L'epoca antica e medioevale
L'ermeneutica nasce come problema, soprattutto tecnico, nell'età ellenistica e cioè in senso proprio nel periodo che va dalla morte di Alessandro all'affermazione dell'Impero romano. In questo contesto la lingua greca diventa la lingua comune del Mediterraneo: seppure si manifesti gradualmente un distacco dalle origini della civiltà greca, anzitutto dai poemi omerici, in senso lato da Omero ed Esiodo, esse sono sentite comunque ancora come fondamentali.I poemi di Omero, pur con tutta la differenza tra la civiltà greca e quella ebraico-cristiana, hanno in qualche modo un senso avvicinabile alla Bibbia: non sono testi sacri, ma parlano degli dei, del loro mondo olimpico e del loro rapporto con gli uomini.Anche Esiodo ha in questo contesto un ruolo centrale: se ne "Le opere e i giorni" parla del lavoro dei campi, è soprattutto nella "Teogonia", sua opera fondamentale, che narra dell'origine del mondo degli dei dal caos e delle loro generazioni.
L' epoca ellenistica segue però l'età classica, che certo è l'età di Platone ( parla di ermeneutica nel "Cratilo", richiamandosi al mito di Hermes-> Mercurio, qualificato come interprete e cioè come dio della comunicazione, come colui che mette in rapporto gli dei e gli uomini. Hermes è infatti colui che, mettendo in comunicazione sensibile e sovrasensibile, esplicita messaggi reconditi, ma che facendo questo si serve in maniera impropria del potere delle parole e quindi inganna. E' infatti messaggero, ladro, ingannatore nei discorsi e commerciante. L'ermeneutica intende così assumere in Platone un aspetto svalutativo, che la pone in relazione alla poesia e alla divinazione, se non alla mistificazione), e di Aristotele ( per Aristotele, autore di un trattato intitolato "Dell'interpretazione", "ermeneutica" voleva dire "espressione" linguistica di un pensiero: questa breve opera di Aristotele si occupa infatti della struttura del linguaggio. Essa attiene quindi a esigenze di decifrazione e chiarezza di ordine logico e argomentativo, indagando la proposizione, cioè il procedimento mediante cui due termini - nome e verbo - sono legati da un'affermazione o da una negazione, in modo che siano poste in evidenza le condizioni che consentono, nel giudizio, di dare un'interpretazione corretta del mondo, di esprimere fedelmente nel discorso la realtà di cui si parla), ma ancor prima l'età dei sofisti, dell'"illuminismo greco", in cui si afferma un modello di razionalità per il quale la forma espressiva dei poemi omerici ed esiodei viene percepita come lontana, pur restando nello stesso tempo fondamentale.
Alla fine dell'età classica i Greci, che non hanno più il predominio sul loro territorio in quanto vengono dominati prima dai Macedoni e poi dai Romani, cercano di riattingere un legame con le proprie radici culturali le cui fonti non sono però più direttamente loro intelligibili: quei testi che parlano di dei e di uomini e sono la base della cultura greca sono sentiti come centrali, ma anche distanti. Si pone, così, il problema di capirli, di interpretarli.Potremmo quindi dire che una riflessione più sistematica sull'interpretazione si ha a partire dell'età ellenistica, caratterizzata dall'esigenza di rendere nuovamente attuali i testi dell'epoca classica di cui si sentiva in qualche modo la distanza o l'estraneità, dal punto di vista linguistico e culturale. Questo compito di attualizzazione è sorretto da un'ampia fioritura di studi filologici e letterari, che vedono coinvolte soprattutto le scuole di Alessandria e di Pergamo.
