La metafisica in Aristotele
La Metafisica non fu così chiamata dal suo autore. La paternità del termine viene tradizionalmente attribuita ad Andronico da Rodi (I secolo a.C.), editore di Aristotele, il quale riunì sotto questo nome tutti quei libri che nella classificazione da lui realizzata del corpus aristotelicum venivano appunto dopo i testi di argomento fisico (ta meta ta physica, "ciò che viene dopo la fisica"); in questa definizione è tuttavia già implicita l'idea della metafisica come riflessione volta a ciò che si colloca al di là degli oggetti fisici.
E' però probabile che già prima di Andronico il termine fosse utilizzato. Un'altra ipotesi, avvalorata dallo Pseudo- Alessandro (II-III secolo d.C.) assegna al termine metafisica un significato didattico, intendendo ciò che doveva essere imparato dopo l'apprendimento delle nozioni riguardanti la fisica. Bisogna però attendere Simplicio (V secolo d.C.) affinché per metafisica si indichi specificamente la scienza che ha per oggetto quelle realtà che trascendono il mondo fisico.
Aristotele (A, 2) si propone anzitutto di individuare una definizione di quella scienza (episteme) che chiamiamo sapienza (sophia). Ora, essendovi scienza laddove è possibile esibire una conoscenza universale di cause e principi e poiché si sta cercando di definire cosa sia quella scienza che denominiamo sapienza, allora è chiaro che si tratta di individuare di quali principi e cause essa sia scienza.
Operando con il consueto procedere induttivo, Aristotele propone la seguente argomentazione: se si tratta di definire la sapienza, può essere utile riportare le diverse ragioni per cui qualcuno è comunemente ritenuto sapiente (sophos); da qui sarà forse possibile, in un secondo momento, chiarire cosa sia la sapienza stessa. Anzitutto (1) è considerato sapiente colui che dispone di una conoscenza molto ampia, sebbene non dettagliata, tale da coinvolgere tutte le cose; inoltre (2) è sapiente colui che eccelle nella conoscenza non solo quantitativamente ma anche qualitativamente: è considerato infatti tale chi conosce cose che non tutti sono in grado di conoscere, perché richiedono un processo non comune di mediazione, del quale la conoscenza delle cose più semplici non abbisogna (ciò che si conosce empiricamente è immediato, semplice, a tutti comune); ancora (3) è sapiente chi raggiunge una conoscenza delle cause dell'oggetto cui rivolge la propria attenzione, in modo da andar oltre a una sua mera descrizione empirica ed è perciò (4) anche in grado di insegnare ciò che conosce; è sapiente inoltre (5) chi si dedica a una conoscenza che è perseguita per se stessa, ricercata in quanto fine a se stessa e non per gli utili che è possibile ricavarne; perciò (6) è infine sapiente chi, proprio perché dedito a una scienza che ha in sé il suo fine, non è sottomesso a nessuno; poiché la sapienza è quella scienza che non dipende da nessun'altra scienza, così il sapiente non deve dipendere da nessuno, poiché gli altri dipendono da lui.
Aristotele introduce quindi la definizione della sapienza come scienza dell'universale; chi conosce molte cose (1) le conosce in relazione ai principi universali dell'essere, che sono infatti i più difficili da conoscere (2) perché più lontani dall'immediatezza empirica e dunque coglibili solo mediante un procedimento non comune di astrazione concettuale. E le scienze più complesse ed esatte sono appunto (3) quelle che vertono attorno ai principi e alle cause (4) e che risultano perciò anche insanabili: si può insegnare infatti ciò di cui si conoscono i principi primi. Ma chi (5) dispone di quella scienza che ha per fine il sapere stesso; esso non ha scopi applicativi, è la scienza propriamente tale, perché è soltanto scienza e non ha per oggetto qualcosa di altro da sé, ma assume se stessa, il suo esser-scienza, come oggetto della propria analisi. E' una scienza che si spiega da sé, che mira alla conoscenza di ciò che è massimamente conoscibile, ossia i principi primi (3) insanabili (4) e difficilmente conoscibili (2): solo così si possono conoscere tutte le cose (1). L'argomentazione di Aristotele è sin qui compatta, ogni momento richiama a sostegno gli altri, fornendone così anche un'indiretta conferma. E' in questo contesto (6) che si inserisce la nozione di sommo bene, che per Aristotele è Dio: questa scienza, che è la scienza più alta, si rivolge a un fine che è il fine supremo, ciò verso cui tutto tende; questo fine sommo è il sommo bene che, in quanto motore immobile, determina tutto il movimento ed è dunque causa e principio di tutto ciò che a lui tende.
Ci si può a questo punto chiedere se fra il blocco delle argomentazioni (1)-(5) e l'argomentazione (6) non intercorra un salto, una frattura difficilmente sanabile: la metafisica è infatti ontologia, in quanto scienza dei principi dell'essere (1-5) o è teologia, in quanto scienza dell'essere trascendente (6)? Come contenere le due anime dell'argomentazione aristotelica? Questa pesante eredità diverrà centrale nella successiva riflessione che la metafisica promuoverà intorno al proprio statuto.
Il carattere disinteressato della filosofia emerge anche dalla sua origine che per Aristotele è da individuarsi nella meraviglia. Essa consiste nell'imbarazzo che deriva dal riconoscimento della propria ignoranza (una sorta di socratico "so di non sapere") nei confronti dei fenomeni che accadono; è in riferimento al verificarsi di qualcosa di cui non si è in grado di render conto che si prova stupore. Ci si meraviglia di ciò che non si conosce. Aristotele ne individua gradi intermedi corrispondenti alla complessità dei fenomeni che procurano meraviglia: prima essa sorge a proposito di avvenimenti più semplici, poi più articolati (le fasi lunari), sino a questioni estremamente complicate quali la generazione dell'universo. Più oltre si precisa meglio il ruolo che tale meraviglia gioca nel procedimento filosofico: la filosofia nasce da essa in quanto ne è originata, ma alla fine deve scomparire con il sapere raggiunto intorno a ciò che procurava stupore: il geometra, acquisito il sapere geometrico, non si stupisce più dell'incommensurabilità della diagonale con i lati del quadrato. Se così stanno le cose, allora si può riconoscere una parentela della filosofia con il mito: anche quest'ultimo infatti si sforza di fornire una soluzione a questioni per cui non si dispone di una risposta e che nella loro (attuale) inspiegabilità procurano meraviglia. Aristotele sottolinea il legame anche con un gioco di parole non riproponibile in traduzione - la somiglianza originaria è infatti declinata sul piano dell'assonanza linguistica: al philosophos ("amante del sapere") si associa il philomythos ("amante del mito").
Aristotele evidenzia quindi, nel sottolinearne le affinità, anche le differenze fra mito e filosofia; e del resto è questione ancora aperta se la filosofia abbia posto fine al mito o se essa debba ancora riferirglisi, pur mantenendo la propria autonomia.
La filosofia quindi non è nata da esigenza pratiche, ma dalla meraviglia che sorge allorquando i bisogni primari sono non solo soddisfatti, ma addirittura risolti in una condizione di sostanziale agiatezza. E' una concezione esclusivamente contemplativa della filosofia, unica nella storia delle civiltà, che la presenta come una disciplina privilegiata, in un certo senso superflua, gratuita, che non tutti possono perciò permettersi di praticare: solo l'uomo libero può essere filosofo, perché libero dal lavoro che impegna nella soddisfazione dei bisogni elementari.
Si tratta di una comprensione della filosofia legata a una concezione del mondo come essere immutabile ed eterno, che consente uno sguardo sicuro perché ciò che è in senso più compiuto non muta né muore. Ne deriva una definizione della filosofia come scienza divina, come teologia, il che non significa, come dicono i poeti (contro cui anche Platone polemizza), che gli dèi invidiosi precludano agli uomini di parteciparvi, ma il sapere filosofico è divino perché è una scienza che solo gli dèi posseggono in grado sommo e perché ha per oggetto le cose divine.
Aristotele ripropone ora (A, 3) la definizione della scienza come conoscenza delle cause. Per causa intendiamo anzitutto (1) la sostanza o l'essenza della cosa (causa formale). La "sostanza" (ousia) si riferisce al fatto d'essere della cosa, che grammaticalmente corrisponde a una sostantivizzazione del participio presente del verbo essere, indicando non tanto - o non solo - l'essenza, ma più precisamente la sua "essentità". Per "essenza" (to ti en einai, "ciò che era l'essere) si intende invece il contenuto d'essere di ciò che è, cioè dell'essente. L'ousia pone l'accento sul fatto d'essere, l'essenza sul contenuto d'essere. Sostanza ed essenza sono le categorie con cui Aristotele riconduce l'essere alla fondamentale struttura che lo costituisce.
In secondo luogo (2) causa è il sostrato o la materia, in quanto ciò che sostiene il contenuto d'essere, l'ossia (causa materiale). Causa è ancora (3) il principio del movimento - comprendente anche il mutamento - ossia ciò che lo determina (causa efficiente). Per ultimo (4) causa è il fine verso cui la cosa (e il tutto) tende, perché è ciò che, attirando a sé, determina tale movimento di attrazione (causa finale). A ciò Aristotele fa seguire un'indagine storica volta a verificare se i suoi predecessori abbiano colto altre tipologie di cause; è quella che è stata definita "la prima storia della filosofia" che si conclude con la constatazione da parte dell'autore che i precedenti pensatori non solo non hanno individuato altre cause, ma sono stati anche incapaci di comprenderle nella loro totalità. E' ancora interessante soffermarsi su un'annotazione in cui Aristotele afferma di aver già elettorato una teoria delle diverse cause nella Fisica. Perché allora, ci si può chiedere, ripetere in ambito meta-fisico ciò che riguarda la fisica? I sostenitori della filosofia come teologia trovano qui una conferma della loro tesi.
Ma, quasi a smentire una pretesa eccessiva, qualche pagina più avanti, si trova la definizione della filosofia come ontologia, come scienza dell'essere in quanto essere. Tutte le scienze esaminano infatti aspetti particolari dell'essere, un suo genere o una sua specifica manifestazione. La filosofia invece s'interessa dell'essere in quanto essere, e se scienza è ricerca delle cause e dei principi supremi, allora in questo caso si tratta di ricercarli in riferimento all'essere puro, "alla realtà che è per sé", che non dipende cioè da un'altra o da altre realtà. La filosofia ricerca i principi primi dell'essere sostanziale.
Aristotele afferma quindi che vi sono molteplici modi di dire l'essenza senza che questo provochi una dissoluzione del concetto; è vero che l'essere si predica di molte cose, ma tutte finiscono, in qualche modo, per convergere. Come ad esempio diciamo "sano" tutto ciò che si riferisce alla salute (sia che la conservi, che la produca, che ne sia sintomo o la riceva) e come diciamo "medico" tutto ciò che si riferisce alla medicina (in quanto la possiede o le è per natura ben disposto o ne è l'opera), così anche l'essere si dice in molti modi ma tutti legati a un riferimento condiviso: questo punto di contatto è la sostanza, per cui l'essere è tale perché è sostanza o perché le è comunque riferito in quanto affezione, corruzione, privazione, qualità, o negazione di queste (perciò anche il non-essere è in qualche modo essere).
