La magia in Giordano Bruno
Un discorso simile vale per Giordano Bruno (autore di un De Magia), che arriva perfino a vedere la matematica come un qualcosa assai vicino alla magia: non a caso il processo che lo porterà a bruciare vivo sul rogo il 17 febbraio 1600 comincia con l'accusa da parte del nobile veneziano che lo ospitava e pare che egli lo abbia denunciato per dispetto, in quanto Bruno gli aveva promesso di insegnargli la magia-matematica, ma lui era insoddisfatto degli insegnamenti. Al di là di questa vicenda personale, é interessante notare l'interessamento di Bruno per la magia, ossia la capacità di trasformare la realtà: da un passo di Bruno emerge che cosa egli effettivamente intendesse per magia; il passo dice: grande magia sarebbe quella di uno che fosse in grado di passare dall' unità alla molteplicità e dalla molteplicità all' unità. La magia é da lui intesa come capacità di cogliere i meccanismi secondo i quali l'unità si articola nella molteplicità, e la molteplicità é tutta "ricomposta" nell'unità. In un altro scritto il Nolano dà una definizione del mago, colui che esercita le arti magiche: magus significat sapientem cum virtute agendi. La magia, spesso circondata nei secoli precedenti di un'aura demoniaca, diventa nel Rinascimento la positiva scienza della trasformazione, segno concreto del dominio dell'uomo sugli elementi.
Le opere magiche di Bruno sono state pubblicate per la prima volta nel 1891, nell’ultimo volume dell’Edizione nazionale, a cura di Felice Tocco e Girolamo Vitelli. Segnalate già da Abraham Noroff nel 1868, esse rappresentano un momento eccezionale nell’ambito degli studi sia su Bruno che sul Rinascimento. Ma, quando furono pubblicate, non ebbero molto successo sul piano critico; anzi – come le opere mnemotecniche e lulliane – vennero considerate alla stregua di stravaganze, curiosità, superstizioni prive di valore e di effettiva sostanza filosofica.
L’attenzione degli studiosi verso le opere magiche bruniane
Né lo stesso Tocco, tanto meno Giovanni Gentile – per citare i due più importanti studiosi italiani di Bruno tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento – diedero alle opere magiche bruniane il rilievo che meritavano. Bisognerà aspettare il pieno Novecento perché esse fossero prese in considerazione e, in modo particolare, gli importanti studi di Antonio Corsano e, soprattutto, di Frances A. Yates, che nel 1964 pubblicò un’importante monografia su Giordano Bruno e la tradizione ermetica. Ma anche in questo caso si trattava di una interpretazione che, risolvendo il pensiero di Bruno nell’ermetismo – il complesso di testi, e di posizioni, attribuiti alla ‘antichissima sapienza’ di Ermete Trismegisto, scritti in realtà tra il I e il II secolo d.C. –, non valutava nella sua specificità e nella sua originalità la lunga e complessa riflessione di Bruno intorno alla magia e, in primo luogo, il rapporto genetico che la lega alla ‘nova filosofia’ e alla concezione della Vita-materia infinita da cui essa è teoricamente fondata. Perché questo avvenisse occorrerà aspettare la nuova edizione delle opere magiche curata da Simonetta Bassi, Elisabetta Scapparone e Nicoletta Tirinnanzi e pubblicata (con traduzione italiana a fronte) nel 2000, nel quadro della nuova edizione delle opere di Bruno varata dall’editore Adelphi.
La magia come strumento per riordinare il mondo
Bruno si interessa di magia fin dai suoi primi scritti: perfino nel Candelaio – pubblicato a Parigi negli ultimi mesi del 1582 – si fa riferimento, sia pure in termini ironici, a operazioni di carattere magico. Ma già nel Cantus Circaeus –stampato poco prima – il tono, e il quadro, cambiano: qui la magia è lo ‘strumento’ di cui si serve Circe per rimettere in ordine il mondo, ristabilendo una corretta connessione tra ciò che l’uomo appare e ciò che è, affrontando – e risolvendo attraverso la magia – uno dei problemi più acuti, e più gravi, su cui si interroga la filosofia del Rinascimento, da Alberti a Campanella: quello del rovesciamento ontologico di ‘essere’ e ‘apparire’, di ‘apparenza’ e di ‘realtà’. Alla magia sono dedicate poi pagine molto importanti nello Spaccio de la bestia trionfante, nel quale Bruno fa l’apologia dell’antichissima sapienza degli Egizi: i quali attraverso operazioni magiche erano stati in grado di entrare in comunicazione con gli dei e di colloquiare con loro, ponendo un nesso vitale e positivo fra uomo, natura e Dio, in altre parole ristabilendo quel circuito fra dimensione divina, dimensione naturale e dimensione umana che il cristianesimo aveva spezzato, inaugurando un’epoca di barbarie, di decadenza, di separazione, anzi di contrapposizione, tra gli uomini e gli dei.