In primo luogo, i filologi (grammatici) della Scuola di Alessandria, centro della cultura ellenistica, compiono un lavoro di interpretazione, cercando, ad esempio, di capire se tutti i testi attribuiti ad Omero siano effettivamente suoi. Ciò è reso difficile dal fatto che non si hanno testimonianze dirette. Ci sono, infatti, nelle opere attribuite ad Omero, alcuni passi che rimandano ad un'epoca precedente, anteriori all'VIII sec. a.C.Per risolvere il problema questi eminenti grammatici analizzano anzitutto lo stile del testo e scoprono in questo modo che le parti iniziali e finali sia dell'Iliade sia dell'Odissea non sono dello stesso autore delle altre parti. Questo procedimento è tipico dell'ermeneutica: si parte dal particolare, si studia poi il rapporto con il generale e si torna quindi a dare un giudizio sul particolare.
Ad Alessandria ove si raccoglie il patrimonio letterario greco c'è, in altre parole, attenzione agli aspetti linguistici e filologici, che indirizzano il lavoro interpretativo verso l'analisi dei testi allo scopo di delucidarne il senso letterale. L'interpretazione è quasi intesa come traduzione della lingua arcaica.Accanto alla Scuola di Alessandria si sviluppa anche la Scuola di Pergamo , nell'attuale Turchia, nella quale si inaugura il metodo dell'interpretazione allegorica (allegoria significa "dire altro", dire "una cosa in un'altra forma"). Le difficoltà di comprensione dei testi antichi (soprattutto dei poemi omerici), secondo questo diverso approccio, non sono solo di ordine linguistico ma anche di ordine semantico: il significato non risulta più infatti immediatamente trasparente ad un mondo ormai profondamente mutato per sensibilità e cultura.Il metodo allegorico consiste così nel cercare significati nascosti sotto il significato letterale, allo scopo di rendere compatibili i racconti mitici e poetici con la nuova sensibilità etica, influenzata dal razionalismo stoico.Nella Scuola di Pergamo così gli antichi testi greci sono letti come un'allegoria della struttura razionale del cosmo: i poemi sono l'illustrazione di qualcosa che conosciamo con la ragione e quindi sono un'allegoria.
Se quindi il problema filologico della Scuola di Alessandria tendeva a risolvere i problemi di opacità interpretativa sul piano esclusivamente linguistico, quello allegorico della scuola di Pergamo adotta una strategia semantica, volta a esplicitare un secondo significato, non evidente ma ritenuto più vero di quello letterale.Il problema si pone in termini simili, ma non identici, nel mondo ebraico-cristiano: che significato hanno i testi della Bibbia? Essi hanno sicuramente un significato religioso, ma in essi esistono anche elementi umani, storici e anch'essa è un insieme di fonti diverse che rimandano a mondi distanti.Proprio a questo Proposito merita un breve cenno la questione inerente al nesso tra Bibbia e filosofia. Con il mio professore Claudio Ciancio possiamo sostenere che la Bibbia, testo per eccellenza del mondo occidentale, sia insieme espressione di verità e ripensamento della nozione stessa di verità intesa in rapporto alla testualità.In essa si dischiude infatti il nesso tra rivelazione (divina), testo (linguistico) e interpretazione (umana).
La Bibbia, da una parte, è caratterizzata da una molteplicità di sensi (tra cui, in particolare, un senso storico-letterale e un senso spirituale, diviso a sua volta in allegorico, riguardante i misteri di Cristo e della Chiesa, tropologico, riguardante la condotta morale,e anagogico, riguardante il mistero escatologico), proprio perché è unità inseparabile di parola umana e parola divina e, dall'altra parte,essa evidenzia, nel suo essere un testo, che il linguaggio va inteso come luogo ove si deposita la verità (intesa come manifestazione divina).Più radicalmente, nella sua pretesa di verità la Bibbia sottende l'esigenza di criteri di interpretazione, alla luce dei quali poter distinguere letture corrette da letture fuorvianti, nella consapevolezza però che l'autentica comprensione della Bibbia implica sempre il coinvolgimento esistenziale, nel senso che essa parla solo a colui che ha fede e cioè al lettore che crede che in essa si condensi la rivelazione divina.Non ci si deve infine scordare che la Bibbia non va intesa solo come un oggetto di interpretazione, proprio perché essa stessa ha anche una struttura eminentemente interpretativa come emerge in particolare nel rapporto tra l'antico e il nuovo Testamento (si pensi, ad esempio, alla figura di Cristo interpretato come nuovo Adamo).Tra le diverse nozioni che la filosofia ermeneutica novecentesca apprende dall'esperienza biblica non si possono tralasciare quelle riguardanti il nesso tra verità e linguaggio e l'approccio esistenziale come metodo che permette ad un senso (segreto) di manifestarsi personalmente.Torniamo ora al mondo ebraico-cristiano. In questo quadro emerge la figura di Filone di Alessandria (I sec. d.C.), appartenente all'ambiente del giudaismo ellenizzante, che tende a dare un'interpretazione allegorica dei testi della Bibbia.