In questo passo il senso fondamentale dell'essere è dunque rinvenuto nell'ossia, da cui si può ricavare la definizione di metafisica come scienza della sostanza. In questo punto vengono così a convergere le precedenti definizioni: se infatti la metafisica era stata considerata (1) scienza dell'essere e (2) scienza delle cause prime, allora è chiaro che- essendo l'essere l'ossia - essa, in base a (1), è scienza della sostanza, ma dovendo per (2) anche essere scienza delle cause, si può qui definire come scienza che conosce le cause e i principi della sostanza.
Ora, se c'è una modalità di apprensione unica di una serie di cose, esse appartengono ad un unico genere e sono quindi oggetto di un'unica scienza. Come la grammatica studia tutti i suoni, così la metafisica studia tutte le specie di essere come essere.
A questo punto Aristotele identifica essere e uno. Essi infatti si implicano reciprocamente, anche se non convergono in un'unica nozione. Non c'è differenza fra l'espressione "uomo" e quella che vi associa l'unità, "un uomo", poiché nella prima è già implicata la nozione di unità che la seconda rende esplicita; e nemmeno si può dire che l'unità è una nozione accessoria o seconda, che si aggiunge a qualcosa che già sussiste e che gli è ontologicamente o logicamente precedente. Ciò che fa essere ciò che è, è una sostanza, è questa sostanza determinata, in cui è già contenuta la nozione di unità. L'essere coincide con l'uno - e viceversa: ciò significa riconoscere nell'essere una sua identità di fondo che è la sua stessa identità. Dietro l'equazione Essere=Uno si esprime l'idea dell'essere stabile e immutabile nella sua identità. Non si tratta di qualcosa di incostante, di un semplice variare caleidoscopico : è l'identità che costituisce l'essere di qualcosa di determinato.
Se essere e uno sono equivalenti, allora esistono tante specie di essere quante sono quelle di unità. Tutto ciò che ricade quindi nell'ambito di quest'ultima deve necessariamente appartenere alla scienza dell'essere. Aristotele sostiene che lo studio del molteplice in quanto opposto all'uno, della privazione e della negazione in quanto riferite all'uno, e i contrari di tali nozioni in quanto contrari di ciò che è definito in riferimento all'uno, appartengano di diritto alla scienza dell'unità e quindi a quella dell'essere. L'idea del simile, identico e i loro contrari in quanto riferiti all'unità sono perciò oggetto della scienza dell'essere.
Lo stesso schema di ragionamento lo si riscontra in un passo successivo, allorquando Aristotele sostiene che vi sono tante parti della filosofia quante sono quelle di sostanza: sulla base dell'articolazione del concetto di sostanza è possibile individuare una filosofia prima e filosofie seconde. Non vi sono allora scienze diverse ma un'unica scienza articolata secondo i diversi sensi dell'essere e i diversi generi di sostanza. Se l'essere è uno, e se tutti tali termini e significati si rivolgono a qualcosa di comune, allora il loro studio è oggetto di un'unica scienza.
Alla conclusione del paragrafo Aristotele distingue due tipi di analogia. Due cose si dicono analogiche perché (1) si riferiscono al medesimo termine o perché (2) sono fra loro consecutive. In entrambi i casi è la stessa scienza che studia le proprietà della sostanza, le sue affezioni, ciò che le è simile, identico, analogico e il contrario di queste determinazioni, e che studia le diverse specie di sostanza.
Nel paragrafo successivo del medesimo libro (T, 3) si chiede se la metafisica debba includere nell'ambito della sua analisi anche gli assiomi, operando in analogia con le matematiche che non si limitano a studiare gli enti loro specifici, ma coinvolgendo in tale esame anche gli assiomi che li riguardano. La risposta di Aristotele è assolutamente affermativa: se tali assiomi sono principi fondamentali che appartengono a tutto ciò che è, se non c'è essere che non sia sottoposto alle leggi da loro indicate, allora è chiaro che la "scienza del filosofo", la scienza dell'essere deve in quanto essere non potrà esimersi da studiarli. Essi rivelano proprietà che appartengono non a un essere, ma all'essere in generale. Aristotele riconosce che le varie scienze si interessano solo di quegli assiomi che intervengono direttamente nella materia della propria disciplina, ma se essi riguardano l'essere in quanto essere allora toccherà alla scienza corrispondente - alla filosofia - assumerli come proprio oggetto: degli assiomi fondamentali non si interessano infatti le scienze particolari che si limitano a studiare quelli che intervengono nella propria specifica pratica dimostrativa, come ad esempio gli assiomi della geometria.
Tuttavia, riconosce Aristotele, tali assiomi sono stati in passato indagati dai fisici. L'appunto è importante: se essi riguardano l'essere in quanto essere, per quale ragione la fisica li ha considerati come proprio oggetto d'indagine? Si è forse trattato di un errore, di un fraintendimento che noi oggi chiameremmo metodologico? La risposta è indicativa del modo di pensare aristotelico: i fisici ( i presocratici) assunsero gli assiomi fondamentali come proprio ambito d'indagine perché ritennero di essere gli unici a studiare la realtà nella sua totalità; dal loro punto di vista l'essere si esaurisce infatti nell'essere fisico. Ma per Aristotele esiste una scienza superiore alla fisica, poiché la natura è soltanto un genere dell'essere, il che significa ammettere l'esistenza di sostanze non fisiche; gli assiomi fondamentali ricadono quindi nell'ambito di quella scienza che studia le sostanze in generale, compresa quella fisica, e che può perciò essere definita meta-fisica.
Torna qui, ancora una volta, l'intreccio fra le due anime della riflessione aristotelica: se la metafisica è la scienza suprema (poiché la fisica è una sapienza, ma non la prima sapienza), allora essa potrà venir qualificata come scienza dell'essere supremo (Dio) e quindi come "teologia"; se però la scienza del filosofo è quella che studia gli assiomi fondamentali dell'essere, ed è quindi prima rispetto alle altre perché più universale, allora ne deriva che essa è scienza dell'essere in quanto essere, "ontologia", scienza delle sostanze, e fra queste, della sostanza prima.
Dopo gli assiomi, Aristotele include nella sua indagine anche i sillogismi, affermando che la filosofia è scienza dei principi e dei sillogismi. Il filosofo deve quindi impegnarsi nella ricerca dei principi più sicuri, ossia più certi ed evidenti, degli esseri; fra questi ve n'è uno fondamentale, il più sicuro, intorno al quale è impossibile cadere in errore. Aristotele passa ad elencarne brevemente le caratteristiche: esso è il più noto e generale, in quanto è valido in ogni ambito di pensiero, per ogni sapere che si rivolga a qualsivoglia essere; non è ipotetico, perché, se lo fosse, essendo il più fondamentale rischierebbe di conferire tale ipoteticità anche al sapere che su di esso si fonda, facendo venir meno la stabilità incontrovertibile della scienza; ancora, precede ogni conoscenza in quanto è condizione di possibilità di ogni sapere: qualunque conoscenza ne implica sempre l'utilizzo, poiché senza di esso non si dà alcun sapere. Poi se ne offre la definizione: "E' impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga alla stessa cosa": è questa la nota formula con cui Aristotele introduce il principio di non-contraddizione. Ossia, in altre parole, è impossibile predicare di qualcosa qualcos'altro e la sua negazione; in termini logici, si può dire che di A non si possono predicare B e non B, il predicato B e la sua negazione. Nella definizione si dice però "ad un tempo": ciò significa che il principio vale quando si considera il medesimo soggetto assunto nello stesso tempo e nello stesso luogo, considerandolo cioè nelle medesime coordinate spaziali e temporali, ossia sotto lo stesso punto di vista. Così non è possibile credere - nello stesso tempo e luogo - che la medesima cosa sia e non sia, come avrebbe fatto Eraclito. A scanso di equivoci Aristotele precisa che l'incontrovertibilità del principio di non contraddizione non implica l'impossibilità di cadere in contraddizione; e tuttavia chi sostiene affermazioni contraddittorie non può ritenerle valide, perché non dice nulla di determinato. Il principio di non contraddizione è assunto da Aristotele come principio fondamentale della scienza dell'essere in quanto essere, poiché non è possibile pensare alcun essere (implicitamente) presupporlo.
Altrove vengono riproposte questioni già affrontate nei libri precedenti esaminandole sotto angolazioni diverse: ritorna, con una sfumatura nuova, il tema della molteplicità dei sensi dell'essere. In apertura si distinguono due sensi:
(1) l'essere accidentale
(2) l'essere per sé
Nel primo caso si predica di un soggetto un predicato che non lo accompagna essenzialmente, che può appartenergli e tuttavia non è necessario alla sua definizione; dire che "il musico è un costruttore" o che "l'uomo è musico" significa attribuire a un soggetto (il musico, l'uomo) un predicato (l'esser costruttore, l'esser musico) per cui, con o senza di esso, non ne risulta alterata l'essenzialità: non è necessario esser musico per essere definito essenzialmente uomo. "Essere per sé" è invece detto quell'essere determinato secondo le "figure delle categorie". Queste sono i modi essenziali in cui si dice l'essere, in cui si determina l'essere sostanziale, sebbene Aristotele ammetta come prima categoria proprio la sostanza, a fianco della quale parla poi delle categorie della quantità, della qualità, della relazione, ecc... Perciò l'essere per sé è quell'essere che si dice secondo le categorie: essere sostanziale, quantitativo, qualitativo, temporale...ossia, secondo quelle determinazioni che sono essenziali all'essere stesso; anche se le determinazioni diverse da quella sostanziale possono essere accidentali.
Ancora (3) l'essere è l'esser-vero, perciò attribuire l'essere a qualcosa significa affermarne la verità cosicché questa risulta inscritta primariamente in un orizzonte ontologico quale determinazione dell'essere e poi- soltanto in un secondo tempo- diviene carattere della proposizione.
Infine (4), e abbastanza inaspettatamente, Aristotele dice che un ulteriore modo di considerare l'essere è quello d'intenderlo secondo la distinzione potenza-atto, che vale come articolazione interna sia di (1) che di (2): l'essere può essere in potenza o in atto, come diciamo "che sa" sia colui che esercita attualmente il sapere sia chi lo può (potenzialmente) fare.
Anche in questo caso, come sempre, c'è però un significato fondamentale dell'essere che è quello dell'"essere per sé" inteso come sostanza, in quanto categoria prima che ammette sotto di sé le altre e che articola, sotto l'essere categoriale, quello accidentale: si delinea dunque una gerarchia che pone al di sopra l'essere sostanziale, poi quello determinato dalle altre categorie e infine quello accidentale. Quest'ultimo non si pone sullo stesso piano di quello sostanziale e di quello delle categorie, ma è semplice declinazione logica del senso dell'essere.
