L’anima (Perì psychès; sec.IV a. C.)
L’opera, articolata in tre libri, ha per oggetto lo studio dell’anima e delle sue funzioni. Si presenta come una sorta di trattato di “psicologia” (sapere che interessa sia l’ambito teoretico sia quello pratico, ma appartiene alla biologia in quanto parte della fisica), il cui valore e utilità Aristotele illustra in apertura dell’opera.
Al fine di rinvenirne i “principi propri” Aristotele pone alcune questioni di metodo, elencando le otto aporie da risolvere nello sviluppo della trattazione: 1) l’anima è sostanza o accidente? 2) è atto o potenza? 3) è divisibile o priva di parti? 4) è di definizione univoca o equivoca? 5) deve precedente lo studio dell’anima o quello delle sue facoltà? 6) e quali sono tali facoltà? 7) deve precedere lo studio della facoltà o delle funzioni? 8) delle funzioni o dei loro oggetti?
In psicologia, dice Aristotele, vi è convergenza fra il metodo diairetico e quello induttivo; la ricerca sarà guidata dall’interiorità logica e gnoseologica dell’atto sulla potenza. Inoltre trova qui formulazione il problema se esista o meno una facoltà dell’anima (l’intelletto) indipendente dal corpo; n questo senso l’indagine fisica coinvolge anche la filosofia prima o metafisica.
Aristotele tratta poi le opinioni (doxai) dei filosofi precedenti, e insiste sulla natura sostanziale e incorruttibile dell’intelletto: in quanto è forma dell’uomo, esso non si corrompe, ma è qualcosa di divino. Ciò non significa negare l’unità dell’anima, che non può infatti essere divisa in parti del corpo (I, 2-5). Nella ricerca di una definizione universale di anima, dapprima attraverso alcune formule parziali (che presentano l’anima come forma o entelechia prima d’un corpo naturale che ha la vita in potenza, o che è dotato di organi), si giunge alla definizione di anima come forma del corpo organico.
Paragonando l’anima al “pilota”, Aristotele aggiunge che essa funge anche da principio motore e produttivo del vivente , e ricerca una definizione che possa rendere ragione del “perchè”: “l’anima è la causa primaria in virtù della quale noi viviamo, pensiamo e percepiamo”. In quanto forma del corpo, le è strettamente unita; solo l’intelletto- si è visto- pone il problema di una possibile esistenza separata (II, 1-2).
Il cap. II, 3 riguarda il rapporto fra anime e facoltà diverse. Nutrirsi, svilupparsi e riprodursi sono facoltà comuni a tutti i viventi; sentire, immaginare e appetire sono proprie degli animali, alcuni dei quali possono anche muoversi localmente; pensare (la facoltà razionale) è invece possesso esclusivo dell’uomo. Dunque una definizione universale dell’anima è possibile, ma, come nel caso di una definizione comune a tutte le figure geometriche, essa non sarà propria di nessuna in particolare. Viene poi illustrata la facoltà vegetativa, che spiega i fenomeni della nutrizione (assimilazione dell’alimento), dello sviluppo e della riproduzione (conservazione della forma nella specie) (capp. II, 4-6). Aristotele insiste qui sulla triplice causalità dell’anima: è causa formale; è fine dell’organismo vivente; ne è causa del moto locale e dei mutamenti quantitativi. Qui indaga la facoltà sensitiva, del senso in atto e in potenza, attraverso la nozione di alterazione come attuazione e incremento (distingue l’atto come alteratio perfectiva dalla passione come alteratio corruptiva); la sensazione in atto tuttavia differisce dall’esercizio della scienza, che ha per oggetto non il singolare sensibile, bensì gli universali. La facoltà sensitiva è in potenza ciò che il sensibile è già in entelechia. In seguito vengono distinti i tipi sensibili: sensibili per sè e sensibili per accidente. I primi si articolano a loro volta in sensibili propri (il colore lo è per la vista, l’udito per il suono), che non ingannano mai giacché i sensi li percepiscono “per natura”, e sensibili comuni (movimento, quiete, grandezza, figura), percepiti da tutti i sensi. Un esempio di sensibile per accidente è invece che un certo individuo bianco (sensibile proprio) sia anche figlio di Diare (accidentale).
