La teoria dell'evoluzione
A cura di Antonella Iovine
Secondo Darwin il concetto di unità nella diversità è il segno distintivo dell’evoluzione, ossia gli esseri viventi mostrano i segni di una “unità di discendenza” che li accomuna e diversità nate dall’adattamento a diverse “condizioni di esistenza”. In questo gioco di unità e diversità risiede il segreto dell’evoluzione.
Il problema dello studioso risiede nel catalogare molte cause diverse dipendenti da differenti branche di studio. L’unione di questi studi porta a quelli che Darwin definì “Il mio lungo ragionamento”.
L’evoluzione è il cambiamento (morfologico o comportamentale) degli organismi nel corso delle generazioni. Il termine evoluzione è a sua volta evoluto, in quanto ai tempi di Darwin designava la crescita verso l’età adulta nell’arco della vita (ontogenesi) e non la crescita nell’arco di più vite (filogenesi).
Il primo motore dell’evoluzione è la variazione, cioè la produzione incessante di differenze. Gli organismi nascono diversi e queste differenze tendono a trasmettersi di generazione in generazione. I biologi riscontrano che la variazione è un dato universale in natura e si presenta a tutti i livelli, tra specie e specie, tra individuo e individuo, ma il soggetto che porta le variazioni fondamentali per l’evoluzione è l’individuo, portatore di mutazioni vantaggiose. Le mutazioni sono cambiamenti stabili nel materiale genetico, trasmesse dai genitori alla discendenza. Le mutazioni nascono nel nucleo cellulare: un gene è composto da migliaia di molecole dette “basi nucleotidiche”. Ci sono quattro tipi di basi disposte a coppie complementari sui due filamenti di DNA attorcigliati a doppia elica. Ogni gruppo di tre basi successive è un aminoacido che è contenuto nella proteina che quel gene deve sintetizzare, ma un aminoacido può essere composto da più “triplette”. Alcune triplette segnalano l’inizio e la fine della catena di aminoacidi. La sequenza di geni diventa una catena proteica e trasmessa tramite l’RNA messaggero (RNA) e arriva ai ribosomi, che la trasformano nella proteina o nell’enzima corrispondente. Si dice mutazione un errore qualsiasi di replicazione, occorso durante la duplicazione delle cellule somatiche o durante la produzione dei gameti, che alteri la sequenza del DNA. Se la mutazione riguarda i gameti diventa ereditabile. Le mutazioni possono essere silenti, se non alterano la produzione di aminoacidi, ad esempio se viene sostituito l’ultima base della tripletta, spesso l’aminoacido corrispondente non cambia. Può anche accadere che la proteina risultante sia diversa ma riesca comunque a svolgere la sua funzione senza portare danni, oppure il danno viene riparato da appositi geni “correttori di bozze”. Gli errori di replicazione possono essere più drastici quando alcuni geni detti “geni saltatori” riescono nella trascrizione inversa, trasformando il DNA. Intere catene possono essere cancellate, come è accaduto nel passaggio dagli scimpanzé (24 coppie di cromosomi) agli umani (23 coppie di cromosomi). Mutazioni su processi che regolano la divisione cellulare possono portare meccaniche tumorali.
Un’altra sorgente di variazione importante avviene durante la meiosi ed è definita ricombinazione genica, ossia lo scambio di materiale ereditario tra coppie di cromosomi omologhi (il padre e la madre). La ricombinazione tende a sparigliare i geni sui cromosomi, quindi a “rimescolare il mazzo”. I cromosomi risultanti non saranno mai uguali a quelli del genitore, questo fenomeno è definito “crossing over”.
Se tra individui della stessa specie ci sono varianti dello stesso gene si parla di “polimorfismo molecolare”. Negli umani, in qualunque popolazione del pianeta, non supera lo 0,1%, una variazione molto bassa rispetto ad altre specie. Per capire il destino di una mutazione , bisogna comprendere la sua magnitudine, altrimenti non saranno mai visibili, se non a livello di genoma, se non alterano il fenotipo della popolazione. In altri casi le mutazioni hanno effetti drammatici e portano a una ristrutturazione dell’organismo e spesso non sono sostenibili per il portatore, anche se alcune volte queste mutazioni sono sopravvissute alternando i tempi di sviluppo, come accade nelle specie neotecniche, dove i membri restano più giovani dei loro antenati. Possono esserci mutazioni poco svantaggiose e neutrali che, se appaiono in maniera ricorrente, tendono a essere tollerate dalla popolazione e ad aumentare la variabilità nella popolazione stessa. Infatti non basta che la mutazione sia positiva, ma deve presentarsi non troppo raramente, altrimenti scomparirà nel tempo e resterà silente.
Le circostanze “Nature” (cause biologiche innate) e quelle “Nurture” (esperienze acquisite) non sono separabili per comprendere l’evoluzione, mutazione e ricombinazione immettono continuamente nuove varianti nella popolazione e di queste una parte rimarrà silente o neutrale. Alcune variazioni poi, non provengono dai geni, ma da altri processi biochimici, come la metilazione e l’acetilazione del DNA (cause epigenetiche).
Darwin, pur non conoscendo i meccanismi dell’eredità, aveva avuto un’intuizione fondamentale rispetto alle mutazioni casuali, in quanto la variazione non ha mai una direzione, una meta prestabilita, fissa. La materia prima dell’evoluzione è casuale, non c’è un orientamento preventivo della mutazione, nella sequenza di produrre una mutazione giusta al momento giusto.
Le mutazioni sembrano casuali, ma si definiscono tali perché non sempre si riconosce la causa che le genera. Oggi si conoscono più cause, dette mutagene, come l’inquinamento ambientale o le radiazioni, che favoriscono le mutazioni, le quali accadono se non per influenze esterne o per errori di copiatura. Sono causali, in primo luogo perché non hanno uno schema ripetuto, né una correlazione riconoscibile, ma anche perché sono indipendenti dall’effetto positivo, negativo o neutro che avranno sul portatore. Si potrebbero quindi, definire più “contingenti” che casuali, rispetto al processo di evoluzione.
Il secondo motore dell’evoluzione è la selezione naturale, un processo automatico di tipo statistico e demografico, che interviene sul “combustibile” della mutazione e ricombinazione. La teoria della selezione naturale fu firmata da Darwin e da Alfred Wallace, che sarà il padre della “biogeografia”, ma portata avanti solo da Darwin. Questa teoria si poggia su tre considerazioni empiriche iniziali e su una prima deduzione teorica:
Differenze nel successo riproduttivo sono sempre presenti in una popolazione e possono essere amplificate in un notevole stress ambientale, se anche un piccolo vantaggio può essere decisivo e un piccolo svantaggio fatale. Il ruolo dell’adattamento riguarda l’intero corso degli eventi e non solo la fine, infatti la mutazione iniziale può di per se avere un valore adattivo che da vantaggio a chi la possiede. Quando l’intera popolazione presenta quel tratto diciamo che si è raggiunto un nuovo adattamento, cioè un carattere che rende più “adatto” l’organismo al suo ambiente. L’adattamento può essere incrementato e perfezionato durante le generazioni. Si può definire “fitness” l’abilità generale di un organismo nelle strategie di sopravvivenza e di riproduzione. In genetica delle popolazioni la fitness di un carattere si determina nel rapporto tra la prole media dell’individuo rispetto a quella della popolazione a cui appartiene. La selezione naturale opera su più geni simultaneamente, quindi non è facilmente misurabile. La branca che si occupa dello studio su queste variazioni è detta “genetica quantitativa”. Il meccanismo di selezione cumulativa che funziona soltanto in presenza di un ambiente che renda quel carattere vantaggioso (pressione selettiva) dà l’idea di una natura ingegnere che costruisce le creature, come fa anche l’uomo, come si vede nella selezione delle razze canine. La selezione naturale agisce come quella artificiale e agisce in modo automatico e cumulativo, a partire da differenziali anche piccolissimi nella competizione per le risorse e per la riproduzione. La selezione naturale non è un processo casuale, ma incrementale e parte da variazioni puntiformi. Oltre a una funzione di variazione, la selezione ha anche una funzione di conservazione, in termini di consolidamento a una determinata nicchia ecologica. Se non esistono elementi di opportunità la selezione tende a eliminare tutte le variazioni aberranti per la loro minore sopravvivenza differenziale (selezione stabilizzante), infatti lasciata a se stessa e a parità di altre condizioni la selezione tende a ridurre la variazione genetica e l’ereditarietà. La selezione cerca sempre di eliminare eventuali mutazioni svantaggiose, ma è inefficace contro variazioni neutrali, come possono esistere in un contesto ecologico più soluzioni allo stesso problema (picchi adattivi multipli) che possono portare anche alla separazione di due specie (selezione divergente). La selezione naturale a volte funziona in altro modo, facendo in modo che un adattamento sia valido solo se presente in basse frequenze, come l’adattamento a un parassita. Se tutti fossero resistenti a quel parassita, esso muterebbe per adattarsi a sua volta, mentre in altri casi funziona solo se è posseduta da tutti i membri della specie (conformismo della specie). Davanti a pressioni selettive analoghe, organismi diversi reagiscono in modo analogo, per un fenomeno chiamato “convergenza adattiva” che può far assomigliare tra loro organismi non imparentati. Adattamento e selezione regolano i rapporti tra organismi e ambienti, ma anche tra specie diverse, come ad esempio tra piante e impollinatori (coevoluzione). Gli evoluzionisti discutono da tempo sul livello esatto a cui agisce la selezione. Per Darwin la selezione era a livello di individuo, il successo si propagherà ai geni e alla specie intera, anche se la selezione, che è “cieca” porti a variazioni alla lunga deleterie, ad esempio creando una specializzazione alimentare, fatale in caso di cambiamenti ambientali. Può nascere conflitto anche tra diversi livelli, in quanto il bene del singolo è contrastante con quello della specie, come nel caso della “selezione di parentela” studiata da William Hamilton, come nel caso delle caste sterili delle popolazioni di insetti, oppure come nelle “famiglie allargate” degli uccelli. L’altruismo è dunque una forma evoluta di egoismo, e i gruppi una forma di “fenotipo esteso” dei geni. Alcuni evoluzionisti hanno teorizzato che la selezione naturale favorisca comportamenti che portano un vantaggio riproduttivo diretto, cioè la trasmissione dei geni alla generazione successiva, come definita da Richard Dawkins “gene egoista”, per suggerire l’idea della diffusione di “replicatori” genetici nelle discendenze, mentre altri organismi sarebbero “interattori”, veicoli per la loro diffusione. In sintesi la selezione “agisce” su organismi e “regola” la frequenza di geni. Si potrebbero definire “unità di selezione” gli organismi e “unità di selezione” i geni. Si è anche discusso della possibilità che esistano fenomeni di “selezione di gruppo”, ma un processo del genere è sempre messo in pericolo da eventuali “batteri liberi” che agiscono per massimizzare il loro vantaggio a scapito del gruppo.