Quindi si distinguono i sensi in cui si dice la sostanza: anche in questo caso si riscontra il medesimo schema di ragionamento applicato nel paragrafo precedente, consistente nell'istituire una gerarchia fra i diversi elementi: all'interno delle sostanze Aristotele si procura di riscontrare una sostanza più sostanziale, un senso primo di sostanza.
In primo luogo si dice sostanza (1) ciò che è proprio dei corpi semplici (intendendo con tale definizione terra, acqua, aria, fuoco, ecc..) o di quei corpi che, pur non essendo tali, risultano composti dall'unione di più corpi semplici.
L'argomentazione di Aristotele può apparire qui come altrove poco rigorosa nell'assumere come criterio una definizione che subito sconfessa; ma è tipico del metodo di ragionamento aristotelico che procede ritrattando, che avanza indietreggiando e che spesso parte nella sua indagine dall'esperienza comune.
In questo primo senso sono dunque sostanza i corpi più semplici. Poi Aristotele riporta un'opinione altrui secondo la quale la sostanza (2) coincide con ciò che è immanente a tali corpi, che non si predica di alcun sostrato e che è causa del loro essere, come ad esempio l'anima degli animali. Altri ancora - e l'allusione è ai Pitagorici - ritengono che sostanza (3) sia il numero, o le determinazioni geometriche e spaziali numericamente qualificate, poiché senza di esse scompare anche la cosa stessa (ad esempio, senza la linea o la superficie non si dà nessun oggetto); infine si dice sostanza (4) l'essenza (to ti en einai), ciò che fa sì che una cosa sia ciò che è e che dunque la definisce (qui essenza è specificazione di sostanza: questa infatti è assunta in senso generico come "ciò che è"). In conclusione Aristotele riduce a due i sensi sopra ricordati: in primo luogo sostanza è il sostrato, ciò che non riceve determinazioni perché non può da nulla essere determinato (la materia); in secondo luogo è sostanza quel qualcosa di determinato che costituisce la forma di qualcosa, che informa una certa materia e che - il passo ha una sfumatura sorprendentemente platonica - può esserne anche separato (l'essenza).
I sensi (2) e (3) sono per Aristotele riconducibili a (4), sono momenti intermedi che non godono di un significato proprio ma che lo assumono in riferimento a ciò che dà forma, alla forma in sé, all'essenza.
Quanto detto sinora permette di ben evidenziare uno dei caratteri propri del procedere aristotelico: l'indagine si snoda dal generale allo specifico, mediante un processo di progressivo restringimento di campo che, muovendo dalla pluralità dei sensi dell'essere, individua quello privilegiato della sostanza e, all'interno di questo, un senso primario della sostanza stessa.
Tale procedere restringente è ben visibile in un passo del Libro settimo dove si riparte dal problema del significato dell'essere e si ribadisce che l'essere ha molteplici significati, individuandone due fondamentali. In un primo senso, dice Aristotele, essere è essenza e "alcunché di determinato". Ciò che è stato (giustamente) tradotto con essenza corrisponde al greco tì esti, che letteralmente significa "che cosa è"; to dè ti indica invece "questa cosa determinata"; "questa cosa qui", con la sua specifica determinazione d'essere: ovvero, come è riportato, "alcunché di determinato".
Questo per quanto concerne il primo significato dell'essere. Ve n'è però un secondo, per cui essere si dice in riferimento alla quantità, alla qualità o a qualsiasi altra categoria.
E' chiaro come il senso primo sia quello dell'essenza, in quanto è quest'ultima che propriamente indica la sostanza. L'essere vero e proprio è quello sostanziale: chiedere cosa sia l'essere significa in definitiva chiedere ciò che identifica la sostanza, perché tale sostanza è questa e non un'altra; domandarsi che cosa una cosa sia, interrogarsi intorno a ciò che fa sì che una cosa sia ciò che è e non qualcos'altro, significa chiederne l'essenza, ciò che la determina in quanto tale.
Se è vero che diciamo l'essere in molti modi, è altrettanto vero che lo diciamo sempre riferendoci alla determinazione della sostanza, sicché, quando predichiamo la quantità o la qualità dicendo che sono, ammettiamo che esse sono tali solo in riferimento alla sostanza cui si riferiscono, che sono cioè solo in quanto quantità e qualità della sostanza definita dall'essenza. Chiedersi cosa sia un uomo, non, ad esempio, perché un uomo è bianco: l'esser -uomo- è determinato dalla sua sostanza essenziale, non dalla qualità di esser - bianco che come tale può esserci o meno, e quando è, è sempre riferita alla sostanza.
Rispetto al passo parallelo del quinto libro, dedicato al medesimo tema, è scomparso l'essere accidentale. Mancano in realtà anche i significati dell'essere come esser - vero e essere potenziale e attuale, ma tale assenza è meglio giustificabile poiché questi ultimi si presentano come determinazioni della sostanza, e possono perciò senza troppi problemi essere assorbiti nella definizione dell'essere che la riguarda. Diverso è il caso che concerne l'accidentalità.
In effetti Aristotele accenna poche righe sotto al "non essere", chiedendosi se determinazioni non sostanziali quali quelle dell'esser - sano, dell'esser - seduto o del camminare possano essere a ragione inserite in tale dimensione: se essere in senso proprio è la sostanza, allora ciò che le si riferisce secondo le varie determinazioni categoriali - quali appunto l'esser seduto o il camminare - assume un senso solo in quanto può predicarsi della sostanza, non perché lo possiede in sé. Si assiste qui ad un avvicinamento fra essere accidentale ed essere categoriale, ad un loro progressivo sovrapporsi, poiché entrambi caratterizzati dalla contingenza, dal loro doversi - riferire alla sostanza come garante del loro essere. Solo la sostanza permette di dire che l'esser - sano è, così come è sempre la sostanza che consente di attribuire l'essere all'accidente: l'esser - sano si riferisce immancabilmente a ciò che è sano, alla sostanza che, dice Aristotele di sfuggita, in quanto "alcunché di determinato", è riconducibile all'individuo.
Nelle righe successive il discorso diviene più chiaro. Si dice infatti che la sostanza è la prima delle categorie, parlando esplicitamente di "categoria della sostanza". Aristotele non duplica più i significati dell'essere in sostanza e categorie della sostanza, ma afferma che l'essere si dice in senso proprio nelle categorie, fra cui ve n'è una che è prima, quella della sostanza. Così ogni predicato (il buono, ad esempio) può ricevere la sua determinazione d'essere in riferimento a un essere primo, a un essere - per così dire - più titolare dell'essere, che è la sostanza.
Senza alcuna possibilità di riferimento, Aristotele conclude perciò che l"essere per eccellenza è la sostanza". SI può qui osservare come la questione sia affrontata sulla base del presupposto gerarchico: a un primo significato di essere ne seguono altri subordinati.
Tale struttura ha un corrispettivo a livello cosmologico: il mondo è un cosmo perché è ordinato secondo una struttura gerarchica che va dal mondo sublunare a quello celeste delle sfere superiori.
La sostanza è dunque l'essere primo. Aristotele precisa che essa è primo per il tempo, per la nozione e per la conoscenza. Lo è per il tempo, perché nient'altro può essere separato, può essere concepito per sé, sussistendo per sé.
L'espressione "è lungo tre cubiti" non ha alcun senso se non è riferito a un soggetto che mantiene tale significato anche se non gli viene predicata tale misura. In questo senso la sostanza è (ontologicamente) prima. Ma lo è anche per la nozione, poiché quando ci si riferisce a una qualsiasi determinazione, come ad esempio l'esser -buono, nel dire "è" buono, si sottintende sempre che "qualcuno" (o qualcosa) è tale: nella qualità si suppone sempre la sostanza. Infine la sostanza è prima anche per la conoscenza, poiché conoscere qualcosa significa necessariamente conoscerne l'essenza, non le sue determinazioni categoriali (quantità, qualità, ecc..) che come tali possono esserci o meno e comunque le si riferiscono sempre. Se il sapere è conoscenza di ciò che è stabile, di ciò che sempre è, esso non potrà che assumere per oggetto la sostanza essenziale.
Il paragrafo si conclude con un passo importante, solenne nel suo andamento: la domanda sull'essere, che è la domanda propria della filosofia, si trasforma o meglio si declina in domanda sulla sostanza: l'indagine filosofica è spostata dall'essere alla sostanza e quindi domandare cosa sia l'essere significa chiedersi cosa sia la sostanza, che finisce per essere quindi assunta come senso dell'essere.
Più oltre Aristotele propone quattro significati di sostanza che non sono gli stessi presentati nel passo parallelo del libro quinto: qui egli è soprattutto interessato a distinguere la propria posizione da quella di Platone e dei platonici. Tuttavia i due significati fondamentali ritornano, a testimonianza di come fra i diversi libri della Metafisica sia riscontrabile una continuità di fondo. Anzitutto la sostanza è il sostrato, di qui si ripete - in accordo con quanto detto in precedenza - che è ciò di cui vengon o predicate tutte le cose, ma che non viene predicato di nulla; ma qui Aristotele estende la nozione a qualcosa di più ampio, intendendo con tale termine ciò che sta sotto, il soggetto in quanto letteralmente sub - jectum, ciò che regge tutte le determinazioni.
Precisando poi - in parziale contrasto con quanto riportato altrove - che sostrato è si la materia (a) ma anche la forma (b) o l'unione di materia e forma (c). E' (a) perché la materia è ciò di cui tutto si predica; è (b) perché, anche grammaticalmente, è l'effettivo soggetto, ciò che dà forma; è (c) perché è sintesi di entrambi. Aristotele chiama questa unità sinolo: è un composto unitario, sintesi formale e materiale (la statua è sinolo della materia - il bronzo - e della struttura formale intesa come distinta dall'oggetto cui si applica, come la pura forma - statua non applicata ad alcun oggetto). La sostanza è qui ricondotta al soggetto, per cui tutto ciò che si predica, lo si dice solo in riferimento a essa.
Tuttavia, come già si accennava nel Libro quinto, molti identificano la sostanza con la semplice materia. Infatti, poiché di ogni cosa è possibile astrarre tutte le determinazioni quantitative e qualitative, allora si potrebbe supporre che ciò che resta dopo tale processo - la materia come puro indeterminato - sia ciò che vi è di più essenziale, poiché si tratta di quella materia ultima alla quale si riferisce ogni determinazione, ciò a cui tutte le categorie si rivolgono senza essere una categoria essa stessa. Aristotele rifiuta questa posizione che potremmo definire "materialista". Ciò che è, è di volta in volta qualcosa di determinato, che ha una forma e un'essenza, non è mai una pura materia: è forma o sinolo. Si assiste quindi all'ennesima restrizione gerarchica del procedimento: posto il problema dell'essere lo si qualifica come questione principale, si riconoscono i vari modi di dire l'essere e si individua un senso preminente che è quello di sostanza e fra i vari significati di quest'ultima di certifica come senso eminente quello che la definisce forma o sinolo di materia e dorma. Aristotele mantiene le due possibilità perché dal suo punto di vista vi sono sostanze prive di materia e che quindi sono tali in quanto pure forme.
