I filosofi e gli animali: l'imperscrutabile dolcezza dei gatti
Lo sguardo dei gatti, le loro plastiche movenze e l’abitudinaria discrezione dei loro atti fanno parte della più intima biografia di Piero Martinetti, il filosofo che scelse di non piegarsi al fascismo, rinunciando all’insegnamento universitario.[1] Dei tanti gatti che in anni assai difficili gli tennero compagnia, Martinetti ha conservato la memoria in carte private, dedicando a Minolino, Pasqualino, Morin e Grisetto annotazioni diaristiche simili a piccoli epitaffi. Della gattina grigia morta di malattia nel dicembre 1926 scrive che era «così giovane, graziosa e gentile» e che la morte l’ha relegata ad un «passato che non torna».[2] Le sue parole sono cariche di gratitudine per tutti i gatti di casa che gli scaldarono il cuore, la cui morte era sempre un lutto doloroso che spezzava l’ordine degli eventi. Così, della «povera micina bionda e nera» venuta a mancare improvvisamente annota giorno, ora e minuti del decesso (e per altri gatti anche il luogo della sepoltura), come se la bilancia del tempo e degli affetti domestici avesse allora sospeso la sua azione. «Ricorderai sempre il suo musino innocente, i suoi occhi semplici e buoni che mi guardavano con meraviglia ingenua quando io la guardavo con tenerezza. Essi mi hanno lasciato un ricordo, un desiderio e un rimpianto di purezza e di bontà».[3]
Ancora una volta, parlando di gatti, c’imbattiamo nel tema dello sguardo, la chiave rivelatrice di una possibile confidenza tra animali non umani e uomini. Ma se per Derrida lo sguardo della sua gatta era comunque muto e «denudante», per Martinetti aveva, invece, un’eloquenza ammaliatrice capace di dire molte cose. A proposito di «una povera gattina grigia» che era solita seguirlo per le vigne scrive che «Nei suoi occhi io riposavo i miei, nel suo essere caro io sentivo un conforto, come in nessun essere umano».[4] Il paragone («come in nessun essere umano») è forte, ma la dice tutta sull’attrazione che il mondo felino provocava in Martinetti. Grazie anche ai temi orientaleggianti della filosofia di Schopenhauer, di cui nei primi del Novecento fu uno dei più qualificati studiosi, Martinetti praticherà il vegetarianesimo, dando nei suoi testi rilevanza speculativa alla questione animale, quando ancora la cultura occidentale doveva scoprire (o riscoprire, se si preferisce) la sua vera e urgente vocazione ecologica. Nei gatti, nei loro occhi e, quindi, nella loro scomparsa, Martinetti coglie il riflesso di un mistero che avvolge e accomuna tutti gli esseri viventi: «la gran morte di tutte le cose, dell’amore, della speranza, degli affetti più cari… l’amarezza irreparabile di tutte le persone, la rivolta disperata ed inutile contro il destino che spegne successivamente intorno a noi tutto ciò che è più intensamente nostro, tutto ciò che è parte di noi».[5]
Martinetti è convinto che «ogni specie animale, come ha la sua anima, ha il suo mondo». Anche gli esseri più piccoli presenti nella scala animale hanno uno spazio che gli appartiene. «Noi li vediamo nel nostro mondo e collochiamo il loro mondo nel nostro come una variazione o una riduzione del nostro mondo, del vero mondo, in cui essi e noi viviamo. Ma è questo il vero mondo?»[6] La risposta è chiara: non può dirsi vero un mondo che prevarica gli altri e che dà l’illusione (per Martinetti le cose stavano così) di essere i titolari della più alta dignità presente nell’universo.[7] E gli animali? L’uomo li disprezza nella misura in cui dimostra di ignorarli. Ma «queste considerazioni se ci tolgono l’illusione di conoscere gli animali – misteriosi esseri che come noi qui vivono, soffrono e si elevano – ci consolano anche della nostra ignoranza. Se andiamo a fondo delle cose, che cosa vi è che possiamo dire di conoscere?»[8] Di certo, ascoltando Derrida e Martinetti, non lo sguardo curioso e indagatore di un felino domestico.