Il concetto di Vita-materia infinita
Nei dialoghi italiani, Bruno si sofferma più volte sulla magia: nel De la Causa, svolgendo la concezione della Vita-materia infinita, oppure negli Eroici furori, discorrendo del processo eccezionale attraverso il quale si compie, quando si compie, l’ascesa dell’uomo verso la divinità. Ma è soprattutto a Helmstedt – dove rimane dal principio del 1589 all’aprile del 1590 – che si concentra in modo sistematico sulla magia alla luce dell’ontologia della Vita-materia infinita, che aveva sviluppato in modo organico nel De la Causa (un’opera centrale, per Bruno, anche da questo punto di vista). La ‘biblioteca’ magica di Bruno è costituita dalle seguenti opere: De magia naturali, Theses de magia, De Vinculis in genere, De rerum principiis et elementis et causis, Medicina Lulliana, De magia mathematica (in larga parte una raccolta di materiali e di ‘fonti’ tratte dallo pseudo-Alberto Magno, Tritemio e Agrippa).
La magia naturale e il concetto di ‘vincolo’
Nel De magia naturali, Bruno distingue anzitutto tre significati fondamentali di magia: divino, fisico, matematico. Poi osserva che “per quanto riguarda la magia del primo e del secondo genere, essa è necessariamente del genere delle cose buone ed ottime; mentre la magia del terzo genere è sia buona sia malvagia, a seconda dell’uso – positivo o negativo – che ne fanno i maghi”; infine precisa che “la malvagità, l’idolatria, il delitto, il peccato d’idolatria si trovano nel terzo genere…”. In netta opposizione a questa forma deteriore di magia, quella che interessa a Bruno è la magia di tipo propriamente naturale, della quale, nelle sue opere, egli si propone di indagare il fondamento ‘scientifico’, il significato e le funzioni sia sul piano naturale che su quello del ‘convitto umano’. Come avviene, per esempio, in forme eccezionalmente acute nel De Vinculis in genere: qui, muovendo dal concetto di ‘vincolo’ – e, in modo specifico, dall’analisi del vincolo d’amore – egli analizza in che modo il ‘cacciatore di anime’ riesca a ‘vincolare’ gli uomini, penetrando, con ‘tecniche’ appropriate, nelle dinamiche della psiche umana per assoggettarla al suo dominio. Sono ‘tecniche’, però – e su questo Bruno insiste lungo tutto il suo trattato – imperniate su una vera e propria ‘teoria’ scientifica, fondata su principi assai precisi – a cominciare da quello di anima del mondo, da cui discende la concezione della universale ‘simpatia’ delle cose che rende possibile le operazioni magiche, compresa l’azione a distanza. Il potere del capo religioso o del capo politico, capace di ‘vincolare’ a sé i suoi seguaci in un ‘vincolo’ infrangibile, ha questo fondamento teorico, né potrebbe darsi senza di esso: filosofia, praxis magica, ‘vincolabilità’ sono legati in un nodo solo, e sono inconcepibili se vengono separati l’una dall’altra. Sta qui la differenza tra il concetto di ‘vincolo’ di Bruno e quello di Machiavelli: nei Discorsi il valore della religione quale ‘vincolo’ sociale essenziale è stabilito sulla base di una riflessione di carattere filosofico-storico intorno alle forme, e al destino, delle civiltà interamente risolta nell’orizzonte della politica; Bruno estende e complica il discorso, ponendosi il problema del fondamento del potere e individuandolo nella magia: cioè nella capacità di ‘vincolare’. In altri termini – per riprendere un lemma, e un concetto, di Max Weber – egli identifica potere e ‘carismaticità’.