Ancora nel libro precedente (E, 1) si torna a definire l'ambito della ricerca. Si recupera la definizione del sapere come scienza di cause e principi, fra cui è possibile distinguere una scienza prima, che è quella che studia le cause e i principi non di una modalità dell'essere, ma dell'essere in quanto essere. Le altre scienze non si occupano dell'essere così inteso ma lo presuppongono, assumendo come oggetto determinati tipi di proprietà che ineriscono le cose.
E' opportuno sottolineare come Aristotele assuma quale dato non problematico la coincidenza fra essenza ed esistenza.
Dal suo punto di vista, che è quello di un greco cui è estranea l'idea di creazione, il mondo è e non può essere eterno, per cui ciò che è, necessariamente anche esiste. Questo aspetto viene in luce nel momento in cui egli propone una classificazione delle scienze, in riferimento alle quali sostiene che tutte trattano dell'essenza e dell'esistenza; ci sono invece discipline che non trattano dell'essenza delle cose, ragion per cui esse non dicono nulla circa l'esistenza di ciò che assumono come oggetto della loro analisi: le scienze matematiche si interessano dello studio delle determinazioni quantitative che intercorrono fra le figure ma non le riferiscono ad alcuna sostanza, rinunciando perciò a dire qualcosa circa l'essenza e l'esistenza delle cose.
A partire dal Medioevo la situazione subisce una profonda modificazione, un vero e proprio mutamento di paradigma.
Il mondo non è il cosmo eterno dei Greci ma è il mondo creato da Dio. Ora, ogni atto creativo implica un gesto di libertà per cui ciò che è creato e che è poteva anche non essere. Dio poteva scegliere liberamente di non creare il mondo. E' chiaro dunque che in questa nuova prospettiva, aperta dal cristianesimo, l'essenza della cosa posta nella mente di Dio non implica necessariamente la sua esistenza, perché questo passaggio richiede l'intervento di una volontà creatrice. Tale scarto fra essenza ed esistenza, centrale nell'orizzonte cristiano, non ha alcun corso in quello greco, per cui ciò che è anche esiste (salvo si tratti di concetti astratti o degli universali).
Tornando ora ad Aristotele, si è visto come il suo obiettivo sia quello di individuare la scienza prima, quella da cui tutte le altre dipendono. Non può trattarsi della fisica perché questa si occupa solo di un tipo particolare di esseri, ossia di sostanza; suo oggetto sono infatti quelle sostanze che sono in quiete o in movimento. Preliminarmente Aristotele propone in termini più confusi ciò che meglio elabora nell' Etica Nicomachea, ovvero una suddivisione formale delle scienze in base all'oggetto di analisi: si distinguono così "le scienze pratiche" che ricercano i principi dell'azione umana, assumendo come ambito d'indagine la dimensione etica dell'uomo; le "scienze poietiche" che si dedicano alla produzione di oggetti, nel novero delle quali si possono collaborare sia l'arte sia la tecnica e infine le "scienze teoretiche", che si prefiggono di raggiungere la sola conoscenza, ricercata non per eventuali applicazioni pratiche o produttive ma per se stessa, avendo il proprio fine nel puro conoscere. La fisica ricade in quest'ultimo gruppo, perché mira alla conoscenza delle cause e dei principi degli esseri naturali, non è volta né alla prassi né alla produzione di manufatti, ma esclusivamente alla conoscenza della realtà della natura e delle sostanze che la costituiscono, le quali forme unite a materia, sinoli che hanno in sé il principi0 della quiete e del movimento. In questo senso si precisa che anche una parte dell'anima è oggetto della fisica. Nella tripartizione aristotelica dell'anima infatti a fianco di quella vegetativa (propria, come suggerito dalla denominazione, degli esseri vegetali), si situa l'anima sensitiva (posseduta dagli animali) e quella intellettiva (prerogativa dell'uomo) e ciascuna ha valore inclusivo rispetto alle precedenti, per cui l'uomo che detiene l'anima intellettiva possiede necessariamente anche le altre due: ora per Aristotele l'anima vegetativa e sensitiva sono materiali e presiedono al movimento del corpo e perciò ricadono a vigore nell'ambito dell'analisi della fisica.
In definitiva possiamo definire la fisica come quella scienza teoretica che è scienza dei principi del movimento e dei corpi naturali che hanno in loro il movimento stesso. Ne deriva che non può essere la scienza prima poiché restringe il suo campo a un tipo specifico di essere.
Ma neppure le scienze matematiche possono meritare il grado più alto del sapere. Tali scienze ricadono senza dubbio nell'ambito teoretico, poiché non affrontano né questioni pratiche né, tanto meno, s rivolgono alla produzione di manufatti. Esse studiano quell'insieme di determinazioni che hanno il carattere dell'essere immobile; per cui alcuni - il riferimento è ancora ai Platonici - ne hanno concluso che l'oggetto delle matematiche si identifica con quegli esseri immobili e separati, le idee. Ma la matematica, obietta Aristotele, indaga anche le relazioni che ineriscono a realtà fisiche: sono quindi enti non separati.
Si assiste qui ad una complicazione metodologica: nel delineare un quadro sistematico delle scienze si adotta all'inizio il criterio basato sulla distinzione di scienze teoretiche, pratiche e poietiche; quando si tratta poi di determinare la superiorità delle scienze solo teoretiche si introduce un nuovo criterio, quello che considera l'oggetto d'indagine in virtù del suo essere separato o in movimento.
Sulla base di questa nuova prospettiva la fisica si interessa delle sostanze in movimento, la matematica di quelle realtà immobili che tuttavia "almeno in parte", non possono essere considerate autonome, in grado cioè di sussistere di per sé, separate dalla materia. E' chiaro dove Aristotele intenda condurre il ragionamento: si tratta a questo punto di trovare una sostanza che sia ad un tempo immobile, come lo sono gli enti matematici, e separata, cosa che tali enti invece non sono; se una sostanza di questo tipo esiste, allora è necessaria una scienza che ne indaghi le strutture. Questa scienza è per Aristotele la filosofia prima, che in questo contesto non è definita come scienza dell'essere in quanto essere, ma come scienza delle sostanze immobili e separate. Ora, tale scienza superiore ha per oggetto le cause che, sempre eterne, devono esserlo particolarmente in questo frangente, poiché si tratta delle cause che sono proprie degli esseri immobili e separati, ossia divini.
La metafisica è in questo passo identificata con la scienza più alta, la migliore fra le già migliori scienze teoretiche, quella che ha per oggetto quello più elevato. Qui la metafisica è teologia.
Ma Aristotele recupera immediatamente anche l'altro significato. La teologia è scienza prima in quanto ha per oggetto l'essere primo, ossia l'essere divino; se tale sostanza non ci fosse, se esistessero solo sostanze immanenti, allora la scienza prima sarebbe la fisica. Tuttavia, se la sostanza immobile esiste, ne deriva che la scienza che se ne occupa è "prima" e lo è anche nel senso che è anteriore a tutte le altre, è cioè la scienza più universale. Assumere per oggetto la sostanza più alta non implica una specializzazione del campo d'indagine, ma ne comporta al contrario una sua dilatazione: la sostanza prima è la sostanza da cui tutte le altre dipendono; la scienza che l'indaga è dunque, in quanto scienza della sostanza prima, scienza di tutte le sostanza e quindi, ancora una volta, scienza dell'essere in quanto essere. Qui la matafisica è ontologia.
Si può quindi concludere dicendo che la teologia studia l'essere in quanto essere. Questo passo mostra come Aristotele abbia pensato insieme le due definizioni, senza oscillazioni o fraintendimenti, lavorando sulla nozione gerarchica di sostanza che funge da punto comune tra entrambi i profili della sua metafisica: la sostanza prima è tale perché sostanza da cui tutte le altre dipendono, almeno in senso finalistico, e perché sostanza divina.
Il tema della classificazione delle scienze emerge ancora più avanti nel libro dodicesimo, il più teologico della Metafisica.
Aristotele ribadisce in apertura che oggetto dell'indagine filosofica è la sostanza, l'oggetto primo cui seguono le categorie, considerate o come determinazioni dell'essere o anche come ciò di cui si predica l'essere. In seguito il discorso si concentra sulla nozione di sostanza si cui si individuano tre tipi.
L'articolazione delle scienze è qui diversa da quella del libro VI, perché riguarda i diversi tipi di sostanza: a fianco della sostanza sensibile, a sua volta distinguibile in sostanza sensibile corruttibile (a) e sensibile eterna (b), si pone la sostanza immobile (c).
Aristotele distingue fra (a) e (b) perché nella sua visione esistono non solo sostanze sensibili che si corrompono, che si generano e si dissolvono, che nascono e muoiono, ma anche sostanze che, pur sensibili, sono eterne, da sempre estranee alla corruzione: si tratta dei corpi celesti, materiali ma incorruttibili.
Con (c) s'intende l'essere divino che in Aristotele si identifica con il Primo Motore immobile e con tutti gli altri motori divini che si sovrintendono alle altre sfere. A questa suddivisione corrisponde una classificazione delle scienze, operata sulla scorta dell'oggetto sostanziale da esse assunto: la scienza che ha in (c) il suo oggetto; è scienza della sostanza immobile (le allusioni vanno probabilmente riferite alle dispute interne all'Accademia platonica).
Ciò che interessa ad Aristotele è individuare la sostanza immobile e separata, in modo da affidarla allo studio della filosofia prima.
In questo schema, a differenza di quanto accadeva nel passo parallelo del libro sesto, non compare la matematica: Aristotele parla soltanto di sostanze sensibili e immobili, introducendo una distinzione interna alle prime fra eterne e corruttibili. Ora, la scienza delle sostanze sensibili è la fisica, che ammette una sua articolazione interna in scienza dei corpi sublunari ( o terrestri) che ha per oggetto la sostanza sensibile corruttibile (a) e in scienza dei corpi celesti che riconosce il proprio oggetto nella sostanza sensibile eterna (b). Manca però il riferimento alle matematiche perché Aristotele privilegia in questo contesto il criterio dell'essere mobile o immobile, e non tratta invece la classificazione delle scienze in teoretiche, poietiche e pratiche, che aveva portato a coinvolgere nella discussione la matematica.
Le scienze sono anche in questo passo tre, tante quante erano nel passo del libro sesto, ma si tratta si scienze diverse: se là si trattava della fisica, della matematica e della filosofia prima, qui al posto della matematica si inserisce un'articolazione della scienza fisica, mentre viene ovviamente confermata nel suo ruolo preminente la filosofia prima, individuata come scienza diversa perché si occupa di un'altra sostanza rispetto a quella indagata dalle fisiche: a queste ultime spetta l'essere sensibile, alla prima la sostanza immobile.
