L'amicizia in filosofia
Il termine amicizia designa in generale la comunità di due o più persone legate assieme da atteggiamenti concordanti e da affetti positivi. Gli antichi ebbero dell'amicizia un concetto assai più esteso di quello che oggi viene comunemente ammesso e adoperato, come risulta dall'analisi che Aristotele diede di essa nei libri VIII e IX dell'Etica Nicomachea.
L'amicizia è, secondo Aristotele, o una virtù o strettamente congiunta con la virtù: comunque, è ciò che c'è di più necessario alla vita giacchè i beni che la vita offre, come la ricchezza, il potere, ecc..non si possono nè conservare nè adoperar bene senza gli amici (VIII,1,1155 a 1).
L'amicizia va distinta in primo luogo dalle due cose cui sembra più strettamente affine, cioè dall'amore e dalla benevolenza. Essa si distingue dall'amore perchè esso è simile ad un'affezione, l'amicizia a un abito. Sicchè l'amore si può rivolgere anche a cose inanimate, mentre il riamare, che è proprio dell'amicizia, implica una scelta che deriva da un abito (VIII; 5, 1157 b 28). Inoltre, all'amore si accompagnano l'eccitazione e il desiderio, che sono estranei all'amicizia; ed esso, a differenza dell'amicizia, è provocato dal godimento che dà la vista della bellezza (IX, 5, 1166 a 10).
Si distingue poi dalla benevolenza perchè questa può dirigersi anche verso gli ignoti e può rimanere nascosta: il che non accade nell'amicizia. (IX, 5, 1167 a 10). L'amicizia è certamente una specie di concordia, ma una concordia che non riposa sull'identità delle opinioni ma piuttosto, come la concordia delle città, sull'armonia degli atteggiamenti pratici, sicchè a giusto titolo si chiama "amicizia civile" la concordia politica (IX, 6, 1167 a 22).
L'amicizia è poi certamente una comunità nel senso che l'amico si comporta verso l'amico come verso se stesso (IX, 12, 1171 b 32). Ci sono tante specie di amicizie quante sono le comunità, cioè le parti della società civile: quella tra coloro che fanno un qualsiasi lavoro comune (VIII, 9, 1159 b 25). Vi può essere anche amicizia tra il padrone e lo schiavo, se lo schiavo è considerato, non più soltanto come uno strumento animato, ma come uomo. Solo nella tirannide c'è poca o nulla amicizia: giacchè in essa non c'è niente in comune tra chi comanda e chi obbedisce, e l''amicizia è tanto più forte quante più sono le forme dell'amore: quella del padre con il figlio, del giovane con il vecchio, del marito con la moglie. Quest'ultima è quella più naturale e ad essa si congiungono l'utilità e il piacere (VIII, 12, 1161 b11). Quanto al fondamento dell'amicizia, esso può essere o l'utilità reciproca o il piacere o il bene; ma è chiaro che mentre un'amicizia fondata sull'utilità o sul piacereè destinata a finire quando il piacere o l'utilità cessano, l'amicizia fondata sul bene è la più stabile e ferma e quindi la vera amicizia (VIII, 3, 1156 a 6 sgg.).
Quest'analisi aristotelica, che è la più compiuta e bella che la filosofia abbia mai dato sul fenomeno dell'amicizia, s'incardina sui seguenti punti:
1) l'amicizia è una certa comunità cioè una partecipazione solidale di più persone ad atteggiamenti, valori o beni determinati;
2) essa è collegata con l'amore è né segue le forme ma non s'identifica con l'amore;
3) essa si avvicina piuttosto alla benevolenza ed è proprio collegata con gli affetti positivi, cioè con quelli che implicano sollecitudine, cura, pietà ecc...
L'amiciza è così, secondo Aristotele, più estesa dell'amore, che è limitato e condizionato dal godimento della bellezza. Ed è diversa dall'amore per il suo carattere attivo e selettivo, onde Aristotele dice che l'amore è un'affezione cioè una modificazione subita mentre l'amicizia è un abito (come un abito è la virtù) cioè una disposizione attiva e impegnativa della persona.
Dopo Aristotele, l'amicizia trovò i suoi esaltatori negli Epicurei che ne fecero uno dei capisaldi della loro etica e della loro condotta pratica. Essa assume però presso questa scuola un carattere aristocratico; è una delle manifestazioni della vita del saggio, non già, come la riteneva Aristotele, collegata ai rapporti umani come tali. Ritornano nelle testimonianze epicuree che ci sono rimaste alcune nozioni aristoteliche, per esempio questa: "L'amicizia è nata dall'utile ma essa è un bene per sè. Amico non è chi cerca sempre l'utile nè chi non lo congiunge mai con l'amicizia: giacchè il primo considera l'amicizia come un traffico di vantaggi, il secondo distrugge la fiduciosa speranza di aiuto che è tanta parte dell'amicizia" (Sent. Vat., 39-24, Bignone).
Con il prevalere del cristianesimo l'importanza dell'amicizia come fenomeno umano primario, decade nella letteratura filosofica. Il concetto più esteso e più importante diventa quello dell'amore, dell'amore del prossimo, che manca dei caratteri selettivi e specifici, che Aristotele aveva riconosciuto all'amicizia. Difatti "prossimo" è colui con il quale c'imbattiamo o che comunque in rapporto con noi, chiunque esso sia, amico o nemico. La massima aristotelica dell'amicizia, "comportarsi verso l'amico come verso se stesso", vedere in lui "un altro se stesso" (Et. Nic. IX, 9, 1170 b 5; IX, 12, 1171 b 32), viene estesa dal cristianesimo a tutto il prossimo.
Bibliografia:
Dizionario filosofico di Nicola Abbagnano