'epicureismo non solo al frutteto dove si incontrava con i suoi discepoli - il Giardino che diede nome alla sua scuola -, quanto al suo debole per il formaggio cotto in una pentolina, una specie di fonduta valdostana ante litteram.
Diogene e i cinici furono gli inventori del "fast food", perché per primi predicarono la necessità di consumare i cibi per strada e in piazza, senza troppe cerimonie né preparazioni, nutrendosi contemporaneamente (e quindi, si suppone, in una forma che ricorda il moderno sandwich o il panino) del pane che faceva da piatto e del companatico che esso conteneva, in genere una manciata di lenticchie o di lupini, fichi secchi o olive. Di Zenone di Cizio, caposcuola degli stoici, è nota la predilezione per i fichi verdi, il miele e il vino. Di quel Carneade su cui s'interrogava il don Abbondio manzoniano, che fu uno scettico in seno alla scuola platonica, non conosciamo i gusti alimentari, ma sappiamo che era solito farsi imboccare da una schiava, perché, tutto assorbito dai suoi pensieri, dimenticava persino di portare il cucchiaio alla bocca. Per venire a tempi più recenti è nota l'assoluta predilezione di Kant per la senape, con cui insaporiva i pranzetti che, a detta dei biografi, il filosofo era solito preparare per gli allievi più cari. Ma il debole di Kant era il caffé, di cui, nonostante temesse gli effetti nocivi, si concedeva ben due tazze ogni mattina. Fra i secondi la predilezione di Kant andava senza dubbio al baccalà, di cui, anche quand'era sazio, non disdegnava di "fare il bis", magari con il piatto "fondo" ben pieno. A detta dei biografi, poi, Kant a tavola, lungi dall'intrattenere i commensali con discorsi filosofici o sulla rivoluzione che, in quegli anni, era all'"ordre du jour", preferiva discettare, con minuziosa precisione, sulle pietanze e sulle loro ricette che, se invitato, non esitava a richiedere insistentemente ai padroni di casa. Altra cosa, di certo, rispetto a quei fiocchi d'avena di cui, a quanto pare, si nutriva quasi esclusivamente l'ascetico Wittgenstein. Completamente digiuno di cucina era, al contrario di Kant, il buon marchese di Condorcet, la cui scarsa confidenza con pentole e pignatte fu, a suo modo, fatale. Durante la fuga dalla ghigliottina, infatti, il blasonato "philosophe" del progresso infinito dell'umanità giunse sfinito ad un'osteria di campagna e, per rifocillarsi, chiese allo stupito avventore un'omelette di ben dodici uova.
L'oste, insospettito, lo consegnò subito alle "cure" dei sanculotti. Sulla predilezione dei filosofi per la bevanda dionisiaca per antonomasia ci sarebbe, poi, molto da dire - Massimo Donà, di recente, ce ne ha dato ampio assaggio con la sua "Filosofia del vino" -, cominciando da quel buon rosso (non si sa se fosse un Bourgogne, in onore della Révolution, o un nostrano Barolo, come anche poco prima di morire Hans Georg Gadamer confidava di preferire) che Hegel stappava ogni 14 luglio, per ricordare la presa della Bastiglia, e ogni 31 ottobre, per commemorare l'inizio della Riforma protestante, o dal rosso bordolese del quale Montesquieu in persona curava la vendemmia. Ma non avendone lo spazio, ci limitiamo a ricordare quella del religiosissimo Kierkegaard, che associava volentieri il vino al pollo (arrosto o lesso non ci è dato sapere). Più vicina a noi va ricordata la passione di Martin Heidegger per il "Kartoffelsalat" e, in negativo, l'assoluta imperizia di Ernst Cassirer in cucina. Entrandovi forse per la prima volta durante un'influenza della moglie, il filosofo delle "forme simboliche" mise a scaldare il latte sul fuoco con tutta la bottiglia, producendo una disastrosa esplosione che, negli ambienti accademici tedeschi, fa ancora sorridere.