Sui motivi del rientro di Bruno in Italia
Discorrendo della decisione di Bruno di tornare in Italia, si è fatto riferimento proprio ai suoi scritti magici, sostenendo che quella decisione scaturiva dalla persuasione di Bruno di disporre di uno strumento eccezionale – la magia, precisamente – che gli avrebbe consentito di affermarsi e di conseguire il potere. È un’interpretazione riduttiva: alla base di quella tragica decisione c’era infatti una pluralità di motivi; ma, certo, tra di essi, c’erano anche il convincimento, e l’ambizione, di poter diventare ‘capitano di popoli’; e l’uno e l’altra erano imperniati sulla sua persuasione di essere un buon mago. Mentre Cristo – come disse a Giovanni Mocenigo e a Matteo de Silvestris – “facea miracoli apparenti” e “tutti li miracoli che fece li fece per arte di negromanzia”. Sono affermazioni importanti – fatte a Venezia nel 1592 – almeno per due ragioni: ribadiscono il disprezzo di Bruno per Cristo, il quale non seppe né vivere bene né morire con dignità; esplicitano, con chiarezza, quello che la magia è nel pensiero maturo di Bruno: sta qui – nella buona e nella cattiva magia – il discrimine fondamentale tra buona e cattiva ‘religione’, tra ‘nova filosofia’ e cristianesimo.
Le opere magiche di Bruno sono state pubblicate per la prima volta nel 1891, nell’ultimo volume dell’Edizione nazionale, a cura di Felice Tocco e Girolamo Vitelli. Segnalate già da Abraham Noroff nel 1868, esse rappresentano un momento eccezionale nell’ambito degli studi sia su Bruno che sul Rinascimento. Ma, quando furono pubblicate, non ebbero molto successo sul piano critico; anzi – come le opere mnemotecniche e lulliane – vennero considerate alla stregua di stravaganze, curiosità, superstizioni prive di valore e di effettiva sostanza filosofica.
L’attenzione degli studiosi verso le opere magiche bruniane
Né lo stesso Tocco, tanto meno Giovanni Gentile – per citare i due più importanti studiosi italiani di Bruno tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento – diedero alle opere magiche bruniane il rilievo che meritavano. Bisognerà aspettare il pieno Novecento perché esse fossero prese in considerazione e, in modo particolare, gli importanti studi di Antonio Corsano e, soprattutto, di Frances A. Yates, che nel 1964 pubblicò un’importante monografia su Giordano Bruno e la tradizione ermetica. Ma anche in questo caso si trattava di una interpretazione che, risolvendo il pensiero di Bruno nell’ermetismo – il complesso di testi, e di posizioni, attribuiti alla ‘antichissima sapienza’ di Ermete Trismegisto, scritti in realtà tra il I e il II secolo d.C. –, non valutava nella sua specificità e nella sua originalità la lunga e complessa riflessione di Bruno intorno alla magia e, in primo luogo, il rapporto genetico che la lega alla ‘nova filosofia’ e alla concezione della Vita-materia infinita da cui essa è teoricamente fondata. Perché questo avvenisse occorrerà aspettare la nuova edizione delle opere magiche curata da Simonetta Bassi, Elisabetta Scapparone e Nicoletta Tirinnanzi e pubblicata (con traduzione italiana a fronte) nel 2000, nel quadro della nuova edizione delle opere di Bruno varata dall’editore Adelphi.
La magia come strumento per riordinare il mondo
Bruno si interessa di magia fin dai suoi primi scritti: perfino nel Candelaio – pubblicato a Parigi negli ultimi mesi del 1582 – si fa riferimento, sia pure in termini ironici, a operazioni di carattere magico. Ma già nel Cantus Circaeus –stampato poco prima – il tono, e il quadro, cambiano: qui la magia è lo ‘strumento’ di cui si serve Circe per rimettere in ordine il mondo, ristabilendo una corretta connessione tra ciò che l’uomo appare e ciò che è, affrontando – e risolvendo attraverso la magia – uno dei problemi più acuti, e più gravi, su cui si interroga la filosofia del Rinascimento, da Alberti a Campanella: quello del rovesciamento ontologico di ‘essere’ e ‘apparire’, di ‘apparenza’ e di ‘realtà’. Alla magia sono dedicate poi pagine molto importanti nello Spaccio de la bestia trionfante, nel quale Bruno fa l’apologia dell’antichissima sapienza degli Egizi: i quali attraverso operazioni magiche erano stati in grado di entrare in comunicazione con gli dei e di colloquiare con loro, ponendo un nesso vitale e positivo fra uomo, natura e Dio, in altre parole ristabilendo quel circuito fra dimensione divina, dimensione naturale e dimensione umana che il cristianesimo aveva spezzato, inaugurando un’epoca di barbarie, di decadenza, di separazione, anzi di contrapposizione, tra gli uomini e gli dei.