I capp. II, 7-12 trattano i tre sensi a distanza (vista, udito e olfatto) e il loro mezzo. Il senso per contatto per eccellenza è il tatto; il gusto è una sua specie. Il mezzo di questi due sensi è la carne ( nel caso del gusto, la lingua) dell’animale che percepisce, il loro organo è localizzato nella regione cardiaca, e assimila a sé le diverse qualità tangibili dei corpi. Il senso è ricettivo della forma sensibile senza la materia, al modo in cui la cera accoglie l’impronta dell’anello sotto il ferro. Però la percezione è una ricezione non semplicemente passiva dell’oggetto. La facoltà sensitiva è localizzata nel sensorio primo (il cuore). L’organo sensorio è un’entità corporea, diversa per essenza dalla facoltà corrispondente (che è una forma). Ecco perché gli eccessi sensibili distraggono i sensori.
I primi capitoli del libro III sono dedicati alle funzioni percettive superiori: la sufficienza dei cinque sensi e del sensorio comune; nonchè del “sentire di sentire”; il rapporto fra senso e pensiero; l’immaginazione. Questa, pur non esistendo priva sensazione senza tuttavia essere la sensazione stessa (come provano i sogni), è diversa dal pensiero; non è scienza nè intelletto (giacchè ammette l’errore), né semplice opinione. Inoltre (contro Platone) non è un accordo tra opinione e sensazione: possono infatti ben esserci contemporaneamente falsa apparenza e opinione vera (il sole sembra grande come un piede, ma ciò non è la nostra opinione). Phantasìa sembra dunque essere un movimento-mutamento dell’essere sensitivo conseguente alla percezione in atto, e simile a questa. L’immaginazione conseguente ai sensibili propri è vera; quella conseguente ai sensibile comuni o per accidente può essere falsa. (1-3)
I capp. III, 4-5 trattano l’intelletto e le sue operazioni fondamentali (il pensiero). Si devono distinguere nell’anima umana due intelletti, quello in potenza (dy’natos, che “diviene” e conosce tutti gli intelligibili), e quello in atto (poietikos) che li produce tutti, come la luce attualizza i colori in potenza (430 a 10-26). L’intelletto in atto è “separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto per essenza, poichè sempre ciò che fa è superiore alla materia (...) E questo solo è immortale ed eterno (ma non ricordiamo, perché questo intelletto è impassibile, mentre l’intelletto passivo è corruttibile), e senza questo non c’è nulla che pensi.”
Le due attività dell’intelletto conoscitivo sono oggetto del cap.6: l’apprensione degli indivisibili, ossia l’intellezione delle essenze di sostanze e accidenti, e la loro composizione (unione in un giudizio). La predicazione (giudizio) può essere vera o falsa; l’intellezione delle essenze è invece sempre vera.
I cap.7-8 contengono questioni ancora relative alla conoscenza e alle sue facoltà, nonché al rapporto fra conoscere e agire. L’anima è, in qualche modo, “tutte le cose”: nella forma, sapere e sensazione si identificano con i propri oggetti.
Aristotele tratta poi della facoltà locomotoria degli animali; specifica la natura della òrexis o facoltà appetitiva (l’animale può muoversi in quanto desidera e ha immaginazione), e il suo rapporto col movimento; di seguito analizza il comportamento temperante (quando la volontà razionale prevale sul desiderio) e quello intemperante ( nel caso contrario) dell’uomo. Infine riprende l’analisi delle facoltà dell’anima e in particolare della percezione, mostrandone l’orientamento finalistico per il “bene”, ossia la medietà, e il rifiuto dell’accesso distruttivo (III, 9-13).