Egli afferma che ogni passo delle scritture è suscettibile di doppia interpretazione, una immediata e letterale e l'altra più nascosta e allegorica. La prima è accessibile a tutti, la seconda, più importante, è accessibile solo a costoro che sono davvero interessati alla realtà dello spirito.Nel mondo cristiano i libri del cosiddetto Antico Testamento sono letti come anticipatori della venuta di Cristo: i passi che annunciano un futuro di salvezza sono interpretati dai cristiani a partire dalla figura di Cristo che viene a perfezionare e (forse) ad abolire la legge ebraica nei suoi limiti.Nella Seconda Lettera ai Corinzi Paolo contrappone la "lettera della legge che uccide" allo "spirito vivificante": il nuovo annuncio di Gesù è un annuncio nello spirito, la legge uccide nella sua lettera perché è una proibizione che non dà nessun aiuto per compiere il bene, mentre lo spirito dà la vita perché è l'annuncio di una salvezza, di uno spirito di Dio che attraverso Gesù Cristo si fa presente agli uomini e vive nella comunità dei credenti.In questo testo di Paolo in cui si oppone la lettera allo spirito abbiamo uno dei luoghi fondamentali della genesi dell'ermeneutica, anche se nell'intenzione di Paolo non si trattava ancora di questo (intendendo egli con lettera e cioè con interpretazione letterale il formalismo farisaico di coloro che applicano la legge appunto alla lettera).In tutta la storia dell'ermeneutica ci si rifarà a questa opposizione per intenderla in senso ermeneutico: il testo ha una lettera, una forma, ma anche uno spirito, la vera intenzione e nell'interpretazione di un testo complesso la differenza fra i due può diventare molto rilevante. In altri passi Paolo parla di un velo che oscura l'Antico Testamento, un velo che solo Cristo, con la sua apparizione e le sue spiegazioni, può sollevare.
L' epoca ellenistica segue però l'età classica, che certo è l'età di Platone ( parla di ermeneutica nel "Cratilo", richiamandosi al mito di Hermes-> Mercurio, qualificato come interprete e cioè come dio della comunicazione, come colui che mette in rapporto gli dei e gli uomini. Hermes è infatti colui che, mettendo in comunicazione sensibile e sovrasensibile, esplicita messaggi reconditi, ma che facendo questo si serve in maniera impropria del potere delle parole e quindi inganna. E' infatti messaggero, ladro, ingannatore nei discorsi e commerciante. L'ermeneutica intende così assumere in Platone un aspetto svalutativo, che la pone in relazione alla poesia e alla divinazione, se non alla mistificazione), e di Aristotele ( per Aristotele, autore di un trattato intitolato "Dell'interpretazione", "ermeneutica" voleva dire "espressione" linguistica di un pensiero: questa breve opera di Aristotele si occupa infatti della struttura del linguaggio. Essa attiene quindi a esigenze di decifrazione e chiarezza di ordine logico e argomentativo, indagando la proposizione, cioè il procedimento mediante cui due termini - nome e verbo - sono legati da un'affermazione o da una negazione, in modo che siano poste in evidenza le condizioni che consentono, nel giudizio, di dare un'interpretazione corretta del mondo, di esprimere fedelmente nel discorso la realtà di cui si parla), ma ancor prima l'età dei sofisti, dell'"illuminismo greco", in cui si afferma un modello di razionalità per il quale la forma espressiva dei poemi omerici ed esiodei viene percepita come lontana, pur restando nello stesso tempo fondamentale.