Il concetto di Vita-materia infinita
Nei dialoghi italiani, Bruno si sofferma più volte sulla magia: nel De la Causa, svolgendo la concezione della Vita-materia infinita, oppure negli Eroici furori, discorrendo del processo eccezionale attraverso il quale si compie, quando si compie, l’ascesa dell’uomo verso la divinità. Ma è soprattutto a Helmstedt – dove rimane dal principio del 1589 all’aprile del 1590 – che si concentra in modo sistematico sulla magia alla luce dell’ontologia della Vita-materia infinita, che aveva sviluppato in modo organico nel De la Causa (un’opera centrale, per Bruno, anche da questo punto di vista). La ‘biblioteca’ magica di Bruno è costituita dalle seguenti opere: De magia naturali, Theses de magia, De Vinculis in genere, De rerum principiis et elementis et causis, Medicina Lulliana, De magia mathematica (in larga parte una raccolta di materiali e di ‘fonti’ tratte dallo pseudo-Alberto Magno, Tritemio e Agrippa).
La magia naturale e il concetto di ‘vincolo’
Nel De magia naturali, Bruno distingue anzitutto tre significati fondamentali di magia: divino, fisico, matematico. Poi osserva che “per quanto riguarda la magia del primo e del secondo genere, essa è necessariamente del genere delle cose buone ed ottime; mentre la magia del terzo genere è sia buona sia malvagia, a seconda dell’uso – positivo o negativo – che ne fanno i maghi”; infine precisa che “la malvagità, l’idolatria, il delitto, il peccato d’idolatria si trovano nel terzo genere…”. In netta opposizione a questa forma deteriore di magia, quella che interessa a Bruno è la magia di tipo propriamente naturale, della quale, nelle sue opere, egli si propone di indagare il fondamento ‘scientifico’, il significato e le funzioni sia sul piano naturale che su quello del ‘convitto umano’. Come avviene, per esempio, in forme eccezionalmente acute nel De Vinculis in genere: qui, muovendo dal concetto di ‘vincolo’ – e, in modo specifico, dall’analisi del vincolo d’amore – egli analizza in che modo il ‘cacciatore di anime’ riesca a ‘vincolare’ gli uomini, penetrando, con ‘tecniche’ appropriate, nelle dinamiche della psiche umana per assoggettarla al suo dominio. Sono ‘tecniche’, però – e su questo Bruno insiste lungo tutto il suo trattato – imperniate su una vera e propria ‘teoria’ scientifica, fondata su principi assai precisi – a cominciare da quello di anima del mondo, da cui discende la concezione della universale ‘simpatia’ delle cose che rende possibile le operazioni magiche, compresa l’azione a distanza. Il potere del capo religioso o del capo politico, capace di ‘vincolare’ a sé i suoi seguaci in un ‘vincolo’ infrangibile, ha questo fondamento teorico, né potrebbe darsi senza di esso: filosofia, praxis magica, ‘vincolabilità’ sono legati in un nodo solo, e sono inconcepibili se vengono separati l’una dall’altra. Sta qui la differenza tra il concetto di ‘vincolo’ di Bruno e quello di Machiavelli: nei Discorsi il valore della religione quale ‘vincolo’ sociale essenziale è stabilito sulla base di una riflessione di carattere filosofico-storico intorno alle forme, e al destino, delle civiltà interamente risolta nell’orizzonte della politica; Bruno estende e complica il discorso, ponendosi il problema del fondamento del potere e individuandolo nella magia: cioè nella capacità di ‘vincolare’. In altri termini – per riprendere un lemma, e un concetto, di Max Weber – egli identifica potere e ‘carismaticità’.
Sui motivi del rientro di Bruno in Italia
Discorrendo della decisione di Bruno di tornare in Italia, si è fatto riferimento proprio ai suoi scritti magici, sostenendo che quella decisione scaturiva dalla persuasione di Bruno di disporre di uno strumento eccezionale – la magia, precisamente – che gli avrebbe consentito di affermarsi e di conseguire il potere. È un’interpretazione riduttiva: alla base di quella tragica decisione c’era infatti una pluralità di motivi; ma, certo, tra di essi, c’erano anche il convincimento, e l’ambizione, di poter diventare ‘capitano di popoli’; e l’uno e l’altra erano imperniati sulla sua persuasione di essere un buon mago. Mentre Cristo – come disse a Giovanni Mocenigo e a Matteo de Silvestris – “facea miracoli apparenti” e “tutti li miracoli che fece li fece per arte di negromanzia”. Sono affermazioni importanti – fatte a Venezia nel 1592 – almeno per due ragioni: ribadiscono il disprezzo di Bruno per Cristo, il quale non seppe né vivere bene né morire con dignità; esplicitano, con chiarezza, quello che la magia è nel pensiero maturo di Bruno: sta qui – nella buona e nella cattiva magia – il discrimine fondamentale tra buona e cattiva ‘religione’, tra ‘nova filosofia’ e cristianesimo.