L’opera, soprattutto per quanto concerne la questione dell’immortalità dell’anima (se si possa o meno parlare di immortalità dell’anima individuale), è stata per secoli al centro del dibattito filosofico a partire da Alessandro di Afrodisia, soprattutto grazie ai commenti arabi, medievali e rinascimentali (Pomponazzi).
Al fine di rinvenirne i “principi propri” Aristotele pone alcune questioni di metodo, elencando le otto aporie da risolvere nello sviluppo della trattazione: 1) l’anima è sostanza o accidente? 2) è atto o potenza? 3) è divisibile o priva di parti? 4) è di definizione univoca o equivoca? 5) deve precedente lo studio dell’anima o quello delle sue facoltà? 6) e quali sono tali facoltà? 7) deve precedere lo studio della facoltà o delle funzioni? 8) delle funzioni o dei loro oggetti?
In psicologia, dice Aristotele, vi è convergenza fra il metodo diairetico e quello induttivo; la ricerca sarà guidata dall’interiorità logica e gnoseologica dell’atto sulla potenza. Inoltre trova qui formulazione il problema se esista o meno una facoltà dell’anima (l’intelletto) indipendente dal corpo; n questo senso l’indagine fisica coinvolge anche la filosofia prima o metafisica.
Aristotele tratta poi le opinioni (doxai) dei filosofi precedenti, e insiste sulla natura sostanziale e incorruttibile dell’intelletto: in quanto è forma dell’uomo, esso non si corrompe, ma è qualcosa di divino. Ciò non significa negare l’unità dell’anima, che non può infatti essere divisa in parti del corpo (I, 2-5). Nella ricerca di una definizione universale di anima, dapprima attraverso alcune formule parziali (che presentano l’anima come forma o entelechia prima d’un corpo naturale che ha la vita in potenza, o che è dotato di organi), si giunge alla definizione di anima come forma del corpo organico.
Paragonando l’anima al “pilota”, Aristotele aggiunge che essa funge anche da principio motore e produttivo del vivente , e ricerca una definizione che possa rendere ragione del “perchè”: “l’anima è la causa primaria in virtù della quale noi viviamo, pensiamo e percepiamo”. In quanto forma del corpo, le è strettamente unita; solo l’intelletto- si è visto- pone il problema di una possibile esistenza separata (II, 1-2).
Il cap. II, 3 riguarda il rapporto fra anime e facoltà diverse. Nutrirsi, svilupparsi e riprodursi sono facoltà comuni a tutti i viventi; sentire, immaginare e appetire sono proprie degli animali, alcuni dei quali possono anche muoversi localmente; pensare (la facoltà razionale) è invece possesso esclusivo dell’uomo. Dunque una definizione universale dell’anima è possibile, ma, come nel caso di una definizione comune a tutte le figure geometriche, essa non sarà propria di nessuna in particolare. Viene poi illustrata la facoltà vegetativa, che spiega i fenomeni della nutrizione (assimilazione dell’alimento), dello sviluppo e della riproduzione (conservazione della forma nella specie) (capp. II, 4-6). Aristotele insiste qui sulla triplice causalità dell’anima: è causa formale; è fine dell’organismo vivente; ne è causa del moto locale e dei mutamenti quantitativi. Qui indaga la facoltà sensitiva, del senso in atto e in potenza, attraverso la nozione di alterazione come attuazione e incremento (distingue l’atto come alteratio perfectiva dalla passione come alteratio corruptiva); la sensazione in atto tuttavia differisce dall’esercizio della scienza, che ha per oggetto non il singolare sensibile, bensì gli universali. La facoltà sensitiva è in potenza ciò che il sensibile è già in entelechia. In seguito vengono distinti i tipi sensibili: sensibili per sè e sensibili per accidente. I primi si articolano a loro volta in sensibili propri (il colore lo è per la vista, l’udito per il suono), che non ingannano mai giacché i sensi li percepiscono “per natura”, e sensibili comuni (movimento, quiete, grandezza, figura), percepiti da tutti i sensi. Un esempio di sensibile per accidente è invece che un certo individuo bianco (sensibile proprio) sia anche figlio di Diare (accidentale).