Nella “selezione sessuale” si compete direttamente per il successo riproduttivo e si presenta sia quando i maschi lottano per la femmina (selezione intrasessuale), che quando la femmina sceglie il maschio con cui accoppiarsi (selezione intersessuale). La selezione è più aggressiva quanto minore è il numero dei maschi che si accoppiano con più femmine (poliginia), mentre nei casi di poliandria, i comportamenti e i caratteri fisici saranno invertiti. Non è chiaro perché le femmine sviluppino tendenze che portano a scatenare l’esibizionismo maschile, l’unica spiegazione è quella di Fisher: il carattere prescelto del maschio viene selezionato perché conferisce un qualche vantaggio. La scelta femminile rafforza la selezione aggiungendo vantaggi nell’accoppiamento. Quando la selezione sessuale prevale su quella naturale, il carattere diventa disadattivo perché il vantaggio nell’accoppiamento supera il costo in termini di sopravvivenza, a quel punto non si può tornare indietro: una femmina o un maschio che scelga partner più modesti avrà figli che non si riproducono. Il concetto di adattamento non equivale a perfezione per una serie di cautele molto importanti: un adattamento, anche se ottimale in una nicchia ecologica rimane valido fino alla variazione di ambiente successiva. Possono esistere anche “adattamenti fantasmi” in cui una specie si adatta anacronisticamente a un’altra, che ora è estinta. Inoltre gli organismi non sono tra loro indipendenti, ma una variazione di uno può portare a variazioni di quelli che abitano lo stesso ambiente (coadattamenti). Se ne deduce che l’evoluzione per selezione naturale è un gioco di pesi e contrappesi, di costi e benefici, un equilibrio di adattamenti che spesso offrono un vantaggio maggiore rispetto agli effetti indesiderati. Anche l’ambiente si presenta con pressioni selettive multiple e indipendenti, a volte anche contraddittorie tra loro. Poi le soluzioni adattive non sono totalmente libere, ma soggette a particolari limiti come altezza, dimensioni, peso, i “vincoli ontogenetici” limitano la variabilità per renderla compatibile con il piano corporeo, mentre la selezione eviterà asimmetrie o distorsioni nello sviluppo. Nella maggioranza dei casi gli organismi tendono ad adottare ciò che hanno piuttosto che a costruire nuove strutture, ma come spiegare la nascita di meccanismi prima assenti , come le ali o gli occhi? Darwin rispose nel 1872 con una doppia strategia esplicata, valida ancora oggi: nei casi più comuni sono sufficienti piccoli cambiamenti nelle strutture preesistenti, facendo come esempio l’evoluzione dell’occhio. I tessuti fotosensibili, prima senza cristallino né camera oscura, sono nati all’inizio per capire la differenza tra notte e giorno, e piano piano si sono evoluti nell’occhio attuale (secondo modelli al computer bastano pochi milioni di anni di evoluzione). In altri casi si verifica un cambiamento di funzione, ad esempio le penne, nate come protezione termica , sono diventate strumenti prima di volo planato e poi di volo vero e proprio. Perché vi sia un cambiamento di funzione a parità di struttura, (Darwin lo definì preadattamento, ma oggi si usa il termine exaptation, coniato da Stephen Gould e Elisabeth Vrba nel 1982) bisogna ipotizzare che in natura più organi possano compiere la stessa funzione, in modo che uno possa essere portato ad una nuova funzione, o che un organo possa avere più funzioni contemporaneamente. L’exaptation ci fa vedere che difficilmente un organo è stato costruito “per” uno scopo e come l’adattamento sia spesso un compromesso con i vincoli strutturali degli organismi e con la loro storia pregressa, ma anche che ogni tratto può essere adattivo per una funzione presente ed avere effetti potenziali benefici che potrebbero essere sfruttati dalla selezione naturale. Questi effetti possono anche passare a livelli diversi ad esempio tra organismi e gruppi (effetto concominante). Quindi quando non c’è cambiamento di funzione si parla di “adattamenti”, altrimenti ci troviamo di fronte a un fenomeno di exaptation. Gould e Vrba aggiunsero anche che si può parlare di exaptation quando assumono funzioni strutture che non hanno in precedenza alcuna funzione, come strutture vestigiali. La convergenza di strategie adattive di tipo funzionale (analogie) non esclude che gli organismi siano portatori di strutture più antiche (omologie): non tutto in natura serve a qualcosa, ma tutto può tornare utile. La selezione naturale continuativa è l’unico meccanismo esplicativo per l’adattamento, ma non tutto quello che avviene nell’evoluzione è per forza adattivo. Molte nicchie ecologiche non sono state sfruttate dall’evoluzione, potrebbero essere zone di scarso adattamento, come possono esserci limiti fisici: non esistono serpenti erbivori, né insetti grandi come elefanti. Ci sono poi meccanismi biologici universali che sfuggono in termini di selezione naturale e adattamento, come il sesso e la vecchiaia. Quasi tutti gli organismi pluricellulari invecchiano, ma sembra un meccanismo che la selezione dovrebbe bloccare. Evidentemente è all’opera un processo che la selezione non può o non ha interesse a bloccare, nono stante esistano in natura varie forme di rigenerazione, adottate da poche specie, come se l’invecchiamento fosse tollerato dalla selezione che favorirà i tratti adattivi degli stadi giovanili e adulti di una specie, dato che è quello il periodo in cui un organismo lascia discendenza. Quindi le mutazioni vantaggiose nate in questo periodo saranno favorite, mentre saranno totalmente sfavorite le mutazioni svantaggiose, invece durante la vecchiaia la selezione tenderà a una “minore” controllo. Si nota che se le probabilità di morte sono alte, la selezione si concentrerà nel periodo giovanile, mentre per le specie a vita più lunga ci sarà meno corsa alla riproduzione precoce; ma come si è evoluto il sesso in sé? Ci sono molte forme di riproduzione in natura, come la clonazione: la prole è identica alla linea femminile che l’ha generata. Poi ci sono stadi intermedi, come alcuni batteri che si scambiano materiale genetico per ‘’coniugazione’’, ma poi si clonano per conto proprio. Il sesso è una pratica quasi esclusiva degli essere pluricellulari, ed è una pratica molto costosa: ogni genitore perde metà del suo corredo genico, inoltre i maschi non aumentano il tasso di riproduzione delle femmine, ma esiste ed è praticato in natura, quindi qual è il suo vantaggio? Ci sono solo ipotesi per questo. Il sesso può aumentare la distribuzione di mutazioni favorevoli e ridurre quelle sfavorevoli, mentre per clonazione una mutazione svantaggiosa è una condanna per tutta la discendenza. Il sesso, rimescolando costantemente i geni, porta un costante rifornimento di variazione. Secondo Hamilton è fondamentale per la lotta ai parassiti e alle malattie, variando di volta in volta il corredo genetico dei discendenti.