Aristotele non insiste sul carattere specifico di tale sostanza: per alcuni sono gli enti matematici, per altri - come per Aristotele stesso - si tratta delle sostanza separate.
E' però probabile che già prima di Andronico il termine fosse utilizzato. Un'altra ipotesi, avvalorata dallo Pseudo- Alessandro (II-III secolo d.C.) assegna al termine metafisica un significato didattico, intendendo ciò che doveva essere imparato dopo l'apprendimento delle nozioni riguardanti la fisica. Bisogna però attendere Simplicio (V secolo d.C.) affinché per metafisica si indichi specificamente la scienza che ha per oggetto quelle realtà che trascendono il mondo fisico.
Aristotele (A, 2) si propone anzitutto di individuare una definizione di quella scienza (episteme) che chiamiamo sapienza (sophia). Ora, essendovi scienza laddove è possibile esibire una conoscenza universale di cause e principi e poiché si sta cercando di definire cosa sia quella scienza che denominiamo sapienza, allora è chiaro che si tratta di individuare di quali principi e cause essa sia scienza.
Operando con il consueto procedere induttivo, Aristotele propone la seguente argomentazione: se si tratta di definire la sapienza, può essere utile riportare le diverse ragioni per cui qualcuno è comunemente ritenuto sapiente (sophos); da qui sarà forse possibile, in un secondo momento, chiarire cosa sia la sapienza stessa. Anzitutto (1) è considerato sapiente colui che dispone di una conoscenza molto ampia, sebbene non dettagliata, tale da coinvolgere tutte le cose; inoltre (2) è sapiente colui che eccelle nella conoscenza non solo quantitativamente ma anche qualitativamente: è considerato infatti tale chi conosce cose che non tutti sono in grado di conoscere, perché richiedono un processo non comune di mediazione, del quale la conoscenza delle cose più semplici non abbisogna (ciò che si conosce empiricamente è immediato, semplice, a tutti comune); ancora (3) è sapiente chi raggiunge una conoscenza delle cause dell'oggetto cui rivolge la propria attenzione, in modo da andar oltre a una sua mera descrizione empirica ed è perciò (4) anche in grado di insegnare ciò che conosce; è sapiente inoltre (5) chi si dedica a una conoscenza che è perseguita per se stessa, ricercata in quanto fine a se stessa e non per gli utili che è possibile ricavarne; perciò (6) è infine sapiente chi, proprio perché dedito a una scienza che ha in sé il suo fine, non è sottomesso a nessuno; poiché la sapienza è quella scienza che non dipende da nessun'altra scienza, così il sapiente non deve dipendere da nessuno, poiché gli altri dipendono da lui.
Aristotele introduce quindi la definizione della sapienza come scienza dell'universale; chi conosce molte cose (1) le conosce in relazione ai principi universali dell'essere, che sono infatti i più difficili da conoscere (2) perché più lontani dall'immediatezza empirica e dunque coglibili solo mediante un procedimento non comune di astrazione concettuale. E le scienze più complesse ed esatte sono appunto (3) quelle che vertono attorno ai principi e alle cause (4) e che risultano perciò anche insanabili: si può insegnare infatti ciò di cui si conoscono i principi primi. Ma chi (5) dispone di quella scienza che ha per fine il sapere stesso; esso non ha scopi applicativi, è la scienza propriamente tale, perché è soltanto scienza e non ha per oggetto qualcosa di altro da sé, ma assume se stessa, il suo esser-scienza, come oggetto della propria analisi. E' una scienza che si spiega da sé, che mira alla conoscenza di ciò che è massimamente conoscibile, ossia i principi primi (3) insanabili (4) e difficilmente conoscibili (2): solo così si possono conoscere tutte le cose (1). L'argomentazione di Aristotele è sin qui compatta, ogni momento richiama a sostegno gli altri, fornendone così anche un'indiretta conferma. E' in questo contesto (6) che si inserisce la nozione di sommo bene, che per Aristotele è Dio: questa scienza, che è la scienza più alta, si rivolge a un fine che è il fine supremo, ciò verso cui tutto tende; questo fine sommo è il sommo bene che, in quanto motore immobile, determina tutto il movimento ed è dunque causa e principio di tutto ciò che a lui tende.
Ci si può a questo punto chiedere se fra il blocco delle argomentazioni (1)-(5) e l'argomentazione (6) non intercorra un salto, una frattura difficilmente sanabile: la metafisica è infatti ontologia, in quanto scienza dei principi dell'essere (1-5) o è teologia, in quanto scienza dell'essere trascendente (6)? Come contenere le due anime dell'argomentazione aristotelica? Questa pesante eredità diverrà centrale nella successiva riflessione che la metafisica promuoverà intorno al proprio statuto.
Il carattere disinteressato della filosofia emerge anche dalla sua origine che per Aristotele è da individuarsi nella meraviglia. Essa consiste nell'imbarazzo che deriva dal riconoscimento della propria ignoranza (una sorta di socratico "so di non sapere") nei confronti dei fenomeni che accadono; è in riferimento al verificarsi di qualcosa di cui non si è in grado di render conto che si prova stupore. Ci si meraviglia di ciò che non si conosce. Aristotele ne individua gradi intermedi corrispondenti alla complessità dei fenomeni che procurano meraviglia: prima essa sorge a proposito di avvenimenti più semplici, poi più articolati (le fasi lunari), sino a questioni estremamente complicate quali la generazione dell'universo. Più oltre si precisa meglio il ruolo che tale meraviglia gioca nel procedimento filosofico: la filosofia nasce da essa in quanto ne è originata, ma alla fine deve scomparire con il sapere raggiunto intorno a ciò che procurava stupore: il geometra, acquisito il sapere geometrico, non si stupisce più dell'incommensurabilità della diagonale con i lati del quadrato. Se così stanno le cose, allora si può riconoscere una parentela della filosofia con il mito: anche quest'ultimo infatti si sforza di fornire una soluzione a questioni per cui non si dispone di una risposta e che nella loro (attuale) inspiegabilità procurano meraviglia. Aristotele sottolinea il legame anche con un gioco di parole non riproponibile in traduzione - la somiglianza originaria è infatti declinata sul piano dell'assonanza linguistica: al philosophos ("amante del sapere") si associa il philomythos ("amante del mito").
Aristotele evidenzia quindi, nel sottolinearne le affinità, anche le differenze fra mito e filosofia; e del resto è questione ancora aperta se la filosofia abbia posto fine al mito o se essa debba ancora riferirglisi, pur mantenendo la propria autonomia.
La filosofia quindi non è nata da esigenza pratiche, ma dalla meraviglia che sorge allorquando i bisogni primari sono non solo soddisfatti, ma addirittura risolti in una condizione di sostanziale agiatezza. E' una concezione esclusivamente contemplativa della filosofia, unica nella storia delle civiltà, che la presenta come una disciplina privilegiata, in un certo senso superflua, gratuita, che non tutti possono perciò permettersi di praticare: solo l'uomo libero può essere filosofo, perché libero dal lavoro che impegna nella soddisfazione dei bisogni elementari.
Si tratta di una comprensione della filosofia legata a una concezione del mondo come essere immutabile ed eterno, che consente uno sguardo sicuro perché ciò che è in senso più compiuto non muta né muore. Ne deriva una definizione della filosofia come scienza divina, come teologia, il che non significa, come dicono i poeti (contro cui anche Platone polemizza), che gli dèi invidiosi precludano agli uomini di parteciparvi, ma il sapere filosofico è divino perché è una scienza che solo gli dèi posseggono in grado sommo e perché ha per oggetto le cose divine.
Aristotele ripropone ora (A, 3) la definizione della scienza come conoscenza delle cause. Per causa intendiamo anzitutto (1) la sostanza o l'essenza della cosa (causa formale). La "sostanza" (ousia) si riferisce al fatto d'essere della cosa, che grammaticalmente corrisponde a una sostantivizzazione del participio presente del verbo essere, indicando non tanto - o non solo - l'essenza, ma più precisamente la sua "essentità". Per "essenza" (to ti en einai, "ciò che era l'essere) si intende invece il contenuto d'essere di ciò che è, cioè dell'essente. L'ousia pone l'accento sul fatto d'essere, l'essenza sul contenuto d'essere. Sostanza ed essenza sono le categorie con cui Aristotele riconduce l'essere alla fondamentale struttura che lo costituisce.
In secondo luogo (2) causa è il sostrato o la materia, in quanto ciò che sostiene il contenuto d'essere, l'ossia (causa materiale). Causa è ancora (3) il principio del movimento - comprendente anche il mutamento - ossia ciò che lo determina (causa efficiente). Per ultimo (4) causa è il fine verso cui la cosa (e il tutto) tende, perché è ciò che, attirando a sé, determina tale movimento di attrazione (causa finale). A ciò Aristotele fa seguire un'indagine storica volta a verificare se i suoi predecessori abbiano colto altre tipologie di cause; è quella che è stata definita "la prima storia della filosofia" che si conclude con la constatazione da parte dell'autore che i precedenti pensatori non solo non hanno individuato altre cause, ma sono stati anche incapaci di comprenderle nella loro totalità. E' ancora interessante soffermarsi su un'annotazione in cui Aristotele afferma di aver già elettorato una teoria delle diverse cause nella Fisica. Perché allora, ci si può chiedere, ripetere in ambito meta-fisico ciò che riguarda la fisica? I sostenitori della filosofia come teologia trovano qui una conferma della loro tesi.
Ma, quasi a smentire una pretesa eccessiva, qualche pagina più avanti, si trova la definizione della filosofia come ontologia, come scienza dell'essere in quanto essere. Tutte le scienze esaminano infatti aspetti particolari dell'essere, un suo genere o una sua specifica manifestazione. La filosofia invece s'interessa dell'essere in quanto essere, e se scienza è ricerca delle cause e dei principi supremi, allora in questo caso si tratta di ricercarli in riferimento all'essere puro, "alla realtà che è per sé", che non dipende cioè da un'altra o da altre realtà. La filosofia ricerca i principi primi dell'essere sostanziale.
Aristotele afferma quindi che vi sono molteplici modi di dire l'essenza senza che questo provochi una dissoluzione del concetto; è vero che l'essere si predica di molte cose, ma tutte finiscono, in qualche modo, per convergere. Come ad esempio diciamo "sano" tutto ciò che si riferisce alla salute (sia che la conservi, che la produca, che ne sia sintomo o la riceva) e come diciamo "medico" tutto ciò che si riferisce alla medicina (in quanto la possiede o le è per natura ben disposto o ne è l'opera), così anche l'essere si dice in molti modi ma tutti legati a un riferimento condiviso: questo punto di contatto è la sostanza, per cui l'essere è tale perché è sostanza o perché le è comunque riferito in quanto affezione, corruzione, privazione, qualità, o negazione di queste (perciò anche il non-essere è in qualche modo essere).