Fonte: Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006
Cucina e filosofia:
Per Francesca Rigotti, autrice di un prezioso e delizioso volumetto su "La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria", cucinare significa seprarare e ricomporre, in forme ordinate e secondo rituali precisi, le materie prime che compongono i cibi. Alla presenza del fuoco che, come lo spirito, "solvet et coagulat", gli elementi si uniscono e si dividono, le cose si assimilano o si separano fra loro. La cucina non è un universo caotico, in cui tutto e il contrario di tutto possono essere mischiati, come in un unico calderone ove cuoce il terribile minestrone del brodo universale. La cucina, scrive Rigotti, è, invece, un "sistema chiuso", dotato di rituali e regole precise, che vanno rispettate, oppure violate, ma solo dopo esser state ben apprese. Queste regole e questi rituali si chiamano ricette. Le ricette sono, in cucina, ciò che per Platone, in filosofia, erano le idee, ossia modelli intellettuali, dotati di una loro forma e di una loro conoscibilità specifica. Mediante le ricette i piatti acquistano l'universalità dell'originale: sono, cioè, identificabili e riproducibili. Guardando alle ricette così come il demiurgo guarda alle idee, il cuoco può sfornare un'illimitata teoria di copie alimentari, assicurando una stabilità e una riconoscibilità dei piatti e delle portate. Fra gli appunti di Kant che precedono la stesura della "Critica della ragion pura" ve n'è uno che afferma che "nel gusto ognuno di noi ha il modello o l'idea originale in testa".
Ma il fondamento che cucina e filosofia hanno in comune, sin dalla più antica metafisica greca, è quello che la totalità di qualcosa non coincide con l'enumerazione delle parti che la compongono. Così come il risultato di un piatto, per esempio un timballo o un soufflé, è superiore alla semplice addizione dei suoi ingredienti, anche il tutto è superiore alla mera somma delle parti. "L'uva passa", scriverà Wittgenstein in un efficace aforisma culinario dei suoi "Pensieri diversi", "può anche essere quanto vi è di meglio in una torta; ma un cartoccio di uvette non è migliore di una torta; e chi ce ne offre un cartoccio pieno non per questo sarà in grado di cucinarci una torta - e tantomeno di fare qualcosa di meglio". In greco il cuoco si dice "màgheiros", "colui che impasta", da una radice "mag" che risuona nel nostro "mangiare", ma soprattutto nel tedesco "machen" e nell'inglese "to make", ossia nel più generico "fare". Se i manuali di storia della filosofia ci presentano il primo grande dilemma del pensiero occidentale consumarsi intorno al problema dell'uno e del molteplice, con la tenzone fra i cuochi-filosofi di scuola eleatica, come Parmenide, o di scuola ionica, come Eraclito, sulla questione non esiterà a schierarsi neppure la cucina comune. Ci sono, infatti, piatti pluralisti per antonomasia, come, per fare un esempio, la macedonia di frutta, la paella, il cous-cous o una buona insalata mista, mentre nella trippa, nella cassoeula, nel passato di verdura, nelle tortillas o nella frittata di cipolle, gli elementi del molteplice si fondono gli uni con gli altri, mescolando sapori ed odori in unica ed armonica sintesi.