Le popolazioni di organismi sono immerse in contesti ecologici e geografici. Ogni specie occupa una ‘’nicchia ecologia fondamentale’’ data dalle condizioni in cui potrebbe vivere in assenza di competizione e con risorse illimitate e una ‘’nicchia ecologia realizzata’’ data dalle condizioni reali in mezzo alle altre specie. Il modo in cui le popolazioni si ‘’strutturano’’ e si muovono nello spazio incide fortemente sulla loro evoluzione. Darwin comprende la geografia ‘’orizzontale’’ dell’evoluzione, studiando casi come l’isolamento dei marsupiali australiani o la fauna delle Galapagos, che dovevano essere abitate dai discendenti di antichi colonizzatori giunti dalla terraferma. La colonizzazione impone però alcune restrizioni al tipo di creature che abitano le isole: solo i discendenti di animali e piante che hanno attraversato il mare possono attecchire e una volta lì non tutti i colonizzatori riescono ad adattarsi al nuovo ambiente. Fra i sopravvissuti spunteranno caratteri contingenti rispetto alla specie iniziale, infine il cambiamento delle pressioni selettive modificherà la morfologia e il comportamento degli isolani. A dimostrazione di questo le isole oceaniche hanno in genere poche specie distribuite tra gruppi principali: rettili e uccelli ci sono sempre, mentre mammiferi e anfibi sono distribuiti in maniera non uniforme. La composizione dipende dalla difficoltà di superare l’ostacolo geografico, infatti specie aliene introdotte possono proliferare devastando l’ecosistema originario (conigli in Australia). Emerge quindi una domanda: nel gioco degli adattamenti, delle nicchie ecologiche e delle discendenze, cosa separa realmente le specie? E’ opinione comune che gli esseri viventi siano divisi in unità o varietà discrete, ma la formazione di queste unità per evoluzione è complicata. Darwin sapeva che un meccanismo cumulativo l’ente graduale non sarebbe bastato a definire i confini esatti tra due specie. Egli arrivò a una ‘’definizione nominalista’’ dell’oggetto: le specie sfumano gradualmente l’una nell’altra e anche quando divergono lo fanno in modo talmente lento da rendere impossibile la definizione oggettiva di un punto di separazione. La ‘’definizione tipologica predarwiniana’’ prevedeva invece che la natura fosse divisa in ‘’tipi’’ ideali distinti da un punto di vista morfologico. Questa definizione non permetteva di distinguere le varietà fenotipiche all’interno di una specie ‘’specie politipiche’’, ritendendole specie diverse, o ritendo specie uguali, quelle composte da popolazioni identiche morfologicamente, ma che non si mescolavano mai (specie gemelle). Alcuni evoluzionisti neodarwiniani come Theodosius Dobzhansky, Julian Huxley ed eErnest Mayr, giunsero a una scoperta fondamentale per la moderna biologia evolutiva: una specie è una comunità riproduttivamente chiusa, cioè una popolazione di organismi che si incrociano e si scambiano geni solo fra loro e non con popolazioni imparentate. Nasce così la ‘’nuova sistematica’’. I genetisti cominciarono a valorizzare la connessione fra distribuzione della variabilità genetica all’interno di una specie e la sua distribuzione geografica: una specie composta da diverse popolazioni geograficamente separate tende a frammentarsi in tante varietà con un alto polimorfismo molecolare, mentre una specie costituita da un’unica popolazione con un flusso genico costante avrà un polimorfismo molecolare basso (specie umana). Le specie tendono a scomporsi in popolazioni con tratti differenti in base al luogo che abita (variazione geografica), quindi la sua coesione genetica dipenderà dall’età e dai flussi migratori. Questi meccanismi permisero di scoprire un meccanismo di ‘’speciazione’’. Seconda Mayr se il flusso genico tra due popolazioni si interrompe a causa di una migrazione o di una barriera naturale, cominciano a divergere geneticamente, fino al punto che non potranno riprodursi tra loro, la barriera geografica si trasforma in barriera riproduttiva. La speciazione avviene per dislocamento di una popolazione in un luogo separato (allopatrica). E’ anche vero che spesso la speciazione non porta a una differenza sostanziale sul piano morfologico: ad esempio le specie gemelle, comuni negli insetti, sono identiche nel fenotipo ma biologicamente separate. Gli evoluzionismi hanno quindi scoperto che il meccanismo di produzione di nuove specie necessitava di una forte componente ecologica, non basta l’accumulo di piccole differenze genetiche: occorre un contesto ecologico che separi le popolazioni. Oggi sappiamo che l’interruzione del flusso genico non avviene solo per separazione, ma può avvenire a causa di mutazioni genetiche divergenti che incidono sui meccanismi riproduttivi. Il problema può nascere prima della fecondazione (isolamento pre-zigotico), che è uno sfasamento nel periodo dell’anno dedicato all’accoppiamento, oppure dopo la fecondazione (isolamento post-zigotico), come la nascita di ibridi sterili. Esistono poi casi intermedi, come incroci tra cane coyote e sciacallo, o casi di “specie ad anello” in cui c’è flusso genico per tutto l’anello, ma non ai due estremi. Questo capita in specie che vivono su un territorio molto ampio (gabbiani reali dell’Atlantico). Comunque la migrazione non sempre porta a separazione della specie in quanto questo accade solo con la nascita di una barriera ecologica, ma spesso aiuta le popolazioni aumentando la variabilità. La migrazione raramente separa e frequentemente unisce. Il rapporto tra isolamento riproduttivo e selezione naturale è problematico perché non c’è un vantaggio evidente e diretto ricavabile dallo sviluppo di difficoltà di accoppiamento tra due popolazioni. Solo dopo che una barriera separa due popolazioni, i meccanismi di selezione e mutazione fanno divergere le composizioni geniche, anche se in alcuni casi, come in situazione di risposte adattive divergenti alla stessa pressione selettiva, è la selezione a far partire la divergenza e l’interruzione del flusso genico. Esistono oggi molte nozioni di specie e di processi speciativi che condividono quasi tutti l’isolamento riproduttivo come marchio della separazione tra specie. Se la comunità di organismi interfecondi è tenuta insieme da sistemi sensoriali di riconoscimento del partner, si parla di “nozione di specie basata sul riconoscimento”, una variante della nozione di biologia. Se la comunità è definita come un insieme di organismi simili che sfruttano una specifica nicchia ecologica attraverso adattamenti locali si parla di “nozione ecologica di specie”. Dopo il modello allopatrico di Mayr, anche la speciazione è stata interpretata in modo pluralistico, come la “speciazione parapatrica” in cui si sviluppa una zona di ibridi al confine tra gli ambienti di popolazioni contigue che successivamente declinano ad un isolamento riproduttivo totale. C’è anche la “speciazione simpatrica” se una popolazione si spacca in due entità geneticamente indipendenti a causa di cambiamenti adattivi o per selezione sessuale divergente. Si parla di “speciazione per ibridazione” se gli ibridi di due specie non si incrociano più con le specie genitrici, ma soltanto tra loro, duplicando il corredo cromosonico per poliploidia, specialmente nelle piante. La nozione biologica di specie è valida solamente per organismi che usano la riproduzione sessuata, mentre non è adeguata per quella parte della natura che non conosce il sesso. Lo stesso problema si verifica per le specie fossili, in quanto non è verificabile l’isolamento riproduttivo. Le cause fisiologiche che inducono la rottura del flusso genico sono in fase di studio e possono essere legate sia allo scarso adattamento biologico degli ibridi che a incompatibilità genetiche. In alcuni casi di flusso genico è interrotto dalla realtà, ma non è impossibile in linea di principio: se vengono fatte accoppiare in laboratorio, danno origine a prole fertile, mentre in altri casi la selezione naturale agisce contro la sopravvivenza degli ibridi tra due tipi genetici in una specie, anche senza barriere naturali (selezione di rinforzo), il che spiegherebbe perché in alcuni casi due specie a contatto si somigliano di meno di quando sono separate. La selezione di rinforzo è centrale per spiegare le speciazioni simpatriche e parapatriche. Normalmente la selezione in presenza di barriere non interviene né per sfavorire, né per favorire la possibilità di incrocio, che svaniscono per accumularsi di varianti genetiche differenti. Quando l’insieme di geni comincia ad essere diverso tra le due popolazioni, gli ibridi manifestano caratteristiche svantaggiose per la sopravvivenza, per il carattere integrato dei genomi. Un nuovo adattamento ecologico modifica le sequenze di geni che (per interazioni epistatiche, pleiotropia), sono correlati a geni implicati nell’accoppiamento e nella riproduzione. La speciazione può essere intesa come un prodotto collaterale di adattamenti divergenti. Dalle cause dell’isolamento riproduttivo dipendono anche i tempi necessari per completare la separazione tra due specie. Una buona media del ritmo di speciazione è di alcune decine e migliaia di anni. Nel 1972 due paleontologi americani, Niles Eldredge e Sthefen Gould, studiando il modello allopatrico di Mayr, ridefinirono i ritmi di evoluzione della specie, teorizzando che se la speciazione allopatrica interessava piccole popolazioni, per ragioni strettamente statistiche, poteva avvenire in tempi piuttosto rapidi. L’evoluzione per ramificazione darwiniana veniva così leggermente modificata: non solo lente divergenze progressive di tipo simpatrico, ma specie madri a volte molto