In questo passo il senso fondamentale dell'essere è dunque rinvenuto nell'ossia, da cui si può ricavare la definizione di metafisica come scienza della sostanza. In questo punto vengono così a convergere le precedenti definizioni: se infatti la metafisica era stata considerata (1) scienza dell'essere e (2) scienza delle cause prime, allora è chiaro che- essendo l'essere l'ossia - essa, in base a (1), è scienza della sostanza, ma dovendo per (2) anche essere scienza delle cause, si può qui definire come scienza che conosce le cause e i principi della sostanza.
Ora, se c'è una modalità di apprensione unica di una serie di cose, esse appartengono ad un unico genere e sono quindi oggetto di un'unica scienza. Come la grammatica studia tutti i suoni, così la metafisica studia tutte le specie di essere come essere.
A questo punto Aristotele identifica essere e uno. Essi infatti si implicano reciprocamente, anche se non convergono in un'unica nozione. Non c'è differenza fra l'espressione "uomo" e quella che vi associa l'unità, "un uomo", poiché nella prima è già implicata la nozione di unità che la seconda rende esplicita; e nemmeno si può dire che l'unità è una nozione accessoria o seconda, che si aggiunge a qualcosa che già sussiste e che gli è ontologicamente o logicamente precedente. Ciò che fa essere ciò che è, è una sostanza, è questa sostanza determinata, in cui è già contenuta la nozione di unità. L'essere coincide con l'uno - e viceversa: ciò significa riconoscere nell'essere una sua identità di fondo che è la sua stessa identità. Dietro l'equazione Essere=Uno si esprime l'idea dell'essere stabile e immutabile nella sua identità. Non si tratta di qualcosa di incostante, di un semplice variare caleidoscopico : è l'identità che costituisce l'essere di qualcosa di determinato.
Se essere e uno sono equivalenti, allora esistono tante specie di essere quante sono quelle di unità. Tutto ciò che ricade quindi nell'ambito di quest'ultima deve necessariamente appartenere alla scienza dell'essere. Aristotele sostiene che lo studio del molteplice in quanto opposto all'uno, della privazione e della negazione in quanto riferite all'uno, e i contrari di tali nozioni in quanto contrari di ciò che è definito in riferimento all'uno, appartengano di diritto alla scienza dell'unità e quindi a quella dell'essere. L'idea del simile, identico e i loro contrari in quanto riferiti all'unità sono perciò oggetto della scienza dell'essere.
Lo stesso schema di ragionamento lo si riscontra in un passo successivo, allorquando Aristotele sostiene che vi sono tante parti della filosofia quante sono quelle di sostanza: sulla base dell'articolazione del concetto di sostanza è possibile individuare una filosofia prima e filosofie seconde. Non vi sono allora scienze diverse ma un'unica scienza articolata secondo i diversi sensi dell'essere e i diversi generi di sostanza. Se l'essere è uno, e se tutti tali termini e significati si rivolgono a qualcosa di comune, allora il loro studio è oggetto di un'unica scienza.
Alla conclusione del paragrafo Aristotele distingue due tipi di analogia. Due cose si dicono analogiche perché (1) si riferiscono al medesimo termine o perché (2) sono fra loro consecutive. In entrambi i casi è la stessa scienza che studia le proprietà della sostanza, le sue affezioni, ciò che le è simile, identico, analogico e il contrario di queste determinazioni, e che studia le diverse specie di sostanza.
Nel paragrafo successivo del medesimo libro (T, 3) si chiede se la metafisica debba includere nell'ambito della sua analisi anche gli assiomi, operando in analogia con le matematiche che non si limitano a studiare gli enti loro specifici, ma coinvolgendo in tale esame anche gli assiomi che li riguardano. La risposta di Aristotele è assolutamente affermativa: se tali assiomi sono principi fondamentali che appartengono a tutto ciò che è, se non c'è essere che non sia sottoposto alle leggi da loro indicate, allora è chiaro che la "scienza del filosofo", la scienza dell'essere deve in quanto essere non potrà esimersi da studiarli. Essi rivelano proprietà che appartengono non a un essere, ma all'essere in generale. Aristotele riconosce che le varie scienze si interessano solo di quegli assiomi che intervengono direttamente nella materia della propria disciplina, ma se essi riguardano l'essere in quanto essere allora toccherà alla scienza corrispondente - alla filosofia - assumerli come proprio oggetto: degli assiomi fondamentali non si interessano infatti le scienze particolari che si limitano a studiare quelli che intervengono nella propria specifica pratica dimostrativa, come ad esempio gli assiomi della geometria.
Tuttavia, riconosce Aristotele, tali assiomi sono stati in passato indagati dai fisici. L'appunto è importante: se essi riguardano l'essere in quanto essere, per quale ragione la fisica li ha considerati come proprio oggetto d'indagine? Si è forse trattato di un errore, di un fraintendimento che noi oggi chiameremmo metodologico? La risposta è indicativa del modo di pensare aristotelico: i fisici ( i presocratici) assunsero gli assiomi fondamentali come proprio ambito d'indagine perché ritennero di essere gli unici a studiare la realtà nella sua totalità; dal loro punto di vista l'essere si esaurisce infatti nell'essere fisico. Ma per Aristotele esiste una scienza superiore alla fisica, poiché la natura è soltanto un genere dell'essere, il che significa ammettere l'esistenza di sostanze non fisiche; gli assiomi fondamentali ricadono quindi nell'ambito di quella scienza che studia le sostanze in generale, compresa quella fisica, e che può perciò essere definita meta-fisica.
Torna qui, ancora una volta, l'intreccio fra le due anime della riflessione aristotelica: se la metafisica è la scienza suprema (poiché la fisica è una sapienza, ma non la prima sapienza), allora essa potrà venir qualificata come scienza dell'essere supremo (Dio) e quindi come "teologia"; se però la scienza del filosofo è quella che studia gli assiomi fondamentali dell'essere, ed è quindi prima rispetto alle altre perché più universale, allora ne deriva che essa è scienza dell'essere in quanto essere, "ontologia", scienza delle sostanze, e fra queste, della sostanza prima.
Dopo gli assiomi, Aristotele include nella sua indagine anche i sillogismi, affermando che la filosofia è scienza dei principi e dei sillogismi. Il filosofo deve quindi impegnarsi nella ricerca dei principi più sicuri, ossia più certi ed evidenti, degli esseri; fra questi ve n'è uno fondamentale, il più sicuro, intorno al quale è impossibile cadere in errore. Aristotele passa ad elencarne brevemente le caratteristiche: esso è il più noto e generale, in quanto è valido in ogni ambito di pensiero, per ogni sapere che si rivolga a qualsivoglia essere; non è ipotetico, perché, se lo fosse, essendo il più fondamentale rischierebbe di conferire tale ipoteticità anche al sapere che su di esso si fonda, facendo venir meno la stabilità incontrovertibile della scienza; ancora, precede ogni conoscenza in quanto è condizione di possibilità di ogni sapere: qualunque conoscenza ne implica sempre l'utilizzo, poiché senza di esso non si dà alcun sapere. Poi se ne offre la definizione: "E' impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga alla stessa cosa": è questa la nota formula con cui Aristotele introduce il principio di non-contraddizione. Ossia, in altre parole, è impossibile predicare di qualcosa qualcos'altro e la sua negazione; in termini logici, si può dire che di A non si possono predicare B e non B, il predicato B e la sua negazione. Nella definizione si dice però "ad un tempo": ciò significa che il principio vale quando si considera il medesimo soggetto assunto nello stesso tempo e nello stesso luogo, considerandolo cioè nelle medesime coordinate spaziali e temporali, ossia sotto lo stesso punto di vista. Così non è possibile credere - nello stesso tempo e luogo - che la medesima cosa sia e non sia, come avrebbe fatto Eraclito. A scanso di equivoci Aristotele precisa che l'incontrovertibilità del principio di non contraddizione non implica l'impossibilità di cadere in contraddizione; e tuttavia chi sostiene affermazioni contraddittorie non può ritenerle valide, perché non dice nulla di determinato. Il principio di non contraddizione è assunto da Aristotele come principio fondamentale della scienza dell'essere in quanto essere, poiché non è possibile pensare alcun essere (implicitamente) presupporlo.
Altrove vengono riproposte questioni già affrontate nei libri precedenti esaminandole sotto angolazioni diverse: ritorna, con una sfumatura nuova, il tema della molteplicità dei sensi dell'essere. In apertura si distinguono due sensi:
(1) l'essere accidentale
(2) l'essere per sé
Nel primo caso si predica di un soggetto un predicato che non lo accompagna essenzialmente, che può appartenergli e tuttavia non è necessario alla sua definizione; dire che "il musico è un costruttore" o che "l'uomo è musico" significa attribuire a un soggetto (il musico, l'uomo) un predicato (l'esser costruttore, l'esser musico) per cui, con o senza di esso, non ne risulta alterata l'essenzialità: non è necessario esser musico per essere definito essenzialmente uomo. "Essere per sé" è invece detto quell'essere determinato secondo le "figure delle categorie". Queste sono i modi essenziali in cui si dice l'essere, in cui si determina l'essere sostanziale, sebbene Aristotele ammetta come prima categoria proprio la sostanza, a fianco della quale parla poi delle categorie della quantità, della qualità, della relazione, ecc... Perciò l'essere per sé è quell'essere che si dice secondo le categorie: essere sostanziale, quantitativo, qualitativo, temporale...ossia, secondo quelle determinazioni che sono essenziali all'essere stesso; anche se le determinazioni diverse da quella sostanziale possono essere accidentali.
Ancora (3) l'essere è l'esser-vero, perciò attribuire l'essere a qualcosa significa affermarne la verità cosicché questa risulta inscritta primariamente in un orizzonte ontologico quale determinazione dell'essere e poi- soltanto in un secondo tempo- diviene carattere della proposizione.
Infine (4), e abbastanza inaspettatamente, Aristotele dice che un ulteriore modo di considerare l'essere è quello d'intenderlo secondo la distinzione potenza-atto, che vale come articolazione interna sia di (1) che di (2): l'essere può essere in potenza o in atto, come diciamo "che sa" sia colui che esercita attualmente il sapere sia chi lo può (potenzialmente) fare.
Anche in questo caso, come sempre, c'è però un significato fondamentale dell'essere che è quello dell'"essere per sé" inteso come sostanza, in quanto categoria prima che ammette sotto di sé le altre e che articola, sotto l'essere categoriale, quello accidentale: si delinea dunque una gerarchia che pone al di sopra l'essere sostanziale, poi quello determinato dalle altre categorie e infine quello accidentale. Quest'ultimo non si pone sullo stesso piano di quello sostanziale e di quello delle categorie, ma è semplice declinazione logica del senso dell'essere.