Inutile dire che in cucina come in filosofia l'Occidente ha sempre preferito la soluzione monista e la culinaria magnifica l'assimilazione, piuttosto che la separazione. Sarà forse per questo che Jean-Paul Sartre, nel descrivere il difetto prevalente del pensiero occidentale, parlerà di "filosofia alimentare", di "filosofia digestiva" che deglutisce e assimila le cose, privandole della loro corposità. Contro questo paradigma del pensiero Sartre indicherà la fenomenologia di Husserl, antidigestiva per eccellenza, che ci strappa dalla "nera intimità gastrica" degli stomaci di coloro che intendono la conoscenza come possesso, consentendo di vedere "le cose stesse" all'aperto, fuori dalla coscienza. Digestiva per eccellenza è, invece, la filosofia di Hegel, che nel processo dialettico e nella conoscenza del soggetto vede in opera lo stesso meccanismo della digestione dei cibi, così com'era stato riassunto da Spallanzani e dalle osservazioni della moderna fisiologia medica: "l'organismo assorbe immediatamente, in quanto potenza universale, il cibo ingoiato, ne "nega" la sua natura "relativamente" inorganica e lo pone come identico a sé, cioè lo as-simila". In tempi di cibi transgenici e polpettoni fast-food, questa assimilazione-incorporazione dell'oggetto-cibo al soggetto-mangiatore non può non destare qualche preoccupazione. Di qui la "nausea" del filosofo, come ci insegnerà il fortunato romanzo di Sartre, che oppone al mondo vischioso, molle e dolciastro dell'esistenza, simile ai Big Mac e all'Apple Pie che ci spacciano i McDonald's, la coriacea durezza della coscienza, la sua croccante semplicità.
Croccante come i cracker di Wittgenstein, che interrompevano i frequenti digiuni dell'autore del "Tractatus logico-philosophicus". Sì, perché filosofia e culinaria possono anche opporsi radicalmente, come sosteneva Platone nel "Gorgia", in quanto, mentre la filosofia ha per mira il benessere dell'anima mediato dalla conoscenza, la culinaria mira solo al piacere del corpo e procede per tentativi. Essa è paragonabile, quindi, a tutta una serie di pseudo-arti, come la ginnastica, la cosmetica e soprattutto la retorica. Arti senza conoscenza, che lusingano i nostri sensi, ma che spesso sono controproducenti per la nostra salute. Così la filosofia sta alla retorica come la dietetica medica sta alla gastronomia e come la politica sta alla demagogia: in poche parole, come l'anima razionale sta all'oscurità del ventre. Il filosofo ghiottone è, quindi, quasi una contraddizione in termini, ed è tutta qui l'origine della cattiva fama che, nel Medioevo, dovette scontare Epicuro, semplicemente per essersi limitato ad affermare che "principio e radice di ogni bene è il piacere del ventre".
Fonte:Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006
Golosità e filosofia:
Benché Dante li sprofondi nel terzo cerchio dell'Inferno, prostrati nel fango e sferzati da una pioggia fetida mista d'acqua, grandine e neve, i golosi non paiono, agli occhi della sensibilità moderna, imputabili di una così grave mancanza. La golosità, da peccato capitale meritevole di eterna pena è divenuta, per gli uomini dell'inizio del terzo millennio, il condimento veniale di tutte le età della vita. Semmai, la "dannosa colpa della gola", come la chiamava l'Alighieri nella "Divina Commedia" non è più, al giorno d'oggi, un errore morale, quanto un'infrazione dell'ordine estetico. Agli imperativi etici delle società della fame e della penuria, la moderna civiltà dei consumi ha sostituito, da tempo, le prescrizioni, talvolta altrettanto ferree e vincolanti per le esigenze della moda e del pubblico apparire, della dietetica. Il pensiero medievale giudica la gola una forma particolare di intemperanza dei sensi. Se la lussuria è il peccato della carne inerente all'eccesso nella sfera sessuale, la golosità è il peccato della carne che riguarda l'eccesso nell'ambito alimentare. Si tratta di una colpa che avvilisce l'uomo alla condizione bestiale, appiattendolo a livello della semplice materia. A differenza del lussurioso, che ha bisogno del prossimo almeno come oggetto di piacere, il goloso sembra ignorare ogni altra umanità, concentrandosi egoisticamente sul referto di quei sensi - il tatto, l'odorato e, ovviamente, soprattutto il gusto - che lo mettono in relazione con il cibo.