stabili che “gemmano” specie” figlie in quantità variabili, solitamente associate a modificazioni ecologiche locali. Questa immagine della vita delle specie, caratterizzata da periodi di stabilità, interrotta da bruschi episodi di speciazione rapida viene definita “equilibrio punteggiato”. Secondo alcuni evoluzionisti, l’equilibrio punteggiato è raro, mentre per altri è molto frequente. Il concetto di equilibrio punteggiato ha avuto il merito di sottolineare la speciazione come risposta adattiva, cruciale, e quello di evidenziare i meccanismi che producono la resistenza al cambiamento da parte delle specie. Sewall Wright aveva scoperto che in assenza di pressioni selettive, alcune popolazioni, spesso di numero limitato e diffuse in spazi ristretti, possono accumulare variazioni genetiche casuali, senza ragione adattiva o selettiva (fenomeno della deriva genetica o genetic drift). La presenza dei gruppi sanguigni nelle popolazioni umane è un esempio classico di deriva genetica, che contribuisce in modo importante alla diversità, integrando i processi di mutazione e di selezione naturale. Ogni mutazione neutrale viene trasmessa da un portatore, che non ha nessun vantaggio nell’averla, quindi non avrà influenza sul suo numero di discendenti e sarà estratta a ogni generazione come a una ‘’lotteria’’, quindi può alla lunga scomparire, se ad un esempio il portatore non lascia discendenti, o prosperare e coprire tutta la popolazione (fissazione per deriva). La velocità di cambiamento delle frequenze igieniche per deriva è inversamente proporzionale alle dimensioni della popolazione. Più è piccola e più l’effetto della deriva è visibile. Può accadere se un piccolo gruppo colonizza una nuova area (effetto del fondatore, come i Boeri del Sudafrica), o per riduzione drastica della popolazione come per esempio una carestia (effetto collo di bottiglia). Se i diversi genotipi sono soggetti a pressioni selettive gli effetti della deriva si smorzano e diventano insignificanti. La deriva genetica offre un contributo significativo, insieme alla mutazione e alla selezione, ma anche in modo indipendente da loro, alla divergenza tra popolazioni isolate e quindi alla speciazione. Possiamo quindi affermare che speciazioni, migrazioni e derive rappresentano il terzo motore dell’evoluzione. Specie strettamente imparentate avranno una percentuale bassissima di basi diverse: poche derivanti da DNA codificante, ed altre “silenti”. Bastano poche variazioni di DNA codificante per rendere le specie morfologicamente molto diverse, mentre molte variazioni di DNA silente lasciano le specie morfologicamente simili. Una buona stima della divergenza genetica deve contemplare sempre una media tra sostituzioni effettive di aminoacidi e differenze silenti. In genere la proporzione è costante, le differenze silenti sono più del doppio delle sostituzioni e misurano meglio il grado di parentela. Nel caso della specie umana, la divergenza minore c’è con gli scimpanzé (1,2% del DNA non codificante), poi con i gorilla (1,6%). E’ facile capire perché le differenze silenti sono più comuni e più rapide: la selezione non le vede e si accumulano più facilmente. L’idea è che le mutazioni neutrali, non soggette a selezione si accumulino a un ritmo tipico di ciascuna specie, uniforme e misurabile, per questo è possibile calibrare il tasso di mutazione neutrale medio per calcolare quando due specie si sono separate. Questo “orologio molecolare” ha tracciato la data di separazione tra umani e scimpanzé a circa 6 o 7 milioni di anni fa. Queste previsioni sulla regolarità e sulla velocità dell’evoluzione molecolare fanno parte della “teoria naturale dell’evoluzione molecolare” di Kimura. Un’applicazione di questa teoria dell’orologio naturale ha portato a uno studio sui progenitori africani dell’Homo Sapiens, studiando i polimorfismi presenti in materiali genetici con discendenza solo femminile (DNA mitocondriale) e solo maschile (cromosoma Y). Questa differenziazione è servita per manifestare una tendenza della deriva, detta “coalescenza” o “deriva verso l’omozigosi”: quando un carattere si trasmette per via solo maschile o solo femminile, in una popolazione ristretta e senza flussi migratori, tende a estinguere tutte le varianti tranne una. Tornando indietro si può risalire all’antenato coalescente, e questo a portato a scoprire un solo cromosoma Y e un solo DNA mitocondriale per tutto il gruppo fondatore degli umani africani, che può derivare dal numero esiguo di fondatori iniziali o una catastrofe successiva (effetto collo di bottiglia).
I meccanismi finora delineati ci permettono di escludere che l’evoluzione su larga scala sia dovuta a processi speciali o “ortogenetici”. Alcuni pensano che l’evoluzione su larga scala sia completamente riconducibile ai meccanismi di livello più basso, altri ritengono che l’insorgenza di regolarità nella “macroevoluzione” non sia completamente “estrapolabile” dalle dinamiche inferiori. Le specie non stanno ferme: si spostano, migrano, espandono i loro areali di distribuzione attraverso processi di “dispersione”. A volte le migrazioni vengono bloccate da “ponti filtranti” che sono attraversabili solo da alcune specie. Dal punto di vista della biogeografia diventano importanti agenti evolutivi, fenomeni come le oscillazioni climatiche e le glaciazioni che spingono le specie a migrazioni imponenti e a luoghi prima di allora inesplorati. Secondo una corrente di studi definita “biogeografia della vicarianza” la distribuzione delle specie sarebbe condizionata dalla deriva dei continenti e dai grandi mutamenti della superficie terrestre. Questi eventi su larga scala tendono a dividere l’areale originario, influendo sui loro alberi di discendenza. Processi di “vicarianza” e di “dispersione” (spostamento del territorio o delle popolazioni) potrebbero essere complementari e concorrere all’evoluzione della distribuzione geografica delle specie. Un esempio è la “linea di Wallace” tra Borneo e Australia, che separa la fauna australiana da quella asiatica, rispecchiando la divaricazione tra placca indiana e placca australiana. Se la filogenesi di un gruppo e la distribuzione biogeografica moderna combaciano, si può tracciare un “cladogramma di area”. L’unione della storia e della geografia delle specie, della cladistica, della biogeografia e della filogenetica molecolare, portano alla nascita di una nuova scienza, la “filogeografia”. I paleontologi hanno anche osservato come fenomeni drastici come le “estinzioni di massa” abbiano portato alla scomparsa di una parte consistente della biodiversità terrestre. Dato che non sono il culmine di tendenze pregresse questi fenomeni sono interpretati come schemi storici su larga scala non completamente estrapolabili dai tre motori dell’evoluzione normale. In molti casi queste perturbazioni ecologiche planetarie generano pattern su larga scala caratterizzati da alternanza fra una estinzione di massa (non selettiva) e episodi di rapida diversificazione delle nuove specie o “radiazione adattiva”, a causa della ricolonizzazione delle nicchie lasciate libere dall’estinzione di massa. Ma non c’è bisogno di ricorrere a estinzioni di massa per vedere radiazioni adattive su larga scala. Un esempio è l’unione di due territori precedentemente separati, come il grande “interscambio americano” dovuto all’unione dell’istmo di Panama. Un effetto “specie-area” su larga scala che portò ad una potente estinzione, perché l’habitat globale non poté sostenere la sopravvivenza della somma delle specie dei due territori più piccoli. Altrimenti la nascita di nuove nicchie ecologiche può portare a “esperimenti” nell’evoluzione, come nella fase di “esplosione cambriana” della vita pluricellulare. Secondo Vrba, quando le variazioni climatiche superano la soglia della capacità di resistenza delle specie si innescherebbe un pattern macroevolutivo intermedio di “avvicendamento di specie” che porta all’estinzione e alla sostituzione di molte specie nella regione. Meccanismi evolutivi del tutto diversi sono all’opera anche in altri passaggi della storia naturale su larga scala, come la transazione dai procarioti agli eucarioti. Si tratta in questo caso di una strategia in cui le competenze adattive sedimentate di organismi più antichi vengono fuse insieme per generare una forma vivente di complessità superiore. Quando negli anni ’70 Lynn Margulis teorizzò l’origine simbiotica degli eucarioti, per assorbimento di mitocondri e cloroplasti, trasformati in organelli interni, ci furono controversie, ma analisi del DNA hanno consolidato il consenso intorno a questa ipotesi detta “simbiogenetica”. Non si tratta di cooperazione, ma di una forma più radicale di unione per la vita (endosimbiosi). Nonostante sia veloce e senza forma di transizione, l’endosimbiosi ha bisogno di tentativi ed errori, di mutazioni, e trasferimenti genesi, nonché di compromessi tra pressioni selettive. E’ evidente che la grande vastità della storia naturale sia punteggiata da alcune “grandi transizioni”. Queste dinamiche macroevolutive, non riconducibili rappresentano il quarto e ultimo motore dell’evoluzione. Darwin comunque parlava di “discendenza con modificazioni” non di “progresso”, in quanto questa parola dava l’idea che le specie tendessero a migliorare.
Secondo Darwin il concetto di unità nella diversità è il segno distintivo dell’evoluzione, ossia gli esseri viventi mostrano i segni di una “unità di discendenza” che li accomuna e diversità nate dall’adattamento a diverse “condizioni di esistenza”. In questo gioco di unità e diversità risiede il segreto dell’evoluzione.