Alla fine dell'età classica i Greci, che non hanno più il predominio sul loro territorio in quanto vengono dominati prima dai Macedoni e poi dai Romani, cercano di riattingere un legame con le proprie radici culturali le cui fonti non sono però più direttamente loro intelligibili: quei testi che parlano di dei e di uomini e sono la base della cultura greca sono sentiti come centrali, ma anche distanti. Si pone, così, il problema di capirli, di interpretarli.Potremmo quindi dire che una riflessione più sistematica sull'interpretazione si ha a partire dell'età ellenistica, caratterizzata dall'esigenza di rendere nuovamente attuali i testi dell'epoca classica di cui si sentiva in qualche modo la distanza o l'estraneità, dal punto di vista linguistico e culturale. Questo compito di attualizzazione è sorretto da un'ampia fioritura di studi filologici e letterari, che vedono coinvolte soprattutto le scuole di Alessandria e di Pergamo.
In primo luogo, i filologi (grammatici) della Scuola di Alessandria, centro della cultura ellenistica, compiono un lavoro di interpretazione, cercando, ad esempio, di capire se tutti i testi attribuiti ad Omero siano effettivamente suoi. Ciò è reso difficile dal fatto che non si hanno testimonianze dirette. Ci sono, infatti, nelle opere attribuite ad Omero, alcuni passi che rimandano ad un'epoca precedente, anteriori all'VIII sec. a.C.Per risolvere il problema questi eminenti grammatici analizzano anzitutto lo stile del testo e scoprono in questo modo che le parti iniziali e finali sia dell'Iliade sia dell'Odissea non sono dello stesso autore delle altre parti. Questo procedimento è tipico dell'ermeneutica: si parte dal particolare, si studia poi il rapporto con il generale e si torna quindi a dare un giudizio sul particolare.
Ad Alessandria ove si raccoglie il patrimonio letterario greco c'è, in altre parole, attenzione agli aspetti linguistici e filologici, che indirizzano il lavoro interpretativo verso l'analisi dei testi allo scopo di delucidarne il senso letterale. L'interpretazione è quasi intesa come traduzione della lingua arcaica.Accanto alla Scuola di Alessandria si sviluppa anche la Scuola di Pergamo , nell'attuale Turchia, nella quale si inaugura il metodo dell'interpretazione allegorica (allegoria significa "dire altro", dire "una cosa in un'altra forma"). Le difficoltà di comprensione dei testi antichi (soprattutto dei poemi omerici), secondo questo diverso approccio, non sono solo di ordine linguistico ma anche di ordine semantico: il significato non risulta più infatti immediatamente trasparente ad un mondo ormai profondamente mutato per sensibilità e cultura.Il metodo allegorico consiste così nel cercare significati nascosti sotto il significato letterale, allo scopo di rendere compatibili i racconti mitici e poetici con la nuova sensibilità etica, influenzata dal razionalismo stoico.Nella Scuola di Pergamo così gli antichi testi greci sono letti come un'allegoria della struttura razionale del cosmo: i poemi sono l'illustrazione di qualcosa che conosciamo con la ragione e quindi sono un'allegoria.
Se quindi il problema filologico della Scuola di Alessandria tendeva a risolvere i problemi di opacità interpretativa sul piano esclusivamente linguistico, quello allegorico della scuola di Pergamo adotta una strategia semantica, volta a esplicitare un secondo significato, non evidente ma ritenuto più vero di quello letterale.Il problema si pone in termini simili, ma non identici, nel mondo ebraico-cristiano: che significato hanno i testi della Bibbia? Essi hanno sicuramente un significato religioso, ma in essi esistono anche elementi umani, storici e anch'essa è un insieme di fonti diverse che rimandano a mondi distanti.Proprio a questo Proposito merita un breve cenno la questione inerente al nesso tra Bibbia e filosofia. Con il mio professore Claudio Ciancio possiamo sostenere che la Bibbia, testo per eccellenza del mondo occidentale, sia insieme espressione di verità e ripensamento della nozione stessa di verità intesa in rapporto alla testualità.In essa si dischiude infatti il nesso tra rivelazione (divina), testo (linguistico) e interpretazione (umana).