Detto ciò, tuttavia, i moralisti del Medioevo si videro alle prese con una difficoltà aggiuntiva rispetto al caso esemplare della lussuria, contro la quale, forti dello stato celibatario di monaci e chierici, potevano sempre predicare la continenza. Al di là della pratica eccezionale del digiuno, nella sfera alimentare emerge, infatti, l'esigenza ineludibile di discernere, data la necessità fisiologica del nutrimento, fra bisogno e desiderio. Come scriveva Tommaso d'Aquino nella "Summa Teologica", "poiché al mangiare è connesso necessariamente il piacere, non si riesce a distinguere ciò che è richiesto dalla necessità da ciò che vi aggiunge il piacere". Nell'atto di mangiare, scrive san Tommaso, noi soddisfiamo due tipi di appetito, l'"appetito naturale", a cui appartengono le sensazioni primarie della fame e della sete e l'ambito fisiologico del bisogno, e l'"appetito sensitivo", che presiede al desiderio dei cibi e dei gusti, e i cui stravizi vanno a costituire il peccato della gola. La distinzione formulata da san Tommaso permette di separare le sorti del goloso da quelle dell'ingordo. Se l'ingordigia è l'eccesso quantitativo della fame e, quindi, l'insaziabilità dell'appetito naturale, la golosità ha a che fare, piuttosto, con l'affinamento qualitativo dei sensi. La gola non si appaga per la materialità del cibo, ma per l'esaltazione sfrenata delle sensazioni del palato che sfuggono al controllo e alla moderazione della ragione.
L'autore della "Summa Teologica" parrebbe incline a considerare la gola un peccato veniale, anche se le sue conseguenze possono essere mortali. È questa, invece, l'opinione di san Giovanni Crisostomo, che all'intemperanza del mangiare riconduce lo stesso peccato originale. Cosa fu, infatti, la colpa di Adamo, se non il desiderio di assaggiare un frutto, quello dell'albero della conoscenza del bene e del male, che Dio gli aveva proibito? Dunque, l'intemperanza alimentare può, per i suoi effetti secondari, trasformarsi nel più grave dei peccati. Prova ne è che, talvolta, essa viene punita da Dio con il castigo immediato della malattia, dal momento che la golosità spesso nuoce alla salute del corpo. Dalle remote pagine degli autori medievali emerge, anticipata nell'abbozzo di questa specie di giustizia immanente, la traduzione del peccato etico della gola nella colpa dietetica - medica ed estetica - dei moderni. Essere golosi è un modo di stare al mondo che si compone di godimenti, desideri, sensazioni, ma soprattutto di parole, rappresentazioni e fantasmi. Nella bocca cibo e parola, si diceva, s'incrociano in un complesso intrico di ordini simbolici, di echi e di rimandi. Come non dare ragione a Gisèle Harrus-Révidi quando, nella sua "Psicanalisi del goloso", ella rileva l'estrema elaborazione linguistica, la raffinata capacità descrittiva del "gourmet", l'inevitabile pratica della parola, la letterarietà intrinseca presupposta alla nascita della gastronomia. Il piacere del goloso, nota la Harrus-Révidi, è un piacere simbolico, che si sviluppa in due direzioni. La prima direzione, quella dell'arte culinaria sofisticata, è "estetica" e si esprime in termini di riflessione teorica e giudizio di valore sul livello di qualità del piacere del palato. È l'inclinazione del "gourmet" che, come scriveva Brillat-Savarin nella sua celebre "Fisiologia del gusto", permette di "cogliere il particolare sapore della coscia sulla quale la pernice si è appoggiata nel sonno". La seconda direzione è "affettiva" e riguarda quel gusto inimitabile, legato alla quotidianità e all'ordine dei rapporti affettivi, che Proust sintetizzava nel ricordo emblematico del dolce della "madeleine" e del suo profumo.