I capp. II, 7-12 trattano i tre sensi a distanza (vista, udito e olfatto) e il loro mezzo. Il senso per contatto per eccellenza è il tatto; il gusto è una sua specie. Il mezzo di questi due sensi è la carne ( nel caso del gusto, la lingua) dell’animale che percepisce, il loro organo è localizzato nella regione cardiaca, e assimila a sé le diverse qualità tangibili dei corpi. Il senso è ricettivo della forma sensibile senza la materia, al modo in cui la cera accoglie l’impronta dell’anello sotto il ferro. Però la percezione è una ricezione non semplicemente passiva dell’oggetto. La facoltà sensitiva è localizzata nel sensorio primo (il cuore). L’organo sensorio è un’entità corporea, diversa per essenza dalla facoltà corrispondente (che è una forma). Ecco perché gli eccessi sensibili distraggono i sensori.
I primi capitoli del libro III sono dedicati alle funzioni percettive superiori: la sufficienza dei cinque sensi e del sensorio comune; nonchè del “sentire di sentire”; il rapporto fra senso e pensiero; l’immaginazione. Questa, pur non esistendo priva sensazione senza tuttavia essere la sensazione stessa (come provano i sogni), è diversa dal pensiero; non è scienza nè intelletto (giacchè ammette l’errore), né semplice opinione. Inoltre (contro Platone) non è un accordo tra opinione e sensazione: possono infatti ben esserci contemporaneamente falsa apparenza e opinione vera (il sole sembra grande come un piede, ma ciò non è la nostra opinione). Phantasìa sembra dunque essere un movimento-mutamento dell’essere sensitivo conseguente alla percezione in atto, e simile a questa. L’immaginazione conseguente ai sensibili propri è vera; quella conseguente ai sensibile comuni o per accidente può essere falsa. (1-3)
I capp. III, 4-5 trattano l’intelletto e le sue operazioni fondamentali (il pensiero). Si devono distinguere nell’anima umana due intelletti, quello in potenza (dy’natos, che “diviene” e conosce tutti gli intelligibili), e quello in atto (poietikos) che li produce tutti, come la luce attualizza i colori in potenza (430 a 10-26). L’intelletto in atto è “separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto per essenza, poichè sempre ciò che fa è superiore alla materia (...) E questo solo è immortale ed eterno (ma non ricordiamo, perché questo intelletto è impassibile, mentre l’intelletto passivo è corruttibile), e senza questo non c’è nulla che pensi.”
Le due attività dell’intelletto conoscitivo sono oggetto del cap.6: l’apprensione degli indivisibili, ossia l’intellezione delle essenze di sostanze e accidenti, e la loro composizione (unione in un giudizio). La predicazione (giudizio) può essere vera o falsa; l’intellezione delle essenze è invece sempre vera.
I cap.7-8 contengono questioni ancora relative alla conoscenza e alle sue facoltà, nonché al rapporto fra conoscere e agire. L’anima è, in qualche modo, “tutte le cose”: nella forma, sapere e sensazione si identificano con i propri oggetti.
Aristotele tratta poi della facoltà locomotoria degli animali; specifica la natura della òrexis o facoltà appetitiva (l’animale può muoversi in quanto desidera e ha immaginazione), e il suo rapporto col movimento; di seguito analizza il comportamento temperante (quando la volontà razionale prevale sul desiderio) e quello intemperante ( nel caso contrario) dell’uomo. Infine riprende l’analisi delle facoltà dell’anima e in particolare della percezione, mostrandone l’orientamento finalistico per il “bene”, ossia la medietà, e il rifiuto dell’accesso distruttivo (III, 9-13).
L’opera, soprattutto per quanto concerne la questione dell’immortalità dell’anima (se si possa o meno parlare di immortalità dell’anima individuale), è stata per secoli al centro del dibattito filosofico a partire da Alessandro di Afrodisia, soprattutto grazie ai commenti arabi, medievali e rinascimentali (Pomponazzi).