Giuseppe Pulina
Il presente articolo è il capitolo dal titolo "Piero Martinetti: l'imperscrutabile dolcezza dei gatti" in Tonni matematici e balene metafisiche. I filosofi e gli animali di Giuseppe Pulina (Diogene Multimedia, 2016)
Immagine di apertura: Pierre-Auguste Renoir, Julie Manet with cat, 1887
Note:
[1] L’interesse di Martinetti per il mondo degli animali è anche di natura filosofica e non si esaurisce nella sua passione per il mondo dei felini. Le sue posizioni avrebbero influenzato, ad esempio, le tesi di Cesare Goretti che, in un saggio del 1928 (L’animale quale soggetto di diritto), elaborò «una prima formale richiesta di riconoscimento di una specifica soggettività giuridica per gli animali» (Pisanò 2012, p. 39).
[2] Martinetti 1999, p. 139.
[3] Ibid.
[4] Ivi, p. 140.
[5] Ivi, p. 137.
[6] Ivi, p. 130.
[7] Cfr. Pulina 2008.
[8] Martinetti 1999, p. 131.
Ancora una volta, parlando di gatti, c’imbattiamo nel tema dello sguardo, la chiave rivelatrice di una possibile confidenza tra animali non umani e uomini. Ma se per Derrida lo sguardo della sua gatta era comunque muto e «denudante», per Martinetti aveva, invece, un’eloquenza ammaliatrice capace di dire molte cose. A proposito di «una povera gattina grigia» che era solita seguirlo per le vigne scrive che «Nei suoi occhi io riposavo i miei, nel suo essere caro io sentivo un conforto, come in nessun essere umano».[4] Il paragone («come in nessun essere umano») è forte, ma la dice tutta sull’attrazione che il mondo felino provocava in Martinetti. Grazie anche ai temi orientaleggianti della filosofia di Schopenhauer, di cui nei primi del Novecento fu uno dei più qualificati studiosi, Martinetti praticherà il vegetarianesimo, dando nei suoi testi rilevanza speculativa alla questione animale, quando ancora la cultura occidentale doveva scoprire (o riscoprire, se si preferisce) la sua vera e urgente vocazione ecologica. Nei gatti, nei loro occhi e, quindi, nella loro scomparsa, Martinetti coglie il riflesso di un mistero che avvolge e accomuna tutti gli esseri viventi: «la gran morte di tutte le cose, dell’amore, della speranza, degli affetti più cari… l’amarezza irreparabile di tutte le persone, la rivolta disperata ed inutile contro il destino che spegne successivamente intorno a noi tutto ciò che è più intensamente nostro, tutto ciò che è parte di noi».[5]
Martinetti è convinto che «ogni specie animale, come ha la sua anima, ha il suo mondo». Anche gli esseri più piccoli presenti nella scala animale hanno uno spazio che gli appartiene. «Noi li vediamo nel nostro mondo e collochiamo il loro mondo nel nostro come una variazione o una riduzione del nostro mondo, del vero mondo, in cui essi e noi viviamo. Ma è questo il vero mondo?»[6] La risposta è chiara: non può dirsi vero un mondo che prevarica gli altri e che dà l’illusione (per Martinetti le cose stavano così) di essere i titolari della più alta dignità presente nell’universo.[7] E gli animali? L’uomo li disprezza nella misura in cui dimostra di ignorarli. Ma «queste considerazioni se ci tolgono l’illusione di conoscere gli animali – misteriosi esseri che come noi qui vivono, soffrono e si elevano – ci consolano anche della nostra ignoranza. Se andiamo a fondo delle cose, che cosa vi è che possiamo dire di conoscere?»[8] Di certo, ascoltando Derrida e Martinetti, non lo sguardo curioso e indagatore di un felino domestico.
Giuseppe Pulina
Il presente articolo è il capitolo dal titolo "Piero Martinetti: l'imperscrutabile dolcezza dei gatti" in Tonni matematici e balene metafisiche. I filosofi e gli animali di Giuseppe Pulina (Diogene Multimedia, 2016)
Immagine di apertura: Pierre-Auguste Renoir, Julie Manet with cat, 1887
Note:
[1] L’interesse di Martinetti per il mondo degli animali è anche di natura filosofica e non si esaurisce nella sua passione per il mondo dei felini. Le sue posizioni avrebbero influenzato, ad esempio, le tesi di Cesare Goretti che, in un saggio del 1928 (L’animale quale soggetto di diritto), elaborò «una prima formale richiesta di riconoscimento di una specifica soggettività giuridica per gli animali» (Pisanò 2012, p. 39).
[2] Martinetti 1999, p. 139.
[3] Ibid.
[4] Ivi, p. 140.
[5] Ivi, p. 137.
[6] Ivi, p. 130.
[7] Cfr. Pulina 2008.
[8] Martinetti 1999, p. 131.