La Bibbia, da una parte, è caratterizzata da una molteplicità di sensi (tra cui, in particolare, un senso storico-letterale e un senso spirituale, diviso a sua volta in allegorico, riguardante i misteri di Cristo e della Chiesa, tropologico, riguardante la condotta morale,e anagogico, riguardante il mistero escatologico), proprio perché è unità inseparabile di parola umana e parola divina e, dall'altra parte,essa evidenzia, nel suo essere un testo, che il linguaggio va inteso come luogo ove si deposita la verità (intesa come manifestazione divina).Più radicalmente, nella sua pretesa di verità la Bibbia sottende l'esigenza di criteri di interpretazione, alla luce dei quali poter distinguere letture corrette da letture fuorvianti, nella consapevolezza però che l'autentica comprensione della Bibbia implica sempre il coinvolgimento esistenziale, nel senso che essa parla solo a colui che ha fede e cioè al lettore che crede che in essa si condensi la rivelazione divina.Non ci si deve infine scordare che la Bibbia non va intesa solo come un oggetto di interpretazione, proprio perché essa stessa ha anche una struttura eminentemente interpretativa come emerge in particolare nel rapporto tra l'antico e il nuovo Testamento (si pensi, ad esempio, alla figura di Cristo interpretato come nuovo Adamo).Tra le diverse nozioni che la filosofia ermeneutica novecentesca apprende dall'esperienza biblica non si possono tralasciare quelle riguardanti il nesso tra verità e linguaggio e l'approccio esistenziale come metodo che permette ad un senso (segreto) di manifestarsi personalmente.Torniamo ora al mondo ebraico-cristiano. In questo quadro emerge la figura di Filone di Alessandria (I sec. d.C.), appartenente all'ambiente del giudaismo ellenizzante, che tende a dare un'interpretazione allegorica dei testi della Bibbia.
Egli afferma che ogni passo delle scritture è suscettibile di doppia interpretazione, una immediata e letterale e l'altra più nascosta e allegorica. La prima è accessibile a tutti, la seconda, più importante, è accessibile solo a costoro che sono davvero interessati alla realtà dello spirito.Nel mondo cristiano i libri del cosiddetto Antico Testamento sono letti come anticipatori della venuta di Cristo: i passi che annunciano un futuro di salvezza sono interpretati dai cristiani a partire dalla figura di Cristo che viene a perfezionare e (forse) ad abolire la legge ebraica nei suoi limiti.Nella Seconda Lettera ai Corinzi Paolo contrappone la "lettera della legge che uccide" allo "spirito vivificante": il nuovo annuncio di Gesù è un annuncio nello spirito, la legge uccide nella sua lettera perché è una proibizione che non dà nessun aiuto per compiere il bene, mentre lo spirito dà la vita perché è l'annuncio di una salvezza, di uno spirito di Dio che attraverso Gesù Cristo si fa presente agli uomini e vive nella comunità dei credenti.In questo testo di Paolo in cui si oppone la lettera allo spirito abbiamo uno dei luoghi fondamentali della genesi dell'ermeneutica, anche se nell'intenzione di Paolo non si trattava ancora di questo (intendendo egli con lettera e cioè con interpretazione letterale il formalismo farisaico di coloro che applicano la legge appunto alla lettera).In tutta la storia dell'ermeneutica ci si rifarà a questa opposizione per intenderla in senso ermeneutico: il testo ha una lettera, una forma, ma anche uno spirito, la vera intenzione e nell'interpretazione di un testo complesso la differenza fra i due può diventare molto rilevante. In altri passi Paolo parla di un velo che oscura l'Antico Testamento, un velo che solo Cristo, con la sua apparizione e le sue spiegazioni, può sollevare.