Il problema dello studioso risiede nel catalogare molte cause diverse dipendenti da differenti branche di studio. L’unione di questi studi porta a quelli che Darwin definì “Il mio lungo ragionamento”.
L’evoluzione è il cambiamento (morfologico o comportamentale) degli organismi nel corso delle generazioni. Il termine evoluzione è a sua volta evoluto, in quanto ai tempi di Darwin designava la crescita verso l’età adulta nell’arco della vita (ontogenesi) e non la crescita nell’arco di più vite (filogenesi).
Il primo motore dell’evoluzione è la variazione, cioè la produzione incessante di differenze. Gli organismi nascono diversi e queste differenze tendono a trasmettersi di generazione in generazione. I biologi riscontrano che la variazione è un dato universale in natura e si presenta a tutti i livelli, tra specie e specie, tra individuo e individuo, ma il soggetto che porta le variazioni fondamentali per l’evoluzione è l’individuo, portatore di mutazioni vantaggiose. Le mutazioni sono cambiamenti stabili nel materiale genetico, trasmesse dai genitori alla discendenza. Le mutazioni nascono nel nucleo cellulare: un gene è composto da migliaia di molecole dette “basi nucleotidiche”. Ci sono quattro tipi di basi disposte a coppie complementari sui due filamenti di DNA attorcigliati a doppia elica. Ogni gruppo di tre basi successive è un aminoacido che è contenuto nella proteina che quel gene deve sintetizzare, ma un aminoacido può essere composto da più “triplette”. Alcune triplette segnalano l’inizio e la fine della catena di aminoacidi. La sequenza di geni diventa una catena proteica e trasmessa tramite l’RNA messaggero (RNA) e arriva ai ribosomi, che la trasformano nella proteina o nell’enzima corrispondente. Si dice mutazione un errore qualsiasi di replicazione, occorso durante la duplicazione delle cellule somatiche o durante la produzione dei gameti, che alteri la sequenza del DNA. Se la mutazione riguarda i gameti diventa ereditabile. Le mutazioni possono essere silenti, se non alterano la produzione di aminoacidi, ad esempio se viene sostituito l’ultima base della tripletta, spesso l’aminoacido corrispondente non cambia. Può anche accadere che la proteina risultante sia diversa ma riesca comunque a svolgere la sua funzione senza portare danni, oppure il danno viene riparato da appositi geni “correttori di bozze”. Gli errori di replicazione possono essere più drastici quando alcuni geni detti “geni saltatori” riescono nella trascrizione inversa, trasformando il DNA. Intere catene possono essere cancellate, come è accaduto nel passaggio dagli scimpanzé (24 coppie di cromosomi) agli umani (23 coppie di cromosomi). Mutazioni su processi che regolano la divisione cellulare possono portare meccaniche tumorali.
Un’altra sorgente di variazione importante avviene durante la meiosi ed è definita ricombinazione genica, ossia lo scambio di materiale ereditario tra coppie di cromosomi omologhi (il padre e la madre). La ricombinazione tende a sparigliare i geni sui cromosomi, quindi a “rimescolare il mazzo”. I cromosomi risultanti non saranno mai uguali a quelli del genitore, questo fenomeno è definito “crossing over”.
Se tra individui della stessa specie ci sono varianti dello stesso gene si parla di “polimorfismo molecolare”. Negli umani, in qualunque popolazione del pianeta, non supera lo 0,1%, una variazione molto bassa rispetto ad altre specie. Per capire il destino di una mutazione , bisogna comprendere la sua magnitudine, altrimenti non saranno mai visibili, se non a livello di genoma, se non alterano il fenotipo della popolazione. In altri casi le mutazioni hanno effetti drammatici e portano a una ristrutturazione dell’organismo e spesso non sono sostenibili per il portatore, anche se alcune volte queste mutazioni sono sopravvissute alternando i tempi di sviluppo, come accade nelle specie neotecniche, dove i membri restano più giovani dei loro antenati. Possono esserci mutazioni poco svantaggiose e neutrali che, se appaiono in maniera ricorrente, tendono a essere tollerate dalla popolazione e ad aumentare la variabilità nella popolazione stessa. Infatti non basta che la mutazione sia positiva, ma deve presentarsi non troppo raramente, altrimenti scomparirà nel tempo e resterà silente.
Le circostanze “Nature” (cause biologiche innate) e quelle “Nurture” (esperienze acquisite) non sono separabili per comprendere l’evoluzione, mutazione e ricombinazione immettono continuamente nuove varianti nella popolazione e di queste una parte rimarrà silente o neutrale. Alcune variazioni poi, non provengono dai geni, ma da altri processi biochimici, come la metilazione e l’acetilazione del DNA (cause epigenetiche).
Darwin, pur non conoscendo i meccanismi dell’eredità, aveva avuto un’intuizione fondamentale rispetto alle mutazioni casuali, in quanto la variazione non ha mai una direzione, una meta prestabilita, fissa. La materia prima dell’evoluzione è casuale, non c’è un orientamento preventivo della mutazione, nella sequenza di produrre una mutazione giusta al momento giusto.
Le mutazioni sembrano casuali, ma si definiscono tali perché non sempre si riconosce la causa che le genera. Oggi si conoscono più cause, dette mutagene, come l’inquinamento ambientale o le radiazioni, che favoriscono le mutazioni, le quali accadono se non per influenze esterne o per errori di copiatura. Sono causali, in primo luogo perché non hanno uno schema ripetuto, né una correlazione riconoscibile, ma anche perché sono indipendenti dall’effetto positivo, negativo o neutro che avranno sul portatore. Si potrebbero quindi, definire più “contingenti” che casuali, rispetto al processo di evoluzione.
Il secondo motore dell’evoluzione è la selezione naturale, un processo automatico di tipo statistico e demografico, che interviene sul “combustibile” della mutazione e ricombinazione. La teoria della selezione naturale fu firmata da Darwin e da Alfred Wallace, che sarà il padre della “biogeografia”, ma portata avanti solo da Darwin. Questa teoria si poggia su tre considerazioni empiriche iniziali e su una prima deduzione teorica:
- Le popolazioni in natura, lasciate a se stesse tendono a riprodursi a dismisura per un costante “eccesso di fecondità” fino a superare le possibilità di sopravvivenza della prole.
- Le popolazioni restano stabili perché, tassi di mancata riproduzione e di mortalità, riportano la prole a una media di due figli per ogni femmina.
- Limiti di risorse e di spazio bloccano l’espansione fisiologica delle popolazioni.
- Gli individui si riproducono, generando linee di discendenza nella popolazione e i caratteri individuali variano all’interno della popolazione;
- La prole tende ad assomigliare ai genitori, ossia ne eredita i tratti, anche le variazioni;
- Le variazioni sono spontanee e non direzionate.
Differenze nel successo riproduttivo sono sempre presenti in una popolazione e possono essere amplificate in un notevole stress ambientale, se anche un piccolo vantaggio può essere decisivo e un piccolo svantaggio fatale. Il ruolo dell’adattamento riguarda l’intero corso degli eventi e non solo la fine, infatti la mutazione iniziale può di per se avere un valore adattivo che da vantaggio a chi la possiede. Quando l’intera popolazione presenta quel tratto diciamo che si è raggiunto un nuovo adattamento, cioè un carattere che rende più “adatto” l’organismo al suo ambiente. L’adattamento può essere incrementato e perfezionato durante le generazioni. Si può definire “fitness” l’abilità generale di un organismo nelle strategie di sopravvivenza e di riproduzione. In genetica delle popolazioni la fitness di un carattere si determina nel rapporto tra la prole media dell’individuo rispetto a quella della popolazione a cui appartiene. La selezione naturale opera su più geni simultaneamente, quindi non è facilmente misurabile. La branca che si occupa dello studio su queste variazioni è detta “genetica quantitativa”. Il meccanismo di selezione cumulativa che funziona soltanto in presenza di un ambiente che renda quel carattere vantaggioso (pressione selettiva) dà l’idea di una natura ingegnere che costruisce le creature, come fa anche l’uomo, come si vede nella selezione delle razze canine. La selezione naturale agisce come quella artificiale e agisce in modo automatico e cumulativo, a partire da differenziali anche piccolissimi nella competizione per le risorse e per la riproduzione. La selezione naturale non è un processo casuale, ma incrementale e parte da variazioni puntiformi. Oltre a una funzione di variazione, la selezione ha anche una funzione di conservazione, in termini di consolidamento a una determinata nicchia ecologica. Se non esistono elementi di opportunità la selezione tende a eliminare tutte le variazioni aberranti per la loro minore sopravvivenza differenziale (selezione stabilizzante), infatti lasciata a se stessa e a parità di altre condizioni la selezione tende a ridurre la variazione genetica e l’ereditarietà. La selezione cerca sempre di eliminare eventuali mutazioni svantaggiose, ma è inefficace contro variazioni neutrali, come possono esistere in un contesto ecologico più soluzioni allo stesso problema (picchi adattivi multipli) che possono portare anche alla separazione di due specie (selezione divergente). La selezione naturale a volte funziona in altro modo, facendo in modo che un adattamento sia valido solo se presente in basse frequenze, come l’adattamento a un parassita. Se tutti fossero resistenti a quel parassita, esso muterebbe per adattarsi a sua volta, mentre in altri casi funziona solo se è posseduta da tutti i membri della specie (conformismo della specie). Davanti a pressioni selettive analoghe, organismi diversi reagiscono in modo analogo, per un fenomeno chiamato “convergenza adattiva” che può far assomigliare tra loro organismi non imparentati. Adattamento e selezione regolano i rapporti tra organismi e ambienti, ma anche tra specie diverse, come ad esempio tra piante e impollinatori (coevoluzione). Gli evoluzionisti discutono da tempo sul livello esatto a cui agisce la selezione. Per Darwin la selezione era a livello di individuo, il successo si propagherà ai geni e alla specie intera, anche se la selezione, che è “cieca” porti a variazioni alla lunga deleterie, ad esempio creando una specializzazione alimentare, fatale in caso di cambiamenti ambientali. Può nascere conflitto anche tra diversi livelli, in quanto il bene del singolo è contrastante con quello della specie, come nel caso della “selezione di parentela” studiata da William Hamilton, come nel caso delle caste sterili delle popolazioni di insetti, oppure come nelle “famiglie allargate” degli uccelli. L’altruismo è dunque una forma evoluta di egoismo, e i gruppi una forma di “fenotipo esteso” dei geni. Alcuni evoluzionisti hanno teorizzato che la selezione naturale favorisca comportamenti che portano un vantaggio riproduttivo diretto, cioè la trasmissione dei geni alla generazione successiva, come definita da Richard Dawkins “gene egoista”, per suggerire l’idea della diffusione di “replicatori” genetici nelle discendenze, mentre altri organismi sarebbero “interattori”, veicoli per la loro diffusione. In sintesi la selezione “agisce” su organismi e “regola” la frequenza di geni. Si potrebbero definire “unità di selezione” gli organismi e “unità di selezione” i geni. Si è anche discusso della possibilità che esistano fenomeni di “selezione di gruppo”, ma un processo del genere è sempre messo in pericolo da eventuali “batteri liberi” che agiscono per massimizzare il loro vantaggio a scapito del gruppo.