Quindi si distinguono i sensi in cui si dice la sostanza: anche in questo caso si riscontra il medesimo schema di ragionamento applicato nel paragrafo precedente, consistente nell'istituire una gerarchia fra i diversi elementi: all'interno delle sostanze Aristotele si procura di riscontrare una sostanza più sostanziale, un senso primo di sostanza.
In primo luogo si dice sostanza (1) ciò che è proprio dei corpi semplici (intendendo con tale definizione terra, acqua, aria, fuoco, ecc..) o di quei corpi che, pur non essendo tali, risultano composti dall'unione di più corpi semplici.
L'argomentazione di Aristotele può apparire qui come altrove poco rigorosa nell'assumere come criterio una definizione che subito sconfessa; ma è tipico del metodo di ragionamento aristotelico che procede ritrattando, che avanza indietreggiando e che spesso parte nella sua indagine dall'esperienza comune.
In questo primo senso sono dunque sostanza i corpi più semplici. Poi Aristotele riporta un'opinione altrui secondo la quale la sostanza (2) coincide con ciò che è immanente a tali corpi, che non si predica di alcun sostrato e che è causa del loro essere, come ad esempio l'anima degli animali. Altri ancora - e l'allusione è ai Pitagorici - ritengono che sostanza (3) sia il numero, o le determinazioni geometriche e spaziali numericamente qualificate, poiché senza di esse scompare anche la cosa stessa (ad esempio, senza la linea o la superficie non si dà nessun oggetto); infine si dice sostanza (4) l'essenza (to ti en einai), ciò che fa sì che una cosa sia ciò che è e che dunque la definisce (qui essenza è specificazione di sostanza: questa infatti è assunta in senso generico come "ciò che è"). In conclusione Aristotele riduce a due i sensi sopra ricordati: in primo luogo sostanza è il sostrato, ciò che non riceve determinazioni perché non può da nulla essere determinato (la materia); in secondo luogo è sostanza quel qualcosa di determinato che costituisce la forma di qualcosa, che informa una certa materia e che - il passo ha una sfumatura sorprendentemente platonica - può esserne anche separato (l'essenza).
I sensi (2) e (3) sono per Aristotele riconducibili a (4), sono momenti intermedi che non godono di un significato proprio ma che lo assumono in riferimento a ciò che dà forma, alla forma in sé, all'essenza.
Quanto detto sinora permette di ben evidenziare uno dei caratteri propri del procedere aristotelico: l'indagine si snoda dal generale allo specifico, mediante un processo di progressivo restringimento di campo che, muovendo dalla pluralità dei sensi dell'essere, individua quello privilegiato della sostanza e, all'interno di questo, un senso primario della sostanza stessa.
Tale procedere restringente è ben visibile in un passo del Libro settimo dove si riparte dal problema del significato dell'essere e si ribadisce che l'essere ha molteplici significati, individuandone due fondamentali. In un primo senso, dice Aristotele, essere è essenza e "alcunché di determinato". Ciò che è stato (giustamente) tradotto con essenza corrisponde al greco tì esti, che letteralmente significa "che cosa è"; to dè ti indica invece "questa cosa determinata"; "questa cosa qui", con la sua specifica determinazione d'essere: ovvero, come è riportato, "alcunché di determinato".
Questo per quanto concerne il primo significato dell'essere. Ve n'è però un secondo, per cui essere si dice in riferimento alla quantità, alla qualità o a qualsiasi altra categoria.
E' chiaro come il senso primo sia quello dell'essenza, in quanto è quest'ultima che propriamente indica la sostanza. L'essere vero e proprio è quello sostanziale: chiedere cosa sia l'essere significa in definitiva chiedere ciò che identifica la sostanza, perché tale sostanza è questa e non un'altra; domandarsi che cosa una cosa sia, interrogarsi intorno a ciò che fa sì che una cosa sia ciò che è e non qualcos'altro, significa chiederne l'essenza, ciò che la determina in quanto tale.
Se è vero che diciamo l'essere in molti modi, è altrettanto vero che lo diciamo sempre riferendoci alla determinazione della sostanza, sicché, quando predichiamo la quantità o la qualità dicendo che sono, ammettiamo che esse sono tali solo in riferimento alla sostanza cui si riferiscono, che sono cioè solo in quanto quantità e qualità della sostanza definita dall'essenza. Chiedersi cosa sia un uomo, non, ad esempio, perché un uomo è bianco: l'esser -uomo- è determinato dalla sua sostanza essenziale, non dalla qualità di esser - bianco che come tale può esserci o meno, e quando è, è sempre riferita alla sostanza.
Rispetto al passo parallelo del quinto libro, dedicato al medesimo tema, è scomparso l'essere accidentale. Mancano in realtà anche i significati dell'essere come esser - vero e essere potenziale e attuale, ma tale assenza è meglio giustificabile poiché questi ultimi si presentano come determinazioni della sostanza, e possono perciò senza troppi problemi essere assorbiti nella definizione dell'essere che la riguarda. Diverso è il caso che concerne l'accidentalità.
In effetti Aristotele accenna poche righe sotto al "non essere", chiedendosi se determinazioni non sostanziali quali quelle dell'esser - sano, dell'esser - seduto o del camminare possano essere a ragione inserite in tale dimensione: se essere in senso proprio è la sostanza, allora ciò che le si riferisce secondo le varie determinazioni categoriali - quali appunto l'esser seduto o il camminare - assume un senso solo in quanto può predicarsi della sostanza, non perché lo possiede in sé. Si assiste qui ad un avvicinamento fra essere accidentale ed essere categoriale, ad un loro progressivo sovrapporsi, poiché entrambi caratterizzati dalla contingenza, dal loro doversi - riferire alla sostanza come garante del loro essere. Solo la sostanza permette di dire che l'esser - sano è, così come è sempre la sostanza che consente di attribuire l'essere all'accidente: l'esser - sano si riferisce immancabilmente a ciò che è sano, alla sostanza che, dice Aristotele di sfuggita, in quanto "alcunché di determinato", è riconducibile all'individuo.
Nelle righe successive il discorso diviene più chiaro. Si dice infatti che la sostanza è la prima delle categorie, parlando esplicitamente di "categoria della sostanza". Aristotele non duplica più i significati dell'essere in sostanza e categorie della sostanza, ma afferma che l'essere si dice in senso proprio nelle categorie, fra cui ve n'è una che è prima, quella della sostanza. Così ogni predicato (il buono, ad esempio) può ricevere la sua determinazione d'essere in riferimento a un essere primo, a un essere - per così dire - più titolare dell'essere, che è la sostanza.
Senza alcuna possibilità di riferimento, Aristotele conclude perciò che l"essere per eccellenza è la sostanza". SI può qui osservare come la questione sia affrontata sulla base del presupposto gerarchico: a un primo significato di essere ne seguono altri subordinati.
Tale struttura ha un corrispettivo a livello cosmologico: il mondo è un cosmo perché è ordinato secondo una struttura gerarchica che va dal mondo sublunare a quello celeste delle sfere superiori.
La sostanza è dunque l'essere primo. Aristotele precisa che essa è primo per il tempo, per la nozione e per la conoscenza. Lo è per il tempo, perché nient'altro può essere separato, può essere concepito per sé, sussistendo per sé.
L'espressione "è lungo tre cubiti" non ha alcun senso se non è riferito a un soggetto che mantiene tale significato anche se non gli viene predicata tale misura. In questo senso la sostanza è (ontologicamente) prima. Ma lo è anche per la nozione, poiché quando ci si riferisce a una qualsiasi determinazione, come ad esempio l'esser -buono, nel dire "è" buono, si sottintende sempre che "qualcuno" (o qualcosa) è tale: nella qualità si suppone sempre la sostanza. Infine la sostanza è prima anche per la conoscenza, poiché conoscere qualcosa significa necessariamente conoscerne l'essenza, non le sue determinazioni categoriali (quantità, qualità, ecc..) che come tali possono esserci o meno e comunque le si riferiscono sempre. Se il sapere è conoscenza di ciò che è stabile, di ciò che sempre è, esso non potrà che assumere per oggetto la sostanza essenziale.
Il paragrafo si conclude con un passo importante, solenne nel suo andamento: la domanda sull'essere, che è la domanda propria della filosofia, si trasforma o meglio si declina in domanda sulla sostanza: l'indagine filosofica è spostata dall'essere alla sostanza e quindi domandare cosa sia l'essere significa chiedersi cosa sia la sostanza, che finisce per essere quindi assunta come senso dell'essere.
Più oltre Aristotele propone quattro significati di sostanza che non sono gli stessi presentati nel passo parallelo del libro quinto: qui egli è soprattutto interessato a distinguere la propria posizione da quella di Platone e dei platonici. Tuttavia i due significati fondamentali ritornano, a testimonianza di come fra i diversi libri della Metafisica sia riscontrabile una continuità di fondo. Anzitutto la sostanza è il sostrato, di qui si ripete - in accordo con quanto detto in precedenza - che è ciò di cui vengon o predicate tutte le cose, ma che non viene predicato di nulla; ma qui Aristotele estende la nozione a qualcosa di più ampio, intendendo con tale termine ciò che sta sotto, il soggetto in quanto letteralmente sub - jectum, ciò che regge tutte le determinazioni.
Precisando poi - in parziale contrasto con quanto riportato altrove - che sostrato è si la materia (a) ma anche la forma (b) o l'unione di materia e forma (c). E' (a) perché la materia è ciò di cui tutto si predica; è (b) perché, anche grammaticalmente, è l'effettivo soggetto, ciò che dà forma; è (c) perché è sintesi di entrambi. Aristotele chiama questa unità sinolo: è un composto unitario, sintesi formale e materiale (la statua è sinolo della materia - il bronzo - e della struttura formale intesa come distinta dall'oggetto cui si applica, come la pura forma - statua non applicata ad alcun oggetto). La sostanza è qui ricondotta al soggetto, per cui tutto ciò che si predica, lo si dice solo in riferimento a essa.
Tuttavia, come già si accennava nel Libro quinto, molti identificano la sostanza con la semplice materia. Infatti, poiché di ogni cosa è possibile astrarre tutte le determinazioni quantitative e qualitative, allora si potrebbe supporre che ciò che resta dopo tale processo - la materia come puro indeterminato - sia ciò che vi è di più essenziale, poiché si tratta di quella materia ultima alla quale si riferisce ogni determinazione, ciò a cui tutte le categorie si rivolgono senza essere una categoria essa stessa. Aristotele rifiuta questa posizione che potremmo definire "materialista". Ciò che è, è di volta in volta qualcosa di determinato, che ha una forma e un'essenza, non è mai una pura materia: è forma o sinolo. Si assiste quindi all'ennesima restrizione gerarchica del procedimento: posto il problema dell'essere lo si qualifica come questione principale, si riconoscono i vari modi di dire l'essere e si individua un senso preminente che è quello di sostanza e fra i vari significati di quest'ultima di certifica come senso eminente quello che la definisce forma o sinolo di materia e dorma. Aristotele mantiene le due possibilità perché dal suo punto di vista vi sono sostanze prive di materia e che quindi sono tali in quanto pure forme.