Se torniamo al mondo ellenistico, ma in ambito cristiano, vediamo che si sviluppano in forma più tecnica alcune teorie per interpretare il testo sacro. In questo contesto, ad Alessandria, ha una particolare rilevanza Origene (II-III sec. d.C.), una delle figure più importanti nello sviluppo del pensiero cristiano. A suo avviso, la Bibbia può essere letta seguendo tre significati (si passa quindi, come si vede, da uno schema bipartito come quello di Filone ad un approccio tripartito): uno "materiale o letterale" che vedono tutti, uno "psichico" che è colto da chi si è incamminato a porsi i problemi che conducono all'annuncio cristiano e uno "spirituale", visto soltanto dai perfetti, coloro che sono giunti a una maturazione compiuta della loro fede.Al di là delle convinzioni in questo caso cristiane di Origene, questa indicazione è significativa per cogliere come ci sia una circolarità tra il lettore e il testo: non tutti i significati del testo possono essere colti da tutti, ma variano a seconda delle capacità e della maturazione di ciascuno.
Quindi, per questa fase del cristianesimo, possiamo dire che si riprende il tema allegorico dei Greci, ma con la differenza per cui non si dà più una struttura razionale e statica del cosmo, ma vi si sostituisce una storia di salvezza, una dinamica intessuta nel racconto. Da una parte, abbiamo una civiltà (quella greca), che dà poca importanza alla dimensione storica e tende quindi a un'interpretazione razionale di un cosmo che nel suo ordine è sempre uguale, dall'altra, abbiamo una civiltà (quella ebraico-cristiana), che vede nella storia la dimensione fondamentale in cui si dipana l'esperienza dell'uomo, il suo rapporto con Dio e la salvezza.Nel IV secolo si sviluppa poi tra i padri d'oriente e in particolare ad Antiochia l'esigenza di porre dei limiti all'interpretazione allegorica alessandrina. Gli esegeti di Antiochia non negano ma limitano l'interpretazione allegorica, considerando più attentamente l'elemento storico e quello linguistico-grammaticale presenti sia nell'antico sia nel nuovo Testamento.
Tra i padri d'occidente un posto particolare spetta naturalmente ad Agostino che riflette sul fatto che il senso fondamentale del cristianesimo è di essere una manifestazione, un'incarnazione. Come dice il Prologo del quarto Vangelo infatti è il Verbo, il "logos", che si fa carne: la sapienza di Dio che si rende presente è quindi una comunicazione che si fa carne.Da questo carattere comunicativo del Cristianesimo, esso ha a che fare, alle sue radici, con l'ermeneutica: per Heidegger infatti la prima ermeneutica in ambito cristiano è quella di Agostino. In lui assistiamo alla trasposizione su un piano linguistico dello schema teologico dell'incarnazione e della trinità: la produzione della parola concreta o "verbo esteriore" è paragonabile infatti, a suo modo di vedere, all'incarnazione del Figlio di Dio, è cioè il "farsi carne" della Parola.Comprendere è comprendere il "verbo interiore" che è manifestato ma pur sempre distinto dal verbo esteriore.La corretta comprensione del testo sacro deve essere guidata dallo stesso atteggiamento che si ha nei confronti del Cristo, che per fede è riconosciuto Figlio di Dio: essa non può prescindere dalla corretta disposizione dell'esegeta, ispirata a fede, speranza e soprattutto carità. Come sostiene il De doctrina christiana il testo è compreso correttamente se l'esegeta è infatti caritativamente disposto nei suoi confronti e se il suo effetto è quello di confermare e incrementare l'amore di Dio (questo principio è il principio di benevolenza interpretativa che la moderna filosofia del linguaggio chiama principio di carità).