Nella “selezione sessuale” si compete direttamente per il successo riproduttivo e si presenta sia quando i maschi lottano per la femmina (selezione intrasessuale), che quando la femmina sceglie il maschio con cui accoppiarsi (selezione intersessuale). La selezione è più aggressiva quanto minore è il numero dei maschi che si accoppiano con più femmine (poliginia), mentre nei casi di poliandria, i comportamenti e i caratteri fisici saranno invertiti. Non è chiaro perché le femmine sviluppino tendenze che portano a scatenare l’esibizionismo maschile, l’unica spiegazione è quella di Fisher: il carattere prescelto del maschio viene selezionato perché conferisce un qualche vantaggio. La scelta femminile rafforza la selezione aggiungendo vantaggi nell’accoppiamento. Quando la selezione sessuale prevale su quella naturale, il carattere diventa disadattivo perché il vantaggio nell’accoppiamento supera il costo in termini di sopravvivenza, a quel punto non si può tornare indietro: una femmina o un maschio che scelga partner più modesti avrà figli che non si riproducono. Il concetto di adattamento non equivale a perfezione per una serie di cautele molto importanti: un adattamento, anche se ottimale in una nicchia ecologica rimane valido fino alla variazione di ambiente successiva. Possono esistere anche “adattamenti fantasmi” in cui una specie si adatta anacronisticamente a un’altra, che ora è estinta. Inoltre gli organismi non sono tra loro indipendenti, ma una variazione di uno può portare a variazioni di quelli che abitano lo stesso ambiente (coadattamenti). Se ne deduce che l’evoluzione per selezione naturale è un gioco di pesi e contrappesi, di costi e benefici, un equilibrio di adattamenti che spesso offrono un vantaggio maggiore rispetto agli effetti indesiderati. Anche l’ambiente si presenta con pressioni selettive multiple e indipendenti, a volte anche contraddittorie tra loro. Poi le soluzioni adattive non sono totalmente libere, ma soggette a particolari limiti come altezza, dimensioni, peso, i “vincoli ontogenetici” limitano la variabilità per renderla compatibile con il piano corporeo, mentre la selezione eviterà asimmetrie o distorsioni nello sviluppo. Nella maggioranza dei casi gli organismi tendono ad adottare ciò che hanno piuttosto che a costruire nuove strutture, ma come spiegare la nascita di meccanismi prima assenti , come le ali o gli occhi? Darwin rispose nel 1872 con una doppia strategia esplicata, valida ancora oggi: nei casi più comuni sono sufficienti piccoli cambiamenti nelle strutture preesistenti, facendo come esempio l’evoluzione dell’occhio. I tessuti fotosensibili, prima senza cristallino né camera oscura, sono nati all’inizio per capire la differenza tra notte e giorno, e piano piano si sono evoluti nell’occhio attuale (secondo modelli al computer bastano pochi milioni di anni di evoluzione). In altri casi si verifica un cambiamento di funzione, ad esempio le penne, nate come protezione termica , sono diventate strumenti prima di volo planato e poi di volo vero e proprio. Perché vi sia un cambiamento di funzione a parità di struttura, (Darwin lo definì preadattamento, ma oggi si usa il termine exaptation, coniato da Stephen Gould e Elisabeth Vrba nel 1982) bisogna ipotizzare che in natura più organi possano compiere la stessa funzione, in modo che uno possa essere portato ad una nuova funzione, o che un organo possa avere più funzioni contemporaneamente. L’exaptation ci fa vedere che difficilmente un organo è stato costruito “per” uno scopo e come l’adattamento sia spesso un compromesso con i vincoli strutturali degli organismi e con la loro storia pregressa, ma anche che ogni tratto può essere adattivo per una funzione presente ed avere effetti potenziali benefici che potrebbero essere sfruttati dalla selezione naturale. Questi effetti possono anche passare a livelli diversi ad esempio tra organismi e gruppi (effetto concominante). Quindi quando non c’è cambiamento di funzione si parla di “adattamenti”, altrimenti ci troviamo di fronte a un fenomeno di exaptation. Gould e Vrba aggiunsero anche che si può parlare di exaptation quando assumono funzioni strutture che non hanno in precedenza alcuna funzione, come strutture vestigiali. La convergenza di strategie adattive di tipo funzionale (analogie) non esclude che gli organismi siano portatori di strutture più antiche (omologie): non tutto in natura serve a qualcosa, ma tutto può tornare utile. La selezione naturale continuativa è l’unico meccanismo esplicativo per l’adattamento, ma non tutto quello che avviene nell’evoluzione è per forza adattivo. Molte nicchie ecologiche non sono state sfruttate dall’evoluzione, potrebbero essere zone di scarso adattamento, come possono esserci limiti fisici: non esistono serpenti erbivori, né insetti grandi come elefanti. Ci sono poi meccanismi biologici universali che sfuggono in termini di selezione naturale e adattamento, come il sesso e la vecchiaia. Quasi tutti gli organismi pluricellulari invecchiano, ma sembra un meccanismo che la selezione dovrebbe bloccare. Evidentemente è all’opera un processo che la selezione non può o non ha interesse a bloccare, nono stante esistano in natura varie forme di rigenerazione, adottate da poche specie, come se l’invecchiamento fosse tollerato dalla selezione che favorirà i tratti adattivi degli stadi giovanili e adulti di una specie, dato che è quello il periodo in cui un organismo lascia discendenza. Quindi le mutazioni vantaggiose nate in questo periodo saranno favorite, mentre saranno totalmente sfavorite le mutazioni svantaggiose, invece durante la vecchiaia la selezione tenderà a una “minore” controllo. Si nota che se le probabilità di morte sono alte, la selezione si concentrerà nel periodo giovanile, mentre per le specie a vita più lunga ci sarà meno corsa alla riproduzione precoce; ma come si è evoluto il sesso in sé? Ci sono molte forme di riproduzione in natura, come la clonazione: la prole è identica alla linea femminile che l’ha generata. Poi ci sono stadi intermedi, come alcuni batteri che si scambiano materiale genetico per ‘’coniugazione’’, ma poi si clonano per conto proprio. Il sesso è una pratica quasi esclusiva degli essere pluricellulari, ed è una pratica molto costosa: ogni genitore perde metà del suo corredo genico, inoltre i maschi non aumentano il tasso di riproduzione delle femmine, ma esiste ed è praticato in natura, quindi qual è il suo vantaggio? Ci sono solo ipotesi per questo. Il sesso può aumentare la distribuzione di mutazioni favorevoli e ridurre quelle sfavorevoli, mentre per clonazione una mutazione svantaggiosa è una condanna per tutta la discendenza. Il sesso, rimescolando costantemente i geni, porta un costante rifornimento di variazione. Secondo Hamilton è fondamentale per la lotta ai parassiti e alle malattie, variando di volta in volta il corredo genetico dei discendenti.