La figura del goloso ci permette così di individuare nel nesso fra il cibo e la parola, fra il piatto e la sua immagine fantasmatica, la nostalgia figurale di un rapporto diretto, di un contatto materno, immemoriale e originario, con il nutrimento e la sua rassicurazione. Dietro tutte le utopie sociali e politiche, dietro ogni terra promessa dove, non a caso, scorrono sempre latte e miele, c'è l'utopia alimentare di quell'identità assoluta e perfetta che ripristina l'unione con il seno materno, con il cibo tradizionale, con i buoni sapori genuini. La vocazione della filosofia ha, a ben vedere, molte tangenze con questa duplice declinazione, estetica e affettiva, della golosità quale ricerca di sublime autosufficienza e insieme di assoluta originarietà: di raffinato gioco linguistico e di scavo nell'ineffabilità dell'immemoriale. Anche quando è spinta verso ascetici e continenti propositi, la gola del filosofo continuerà a nutrirsi di cibi, seppure solo "in figuris", come nelle metafore del "pane della verità", delle "parole di latte", dell'"uovo cosmico", dell'"in vino veritas" e, vuoi anche, per gli amanti dei superalcolici, della fenomenologia dello "spirito". Allora, il pericolo sarà, semmai, come già aveva intuito Aristotele nell'"Etica nicomachea", che, per la prossimità della gola con la parola, il vizio si trasformi per contiguità, e la golosità del filosofo si traduca nell'ingordigia, ovvero nell'irrefrenabile loquacità del chiacchierone.
Fonte:"XÁOS. Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006
Detto ciò, tuttavia, i moralisti del Medioevo si videro alle prese con una difficoltà aggiuntiva rispetto al caso esemplare della lussuria, contro la quale, forti dello stato celibatario di monaci e chierici, potevano sempre predicare la continenza. Al di là della pratica eccezionale del digiuno, nella sfera alimentare emerge, infatti, l'esigenza ineludibile di discernere, data la necessità fisiologica del nutrimento, fra bisogno e desiderio. Come scriveva Tommaso d'Aquino nella "Summa Teologica", "poiché al mangiare è connesso necessariamente il piacere, non si riesce a distinguere ciò che è richiesto dalla necessità da ciò che vi aggiunge il piacere". Nell'atto di mangiare, scrive san Tommaso, noi soddisfiamo due tipi di appetito, l'"appetito naturale", a cui appartengono le sensazioni primarie della fame e della sete e l'ambito fisiologico del bisogno, e l'"appetito sensitivo", che presiede al desiderio dei cibi e dei gusti, e i cui stravizi vanno a costituire il peccato della gola. La distinzione formulata da san Tommaso permette di separare le sorti del goloso da quelle dell'ingordo. Se l'ingordigia è l'eccesso quantitativo della fame e, quindi, l'insaziabilità dell'appetito naturale, la golosità ha a che fare, piuttosto, con l'affinamento qualitativo dei sensi. La gola non si appaga per la materialità del cibo, ma per l'esaltazione sfrenata delle sensazioni del palato che sfuggono al controllo e alla moderazione della ragione.
L'autore della "Summa Teologica" parrebbe incline a considerare la gola un peccato veniale, anche se le sue conseguenze possono essere mortali. È questa, invece, l'opinione di san Giovanni Crisostomo, che all'intemperanza del mangiare riconduce lo stesso peccato originale. Cosa fu, infatti, la colpa di Adamo, se non il desiderio di assaggiare un frutto, quello dell'albero della conoscenza del bene e del male, che Dio gli aveva proibito? Dunque, l'intemperanza alimentare può, per i suoi effetti secondari, trasformarsi nel più grave dei peccati. Prova ne è che, talvolta, essa viene punita da Dio con il castigo immediato della malattia, dal momento che la golosità spesso nuoce alla salute del corpo. Dalle remote pagine degli autori medievali emerge, anticipata nell'abbozzo di questa specie di giustizia immanente, la traduzione del peccato etico della gola nella colpa dietetica - medica ed estetica - dei moderni. Essere golosi è un modo di stare al mondo che si compone di godimenti, desideri, sensazioni, ma soprattutto di parole, rappresentazioni e fantasmi. Nella bocca cibo e parola, si diceva, s'incrociano in un complesso intrico di ordini simbolici, di echi e di rimandi. Come non dare ragione a Gisèle Harrus-Révidi quando, nella sua "Psicanalisi del goloso", ella rileva l'estrema elaborazione linguistica, la raffinata capacità descrittiva del "gourmet", l'inevitabile pratica della parola, la letterarietà intrinseca presupposta alla nascita della gastronomia. Il piacere del goloso, nota la Harrus-Révidi, è un piacere simbolico, che si sviluppa in due direzioni. La prima direzione, quella dell'arte culinaria sofisticata, è "estetica" e si esprime in termini di riflessione teorica e giudizio di valore sul livello di qualità del piacere del palato. È l'inclinazione del "gourmet" che, come scriveva Brillat-Savarin nella sua celebre "Fisiologia del gusto", permette di "cogliere il particolare sapore della coscia sulla quale la pernice si è appoggiata nel sonno". La seconda direzione è "affettiva" e riguarda quel gusto inimitabile, legato alla quotidianità e all'ordine dei rapporti affettivi, che Proust sintetizzava nel ricordo emblematico del dolce della "madeleine" e del suo profumo.