Ancora nel libro precedente (E, 1) si torna a definire l'ambito della ricerca. Si recupera la definizione del sapere come scienza di cause e principi, fra cui è possibile distinguere una scienza prima, che è quella che studia le cause e i principi non di una modalità dell'essere, ma dell'essere in quanto essere. Le altre scienze non si occupano dell'essere così inteso ma lo presuppongono, assumendo come oggetto determinati tipi di proprietà che ineriscono le cose.
E' opportuno sottolineare come Aristotele assuma quale dato non problematico la coincidenza fra essenza ed esistenza.
Dal suo punto di vista, che è quello di un greco cui è estranea l'idea di creazione, il mondo è e non può essere eterno, per cui ciò che è, necessariamente anche esiste. Questo aspetto viene in luce nel momento in cui egli propone una classificazione delle scienze, in riferimento alle quali sostiene che tutte trattano dell'essenza e dell'esistenza; ci sono invece discipline che non trattano dell'essenza delle cose, ragion per cui esse non dicono nulla circa l'esistenza di ciò che assumono come oggetto della loro analisi: le scienze matematiche si interessano dello studio delle determinazioni quantitative che intercorrono fra le figure ma non le riferiscono ad alcuna sostanza, rinunciando perciò a dire qualcosa circa l'essenza e l'esistenza delle cose.
A partire dal Medioevo la situazione subisce una profonda modificazione, un vero e proprio mutamento di paradigma.
Il mondo non è il cosmo eterno dei Greci ma è il mondo creato da Dio. Ora, ogni atto creativo implica un gesto di libertà per cui ciò che è creato e che è poteva anche non essere. Dio poteva scegliere liberamente di non creare il mondo. E' chiaro dunque che in questa nuova prospettiva, aperta dal cristianesimo, l'essenza della cosa posta nella mente di Dio non implica necessariamente la sua esistenza, perché questo passaggio richiede l'intervento di una volontà creatrice. Tale scarto fra essenza ed esistenza, centrale nell'orizzonte cristiano, non ha alcun corso in quello greco, per cui ciò che è anche esiste (salvo si tratti di concetti astratti o degli universali).
Tornando ora ad Aristotele, si è visto come il suo obiettivo sia quello di individuare la scienza prima, quella da cui tutte le altre dipendono. Non può trattarsi della fisica perché questa si occupa solo di un tipo particolare di esseri, ossia di sostanza; suo oggetto sono infatti quelle sostanze che sono in quiete o in movimento. Preliminarmente Aristotele propone in termini più confusi ciò che meglio elabora nell' Etica Nicomachea, ovvero una suddivisione formale delle scienze in base all'oggetto di analisi: si distinguono così "le scienze pratiche" che ricercano i principi dell'azione umana, assumendo come ambito d'indagine la dimensione etica dell'uomo; le "scienze poietiche" che si dedicano alla produzione di oggetti, nel novero delle quali si possono collaborare sia l'arte sia la tecnica e infine le "scienze teoretiche", che si prefiggono di raggiungere la sola conoscenza, ricercata non per eventuali applicazioni pratiche o produttive ma per se stessa, avendo il proprio fine nel puro conoscere. La fisica ricade in quest'ultimo gruppo, perché mira alla conoscenza delle cause e dei principi degli esseri naturali, non è volta né alla prassi né alla produzione di manufatti, ma esclusivamente alla conoscenza della realtà della natura e delle sostanze che la costituiscono, le quali forme unite a materia, sinoli che hanno in sé il principi0 della quiete e del movimento. In questo senso si precisa che anche una parte dell'anima è oggetto della fisica. Nella tripartizione aristotelica dell'anima infatti a fianco di quella vegetativa (propria, come suggerito dalla denominazione, degli esseri vegetali), si situa l'anima sensitiva (posseduta dagli animali) e quella intellettiva (prerogativa dell'uomo) e ciascuna ha valore inclusivo rispetto alle precedenti, per cui l'uomo che detiene l'anima intellettiva possiede necessariamente anche le altre due: ora per Aristotele l'anima vegetativa e sensitiva sono materiali e presiedono al movimento del corpo e perciò ricadono a vigore nell'ambito dell'analisi della fisica.
In definitiva possiamo definire la fisica come quella scienza teoretica che è scienza dei principi del movimento e dei corpi naturali che hanno in loro il movimento stesso. Ne deriva che non può essere la scienza prima poiché restringe il suo campo a un tipo specifico di essere.
Ma neppure le scienze matematiche possono meritare il grado più alto del sapere. Tali scienze ricadono senza dubbio nell'ambito teoretico, poiché non affrontano né questioni pratiche né, tanto meno, s rivolgono alla produzione di manufatti. Esse studiano quell'insieme di determinazioni che hanno il carattere dell'essere immobile; per cui alcuni - il riferimento è ancora ai Platonici - ne hanno concluso che l'oggetto delle matematiche si identifica con quegli esseri immobili e separati, le idee. Ma la matematica, obietta Aristotele, indaga anche le relazioni che ineriscono a realtà fisiche: sono quindi enti non separati.
Si assiste qui ad una complicazione metodologica: nel delineare un quadro sistematico delle scienze si adotta all'inizio il criterio basato sulla distinzione di scienze teoretiche, pratiche e poietiche; quando si tratta poi di determinare la superiorità delle scienze solo teoretiche si introduce un nuovo criterio, quello che considera l'oggetto d'indagine in virtù del suo essere separato o in movimento.
Sulla base di questa nuova prospettiva la fisica si interessa delle sostanze in movimento, la matematica di quelle realtà immobili che tuttavia "almeno in parte", non possono essere considerate autonome, in grado cioè di sussistere di per sé, separate dalla materia. E' chiaro dove Aristotele intenda condurre il ragionamento: si tratta a questo punto di trovare una sostanza che sia ad un tempo immobile, come lo sono gli enti matematici, e separata, cosa che tali enti invece non sono; se una sostanza di questo tipo esiste, allora è necessaria una scienza che ne indaghi le strutture. Questa scienza è per Aristotele la filosofia prima, che in questo contesto non è definita come scienza dell'essere in quanto essere, ma come scienza delle sostanze immobili e separate. Ora, tale scienza superiore ha per oggetto le cause che, sempre eterne, devono esserlo particolarmente in questo frangente, poiché si tratta delle cause che sono proprie degli esseri immobili e separati, ossia divini.
La metafisica è in questo passo identificata con la scienza più alta, la migliore fra le già migliori scienze teoretiche, quella che ha per oggetto quello più elevato. Qui la metafisica è teologia.
Ma Aristotele recupera immediatamente anche l'altro significato. La teologia è scienza prima in quanto ha per oggetto l'essere primo, ossia l'essere divino; se tale sostanza non ci fosse, se esistessero solo sostanze immanenti, allora la scienza prima sarebbe la fisica. Tuttavia, se la sostanza immobile esiste, ne deriva che la scienza che se ne occupa è "prima" e lo è anche nel senso che è anteriore a tutte le altre, è cioè la scienza più universale. Assumere per oggetto la sostanza più alta non implica una specializzazione del campo d'indagine, ma ne comporta al contrario una sua dilatazione: la sostanza prima è la sostanza da cui tutte le altre dipendono; la scienza che l'indaga è dunque, in quanto scienza della sostanza prima, scienza di tutte le sostanza e quindi, ancora una volta, scienza dell'essere in quanto essere. Qui la matafisica è ontologia.
Si può quindi concludere dicendo che la teologia studia l'essere in quanto essere. Questo passo mostra come Aristotele abbia pensato insieme le due definizioni, senza oscillazioni o fraintendimenti, lavorando sulla nozione gerarchica di sostanza che funge da punto comune tra entrambi i profili della sua metafisica: la sostanza prima è tale perché sostanza da cui tutte le altre dipendono, almeno in senso finalistico, e perché sostanza divina.
Il tema della classificazione delle scienze emerge ancora più avanti nel libro dodicesimo, il più teologico della Metafisica.
Aristotele ribadisce in apertura che oggetto dell'indagine filosofica è la sostanza, l'oggetto primo cui seguono le categorie, considerate o come determinazioni dell'essere o anche come ciò di cui si predica l'essere. In seguito il discorso si concentra sulla nozione di sostanza si cui si individuano tre tipi.
L'articolazione delle scienze è qui diversa da quella del libro VI, perché riguarda i diversi tipi di sostanza: a fianco della sostanza sensibile, a sua volta distinguibile in sostanza sensibile corruttibile (a) e sensibile eterna (b), si pone la sostanza immobile (c).
Aristotele distingue fra (a) e (b) perché nella sua visione esistono non solo sostanze sensibili che si corrompono, che si generano e si dissolvono, che nascono e muoiono, ma anche sostanze che, pur sensibili, sono eterne, da sempre estranee alla corruzione: si tratta dei corpi celesti, materiali ma incorruttibili.
Con (c) s'intende l'essere divino che in Aristotele si identifica con il Primo Motore immobile e con tutti gli altri motori divini che si sovrintendono alle altre sfere. A questa suddivisione corrisponde una classificazione delle scienze, operata sulla scorta dell'oggetto sostanziale da esse assunto: la scienza che ha in (c) il suo oggetto; è scienza della sostanza immobile (le allusioni vanno probabilmente riferite alle dispute interne all'Accademia platonica).
Ciò che interessa ad Aristotele è individuare la sostanza immobile e separata, in modo da affidarla allo studio della filosofia prima.
In questo schema, a differenza di quanto accadeva nel passo parallelo del libro sesto, non compare la matematica: Aristotele parla soltanto di sostanze sensibili e immobili, introducendo una distinzione interna alle prime fra eterne e corruttibili. Ora, la scienza delle sostanze sensibili è la fisica, che ammette una sua articolazione interna in scienza dei corpi sublunari ( o terrestri) che ha per oggetto la sostanza sensibile corruttibile (a) e in scienza dei corpi celesti che riconosce il proprio oggetto nella sostanza sensibile eterna (b). Manca però il riferimento alle matematiche perché Aristotele privilegia in questo contesto il criterio dell'essere mobile o immobile, e non tratta invece la classificazione delle scienze in teoretiche, poietiche e pratiche, che aveva portato a coinvolgere nella discussione la matematica.
Le scienze sono anche in questo passo tre, tante quante erano nel passo del libro sesto, ma si tratta si scienze diverse: se là si trattava della fisica, della matematica e della filosofia prima, qui al posto della matematica si inserisce un'articolazione della scienza fisica, mentre viene ovviamente confermata nel suo ruolo preminente la filosofia prima, individuata come scienza diversa perché si occupa di un'altra sostanza rispetto a quella indagata dalle fisiche: a queste ultime spetta l'essere sensibile, alla prima la sostanza immobile.
Aristotele non insiste sul carattere specifico di tale sostanza: per alcuni sono gli enti matematici, per altri - come per Aristotele stesso - si tratta delle sostanza separate.