Le popolazioni di organismi sono immerse in contesti ecologici e geografici. Ogni specie occupa una ‘’nicchia ecologia fondamentale’’ data dalle condizioni in cui potrebbe vivere in assenza di competizione e con risorse illimitate e una ‘’nicchia ecologia realizzata’’ data dalle condizioni reali in mezzo alle altre specie. Il modo in cui le popolazioni si ‘’strutturano’’ e si muovono nello spazio incide fortemente sulla loro evoluzione. Darwin comprende la geografia ‘’orizzontale’’ dell’evoluzione, studiando casi come l’isolamento dei marsupiali australiani o la fauna delle Galapagos, che dovevano essere abitate dai discendenti di antichi colonizzatori giunti dalla terraferma. La colonizzazione impone però alcune restrizioni al tipo di creature che abitano le isole: solo i discendenti di animali e piante che hanno attraversato il mare possono attecchire e una volta lì non tutti i colonizzatori riescono ad adattarsi al nuovo ambiente. Fra i sopravvissuti spunteranno caratteri contingenti rispetto alla specie iniziale, infine il cambiamento delle pressioni selettive modificherà la morfologia e il comportamento degli isolani. A dimostrazione di questo le isole oceaniche hanno in genere poche specie distribuite tra gruppi principali: rettili e uccelli ci sono sempre, mentre mammiferi e anfibi sono distribuiti in maniera non uniforme. La composizione dipende dalla difficoltà di superare l’ostacolo geografico, infatti specie aliene introdotte possono proliferare devastando l’ecosistema originario (conigli in Australia). Emerge quindi una domanda: nel gioco degli adattamenti, delle nicchie ecologiche e delle discendenze, cosa separa realmente le specie? E’ opinione comune che gli esseri viventi siano divisi in unità o varietà discrete, ma la formazione di queste unità per evoluzione è complicata. Darwin sapeva che un meccanismo cumulativo l’ente graduale non sarebbe bastato a definire i confini esatti tra due specie. Egli arrivò a una ‘’definizione nominalista’’ dell’oggetto: le specie sfumano gradualmente l’una nell’altra e anche quando divergono lo fanno in modo talmente lento da rendere impossibile la definizione oggettiva di un punto di separazione. La ‘’definizione tipologica predarwiniana’’ prevedeva invece che la natura fosse divisa in ‘’tipi’’ ideali distinti da un punto di vista morfologico. Questa definizione non permetteva di distinguere le varietà fenotipiche all’interno di una specie ‘’specie politipiche’’, ritendendole specie diverse, o ritendo specie uguali, quelle composte da popolazioni identiche morfologicamente, ma che non si mescolavano mai (specie gemelle). Alcuni evoluzionisti neodarwiniani come Theodosius Dobzhansky, Julian Huxley ed eErnest Mayr, giunsero a una scoperta fondamentale per la moderna biologia evolutiva: una specie è una comunità riproduttivamente chiusa, cioè una popolazione di organismi che si incrociano e si scambiano geni solo fra loro e non con popolazioni imparentate. Nasce così la ‘’nuova sistematica’’. I genetisti cominciarono a valorizzare la connessione fra distribuzione della variabilità genetica all’interno di una specie e la sua distribuzione geografica: una specie composta da diverse popolazioni geograficamente separate tende a frammentarsi in tante varietà con un alto polimorfismo molecolare, mentre una specie costituita da un’unica popolazione con un flusso genico costante avrà un polimorfismo molecolare basso (specie umana). Le specie tendono a scomporsi in popolazioni con tratti differenti in base al luogo che abita (variazione geografica), quindi la sua coesione genetica dipenderà dall’età e dai flussi migratori. Questi meccanismi permisero di scoprire un meccanismo di ‘’speciazione’’. Seconda Mayr se il flusso genico tra due popolazioni si interrompe a causa di una migrazione o di una barriera naturale, cominciano a divergere geneticamente, fino al punto che non potranno riprodursi tra loro, la barriera geografica si trasforma in barriera riproduttiva. La speciazione avviene per dislocamento di una popolazione in un luogo separato (allopatrica). E’ anche vero che spesso la speciazione non porta a una differenza sostanziale sul piano morfologico: ad esempio le specie gemelle, comuni negli insetti, sono identiche nel fenotipo ma biologicamente separate. Gli evoluzionismi hanno quindi scoperto che il meccanismo di produzione di nuove specie necessitava di una forte componente ecologica, non basta l’accumulo di piccole differenze genetiche: occorre un contesto ecologico che separi le popolazioni. Oggi sappiamo che l’interruzione del flusso genico non avviene solo per separazione, ma può avvenire a causa di mutazioni genetiche divergenti che incidono sui meccanismi riproduttivi. Il problema può nascere prima della fecondazione (isolamento pre-zigotico), che è uno sfasamento nel periodo dell’anno dedicato all’accoppiamento, oppure dopo la fecondazione (isolamento post-zigotico), come la nascita di ibridi sterili. Esistono poi casi intermedi, come incroci tra cane coyote e sciacallo, o casi di “specie ad anello” in cui c’è flusso genico per tutto l’anello, ma non ai due estremi. Questo capita in specie che vivono su un territorio molto ampio (gabbiani reali dell’Atlantico). Comunque la migrazione non sempre porta a separazione della specie in quanto questo accade solo con la nascita di una barriera ecologica, ma spesso aiuta le popolazioni aumentando la variabilità. La migrazione raramente separa e frequentemente unisce. Il rapporto tra isolamento riproduttivo e selezione naturale è problematico perché non c’è un vantaggio evidente e diretto ricavabile dallo sviluppo di difficoltà di accoppiamento tra due popolazioni. Solo dopo che una barriera separa due popolazioni, i meccanismi di selezione e mutazione fanno divergere le composizioni geniche, anche se in alcuni casi, come in situazione di risposte adattive divergenti alla stessa pressione selettiva, è la selezione a far partire la divergenza e l’interruzione del flusso genico. Esistono oggi molte nozioni di specie e di processi speciativi che condividono quasi tutti l’isolamento riproduttivo come marchio della separazione tra specie. Se la comunità di organismi interfecondi è tenuta insieme da sistemi sensoriali di riconoscimento del partner, si parla di “nozione di specie basata sul riconoscimento”, una variante della nozione di biologia. Se la comunità è definita come un insieme di organismi simili che sfruttano una specifica nicchia ecologica attraverso adattamenti locali si parla di “nozione ecologica di specie”. Dopo il modello allopatrico di Mayr, anche la speciazione è stata interpretata in modo pluralistico, come la “speciazione parapatrica” in cui si sviluppa una zona di ibridi al confine tra gli ambienti di popolazioni contigue che successivamente declinano ad un isolamento riproduttivo totale. C’è anche la “speciazione simpatrica” se una popolazione si spacca in due entità geneticamente indipendenti a causa di cambiamenti adattivi o per selezione sessuale divergente. Si parla di “speciazione per ibridazione” se gli ibridi di due specie non si incrociano più con le specie genitrici, ma soltanto tra loro, duplicando il corredo cromosonico per poliploidia, specialmente nelle piante. La nozione biologica di specie è valida solamente per organismi che usano la riproduzione sessuata, mentre non è adeguata per quella parte della natura che non conosce il sesso. Lo stesso problema si verifica per le specie fossili, in quanto non è verificabile l’isolamento riproduttivo. Le cause fisiologiche che inducono la rottura del flusso genico sono in fase di studio e possono essere legate sia allo scarso adattamento biologico degli ibridi che a incompatibilità genetiche. In alcuni casi di flusso genico è interrotto dalla realtà, ma non è impossibile in linea di principio: se vengono fatte accoppiare in laboratorio, danno origine a prole fertile, mentre in altri casi la selezione naturale agisce contro la sopravvivenza degli ibridi tra due tipi genetici in una specie, anche senza barriere naturali (selezione di rinforzo), il che spiegherebbe perché in alcuni casi due specie a contatto si somigliano di meno di quando sono separate. La selezione di rinforzo è centrale per spiegare le speciazioni simpatriche e parapatriche. Normalmente la selezione in presenza di barriere non interviene né per sfavorire, né per favorire la possibilità di incrocio, che svaniscono per accumularsi di varianti genetiche differenti. Quando l’insieme di geni comincia ad essere diverso tra le due popolazioni, gli ibridi manifestano caratteristiche svantaggiose per la sopravvivenza, per il carattere integrato dei genomi. Un nuovo adattamento ecologico modifica le sequenze di geni che (per interazioni epistatiche, pleiotropia), sono correlati a geni implicati nell’accoppiamento e nella riproduzione. La speciazione può essere intesa come un prodotto collaterale di adattamenti divergenti. Dalle cause dell’isolamento riproduttivo dipendono anche i tempi necessari per completare la separazione tra due specie. Una buona media del ritmo di speciazione è di alcune decine e migliaia di anni. Nel 1972 due paleontologi americani, Niles Eldredge e Sthefen Gould, studiando il modello allopatrico di Mayr, ridefinirono i ritmi di evoluzione della specie, teorizzando che se la speciazione allopatrica interessava piccole popolazioni, per ragioni strettamente statistiche, poteva avvenire in tempi piuttosto rapidi. L’evoluzione