La figura del goloso ci permette così di individuare nel nesso fra il cibo e la parola, fra il piatto e la sua immagine fantasmatica, la nostalgia figurale di un rapporto diretto, di un contatto materno, immemoriale e originario, con il nutrimento e la sua rassicurazione. Dietro tutte le utopie sociali e politiche, dietro ogni terra promessa dove, non a caso, scorrono sempre latte e miele, c'è l'utopia alimentare di quell'identità assoluta e perfetta che ripristina l'unione con il seno materno, con il cibo tradizionale, con i buoni sapori genuini. La vocazione della filosofia ha, a ben vedere, molte tangenze con questa duplice declinazione, estetica e affettiva, della golosità quale ricerca di sublime autosufficienza e insieme di assoluta originarietà: di raffinato gioco linguistico e di scavo nell'ineffabilità dell'immemoriale. Anche quando è spinta verso ascetici e continenti propositi, la gola del filosofo continuerà a nutrirsi di cibi, seppure solo "in figuris", come nelle metafore del "pane della verità", delle "parole di latte", dell'"uovo cosmico", dell'"in vino veritas" e, vuoi anche, per gli amanti dei superalcolici, della fenomenologia dello "spirito". Allora, il pericolo sarà, semmai, come già aveva intuito Aristotele nell'"Etica nicomachea", che, per la prossimità della gola con la parola, il vizio si trasformi per contiguità, e la golosità del filosofo si traduca nell'ingordigia, ovvero nell'irrefrenabile loquacità del chiacchierone.
Fonte:"XÁOS. Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006
A cena con Nietzsche:
Nell’anno trascorso a Torino Nietzsche apprezza molto l’atmosfera che vi si respira. Non manca di parlarne, nella sua fitta corrispondenza, con la sorella, con Peter Gast e Franz Overbeck.
A Torino era spesso di ottimo umore e raccomandava agli amici di prevedere un soggiorno nella città subalpina. Che cosa lo esaltava particolarmente? Il clima allegro delle persone che incontrava quotidianamente, dalla fruttivendola ai librai, dal gelataio al signor Fino, l’edicolante che gli affittava una stanza in Via Carlo Alberto. Ma soprattutto amava sostare nelle osterie e mangiare i piatti poveri ma molto nutrienti della cucina piemontese.
Una cena con i sapori di fine Ottocento, è una occasione per sedersi a tavola e gustare il cibo che Nietzsche amava.
Il Menù antipasto
pinzimonio con verdure invernali e salsa all’aglio
tomini al verde, salame poco salato
primi piatti
terrina con zuppa di cavolo verza passata in forno
tagliolini con burro e salvia
trippa con i fagioli oppure formaggi (Castelmagno e Raschera)
dessert
Bounet con sapore amaro di Fernet
per accompagnare la cena
Dolcetto Cravanzola o Roero Cravanzola di Castellinaldo
per finire e avvicinarsi al piacere dionisiaco:
Bonmé vino moscato aromatizzato con Arthemisia Absinthium