Come si vede, si tratta quindi di un principio non metodico ma esistenziale, con cui Agostino cerca di limitare il proliferare delle interpretazioni figurali (del resto necessarie dove il senso letterale sia palesemente oscuro).Nel Medioevo poi non si ha una percezione particolarmente accentuata del senso della distanza: nella Divina Commedia, ad esempio, personaggi appartenenti a epoche diverse sono tutti presenti in questo mondo dell'aldilà senza che ci si curi della distanza temporale; tutto si colloca nell'orizzonte di un mondo creato da Dio.Il problema dell'ermeneutica non è così vivo nel Medioevo, anche se vengono sviluppati e sistematizzati - in modi diversi, ad esempio, da Bonaventura e Tommaso - aspetti che riguardano i sensi della Scrittura (letterale, allegorico, morale, anagogico), ma, anche in questo caso, senza il senso della distanza dai testi.
Quindi, per questa fase del cristianesimo, possiamo dire che si riprende il tema allegorico dei Greci, ma con la differenza per cui non si dà più una struttura razionale e statica del cosmo, ma vi si sostituisce una storia di salvezza, una dinamica intessuta nel racconto. Da una parte, abbiamo una civiltà (quella greca), che dà poca importanza alla dimensione storica e tende quindi a un'interpretazione razionale di un cosmo che nel suo ordine è sempre uguale, dall'altra, abbiamo una civiltà (quella ebraico-cristiana), che vede nella storia la dimensione fondamentale in cui si dipana l'esperienza dell'uomo, il suo rapporto con Dio e la salvezza.Nel IV secolo si sviluppa poi tra i padri d'oriente e in particolare ad Antiochia l'esigenza di porre dei limiti all'interpretazione allegorica alessandrina. Gli esegeti di Antiochia non negano ma limitano l'interpretazione allegorica, considerando più attentamente l'elemento storico e quello linguistico-grammaticale presenti sia nell'antico sia nel nuovo Testamento.
Tra i padri d'occidente un posto particolare spetta naturalmente ad Agostino che riflette sul fatto che il senso fondamentale del cristianesimo è di essere una manifestazione, un'incarnazione. Come dice il Prologo del quarto Vangelo infatti è il Verbo, il "logos", che si fa carne: la sapienza di Dio che si rende presente è quindi una comunicazione che si fa carne.Da questo carattere comunicativo del Cristianesimo, esso ha a che fare, alle sue radici, con l'ermeneutica: per Heidegger infatti la prima ermeneutica in ambito cristiano è quella di Agostino. In lui assistiamo alla trasposizione su un piano linguistico dello schema teologico dell'incarnazione e della trinità: la produzione della parola concreta o "verbo esteriore" è paragonabile infatti, a suo modo di vedere, all'incarnazione del Figlio di Dio, è cioè il "farsi carne" della Parola.Comprendere è comprendere il "verbo interiore" che è manifestato ma pur sempre distinto dal verbo esteriore.La corretta comprensione del testo sacro deve essere guidata dallo stesso atteggiamento che si ha nei confronti del Cristo, che per fede è riconosciuto Figlio di Dio: essa non può prescindere dalla corretta disposizione dell'esegeta, ispirata a fede, speranza e soprattutto carità. Come sostiene il De doctrina christiana il testo è compreso correttamente se l'esegeta è infatti caritativamente disposto nei suoi confronti e se il suo effetto è quello di confermare e incrementare l'amore di Dio (questo principio è il principio di benevolenza interpretativa che la moderna filosofia del linguaggio chiama principio di carità).
Come si vede, si tratta quindi di un principio non metodico ma esistenziale, con cui Agostino cerca di limitare il proliferare delle interpretazioni figurali (del resto necessarie dove il senso letterale sia palesemente oscuro).Nel Medioevo poi non si ha una percezione particolarmente accentuata del senso della distanza: nella Divina Commedia, ad esempio, personaggi appartenenti a epoche diverse sono tutti presenti in questo mondo dell'aldilà senza che ci si curi della distanza temporale; tutto si colloca nell'orizzonte di un mondo creato da Dio.Il problema dell'ermeneutica non è così vivo nel Medioevo, anche se vengono sviluppati e sistematizzati - in modi diversi, ad esempio, da Bonaventura e Tommaso - aspetti che riguardano i sensi della Scrittura (letterale, allegorico, morale, anagogico), ma, anche in questo caso, senza il senso della distanza dai testi.