per ramificazione darwiniana veniva così leggermente modificata: non solo lente divergenze progressive di tipo simpatrico, ma specie madri a volte molto stabili che “gemmano” specie” figlie in quantità variabili, solitamente associate a modificazioni ecologiche locali. Questa immagine della vita delle specie, caratterizzata da periodi di stabilità, interrotta da bruschi episodi di speciazione rapida viene definita “equilibrio punteggiato”. Secondo alcuni evoluzionisti, l’equilibrio punteggiato è raro, mentre per altri è molto frequente. Il concetto di equilibrio punteggiato ha avuto il merito di sottolineare la speciazione come risposta adattiva, cruciale, e quello di evidenziare i meccanismi che producono la resistenza al cambiamento da parte delle specie. Sewall Wright aveva scoperto che in assenza di pressioni selettive, alcune popolazioni, spesso di numero limitato e diffuse in spazi ristretti, possono accumulare variazioni genetiche casuali, senza ragione adattiva o selettiva (fenomeno della deriva genetica o genetic drift). La presenza dei gruppi sanguigni nelle popolazioni umane è un esempio classico di deriva genetica, che contribuisce in modo importante alla diversità, integrando i processi di mutazione e di selezione naturale. Ogni mutazione neutrale viene trasmessa da un portatore, che non ha nessun vantaggio nell’averla, quindi non avrà influenza sul suo numero di discendenti e sarà estratta a ogni generazione come a una ‘’lotteria’’, quindi può alla lunga scomparire, se ad un esempio il portatore non lascia discendenti, o prosperare e coprire tutta la popolazione (fissazione per deriva). La velocità di cambiamento delle frequenze igieniche per deriva è inversamente proporzionale alle dimensioni della popolazione. Più è piccola e più l’effetto della deriva è visibile. Può accadere se un piccolo gruppo colonizza una nuova area (effetto del fondatore, come i Boeri del Sudafrica), o per riduzione drastica della popolazione come per esempio una carestia (effetto collo di bottiglia). Se i diversi genotipi sono soggetti a pressioni selettive gli effetti della deriva si smorzano e diventano insignificanti. La deriva genetica offre un contributo significativo, insieme alla mutazione e alla selezione, ma anche in modo indipendente da loro, alla divergenza tra popolazioni isolate e quindi alla speciazione. Possiamo quindi affermare che speciazioni, migrazioni e derive rappresentano il terzo motore dell’evoluzione. Specie strettamente imparentate avranno una percentuale bassissima di basi diverse: poche derivanti da DNA codificante, ed altre “silenti”. Bastano poche variazioni di DNA codificante per rendere le specie morfologicamente molto diverse, mentre molte variazioni di DNA silente lasciano le specie morfologicamente simili. Una buona stima della divergenza genetica deve contemplare sempre una media tra sostituzioni effettive di aminoacidi e differenze silenti. In genere la proporzione è costante, le differenze silenti sono più del doppio delle sostituzioni e misurano meglio il grado di parentela. Nel caso della specie umana, la divergenza minore c’è con gli scimpanzé (1,2% del DNA non codificante), poi con i gorilla (1,6%). E’ facile capire perché le differenze silenti sono più comuni e più rapide: la selezione non le vede e si accumulano più facilmente. L’idea è che le mutazioni neutrali, non soggette a selezione si accumulino a un ritmo tipico di ciascuna specie, uniforme e misurabile, per questo è possibile calibrare il tasso di mutazione neutrale medio per calcolare quando due specie si sono separate. Questo “orologio molecolare” ha tracciato la data di separazione tra umani e scimpanzé a circa 6 o 7 milioni di anni fa. Queste previsioni sulla regolarità e sulla velocità dell’evoluzione molecolare fanno parte della “teoria naturale dell’evoluzione molecolare” di Kimura. Un’applicazione di questa teoria dell’orologio naturale ha portato a uno studio sui progenitori africani dell’Homo Sapiens, studiando i polimorfismi presenti in materiali genetici con discendenza solo femminile (DNA mitocondriale) e solo maschile (cromosoma Y). Questa differenziazione è servita per manifestare una tendenza della deriva, detta “coalescenza” o “deriva verso l’omozigosi”: quando un carattere si trasmette per via solo maschile o solo femminile, in una popolazione ristretta e senza flussi migratori, tende a estinguere tutte le varianti tranne una. Tornando indietro si può risalire all’antenato coalescente, e questo a portato a scoprire un solo cromosoma Y e un solo DNA mitocondriale per tutto il gruppo fondatore degli umani africani, che può derivare dal numero esiguo di fondatori iniziali o una catastrofe successiva (effetto collo di bottiglia).
I meccanismi finora delineati ci permettono di escludere che l’evoluzione su larga scala sia dovuta a processi speciali o “ortogenetici”. Alcuni pensano che l’evoluzione su larga scala sia completamente riconducibile ai meccanismi di livello più basso, altri ritengono che l’insorgenza di regolarità nella “macroevoluzione” non sia completamente “estrapolabile” dalle dinamiche inferiori. Le specie non stanno ferme: si spostano, migrano, espandono i loro areali di distribuzione attraverso processi di “dispersione”. A volte le migrazioni vengono bloccate da “ponti filtranti” che sono attraversabili solo da alcune specie. Dal punto di vista della biogeografia diventano importanti agenti evolutivi, fenomeni come le oscillazioni climatiche e le glaciazioni che spingono le specie a migrazioni imponenti e a luoghi prima di allora inesplorati. Secondo una corrente di studi definita “biogeografia della vicarianza” la distribuzione delle specie sarebbe condizionata dalla deriva dei continenti e dai grandi mutamenti della superficie terrestre. Questi eventi su larga scala tendono a dividere l’areale originario, influendo sui loro alberi di discendenza. Processi di “vicarianza” e di “dispersione” (spostamento del territorio o delle popolazioni) potrebbero essere complementari e concorrere all’evoluzione della distribuzione geografica delle specie. Un esempio è la “linea di Wallace” tra Borneo e Australia, che separa la fauna australiana da quella asiatica, rispecchiando la divaricazione tra placca indiana e placca australiana. Se la filogenesi di un gruppo e la distribuzione biogeografica moderna combaciano, si può tracciare un “cladogramma di area”. L’unione della storia e della geografia delle specie, della cladistica, della biogeografia e della filogenetica molecolare, portano alla nascita di una nuova scienza, la “filogeografia”. I paleontologi hanno anche osservato come fenomeni drastici come le “estinzioni di massa” abbiano portato alla scomparsa di una parte consistente della biodiversità terrestre. Dato che non sono il culmine di tendenze pregresse questi fenomeni sono interpretati come schemi storici su larga scala non completamente estrapolabili dai tre motori dell’evoluzione normale. In molti casi queste perturbazioni ecologiche planetarie generano pattern su larga scala caratterizzati da alternanza fra una estinzione di massa (non selettiva) e episodi di rapida diversificazione delle nuove specie o “radiazione adattiva”, a causa della ricolonizzazione delle nicchie lasciate libere dall’estinzione di massa. Ma non c’è bisogno di ricorrere a estinzioni di massa per vedere radiazioni adattive su larga scala. Un esempio è l’unione di due territori precedentemente separati, come il grande “interscambio americano” dovuto all’unione dell’istmo di Panama. Un effetto “specie-area” su larga scala che portò ad una potente estinzione, perché l’habitat globale non poté sostenere la sopravvivenza della somma delle specie dei due territori più piccoli. Altrimenti la nascita di nuove nicchie ecologiche può portare a “esperimenti” nell’evoluzione, come nella fase di “esplosione cambriana” della vita pluricellulare. Secondo Vrba, quando le variazioni climatiche superano la soglia della capacità di resistenza delle specie si innescherebbe un pattern macroevolutivo intermedio di “avvicendamento di specie” che porta all’estinzione e alla sostituzione di molte specie nella regione. Meccanismi evolutivi del tutto diversi sono all’opera anche in altri passaggi della storia naturale su larga scala, come la transazione dai procarioti agli eucarioti. Si tratta in questo caso di una strategia in cui le competenze adattive sedimentate di organismi più antichi vengono fuse insieme per generare una forma vivente di complessità superiore. Quando negli anni ’70 Lynn Margulis teorizzò l’origine simbiotica degli eucarioti, per assorbimento di mitocondri e cloroplasti, trasformati in organelli interni, ci furono controversie, ma analisi del DNA hanno consolidato il consenso intorno a questa ipotesi detta “simbiogenetica”. Non si tratta di cooperazione, ma di una forma più radicale di unione per la vita (endosimbiosi). Nonostante sia veloce e senza forma di transizione, l’endosimbiosi ha bisogno di tentativi ed errori, di mutazioni, e trasferimenti genesi, nonché di compromessi tra pressioni selettive. E’ evidente che la grande vastità della storia naturale sia punteggiata da alcune “grandi transizioni”. Queste dinamiche macroevolutive, non riconducibili rappresentano il quarto e ultimo motore dell’evoluzione. Darwin comunque parlava di “discendenza con modificazioni” non di “progresso”, in quanto questa parola dava l’idea che le specie tendessero a migliorare.