L'etica aristotelica
L'Etica a Nicomaco è un'opera di Aristotele originariamente non destinata alla pubblicazione, ma si tratta di una redazione di appunti e frammenti. All'interno del testo, quindi, si può cogliere uno sviluppo progressivo del pensiero, e si possono trovare prospettive e motivi tra loro differenti, in alcuni casi anche contraddittori, che talvolta esigono una presa di posizione, una scelta da parte dell'interprete. Si discute sia riguardo l'attribuzione, sia riguardo la datazione del testo. Si tende a pensare che sia autenticamente aristotelica e che sia stata composta tra il 335 a.C. e il 321 a.C. (nel periodo che va dalla fondazione del Liceo alla morte di Aristotele). E' incerto chi fosse realmente Nicomaco: si pensa possa essere o il padre o il figlio di Aristotele. L'Etica a Nicomaco è la più lunga delle tre etiche (dieci libri), segue l'Etica eudemia (otto libri) e la Grande etica (due libri) Tre libri sono comuni all'Etica a Nicomaco e all'Etica eudemia (V-VI-VII dell'Etica a Nicomaco), questo indica che si è raccolto lo stesso materiale. Tra le tre etiche, ma anche all'interno di una singola etica, si trova, quindi sia un'unità di fondo, sia evoluzione del pensiero.
E' il modello classico di etica e tra gli autori da noi considerati si avvicina, per certi versi, all'etica materiale di Scheler, mentre è opposta all'etica formale di Kant.
Progetto aristotelico di un'etica
1. L'etica aristotelica non è solo riflessione teorica sui principi morali (es. bene, dovere, responsabilità, ecc..), ma è una teoria più ampia sulla vita. La questione centrale dell'etica aristotelica è "Come è degno che si viva?". Si occupa, quindi, degli aspetti pratici della vita umana (cfr. distinzione aristotelica di teoretico e pratico). Il concetto centrale non è quello di dovere (come ad esempio nell'etica kantiana), ma quello di virtù (aretè); ci si propone di individuare il modello di vita virtuosa a cui tendere (in italiano virtù significa anche capacità, effetti, ad esempio le virtù curative di una farmaco).
2. Gli aspetti pratici sono la vita politica e sociale. La questione dell'etica si pone, quindi, all'interno della politica. Non c'è riferimento all'individuo in quanto soggetto morale (come nelle etiche moderne e contemporanee), ma il soggetto dell'etica è la comunità (cfr. oikos=casa) e il suo ordinamento sociale. A differenza delle etiche moderne, che si pongono in rottura con la tradizione, l'etica aristotelica rimane in sostanziale continuità con essa. Si interroga su quali abitudini, opinioni e costumi, tra quelli storicamente consolidatisi secondo un ordine contingente, siano funzionali a un buon ordinamento sociale e quali, invece, siano nocivi ad esso.
3. Confronto con Platone (Repubblica). Platone inserisce un parallelismo tra la tripartizione dell'animo umana (concupiscibile-> desideri-bisogni; irascibile -> coraggio; razionale -> nous-intelligenza) con l'ordinamento dello stato: artigiani, soldati, re-filosofi. Si tratta di un ordine oggettivo, puramente ideale; è un ordine immutabile, preesistente agli uomini, a cui gli uomini devono conformarsi, realizzandolo almeno in parte.
In Aristotele si ha l'opposto: non esiste alcun ordine immutabile, ma ogni cosa è contingente, storicamente determinata, quindi mutevole e, soprattutto, perfezionabile. Si occupa degli aspetti mutevoli della vita, fornendone un criterio di orientamento.
In ultima istanza il pensiero etico di Platone risulta una cosmologia, piuttosto che un'etica in senso proprio. Invece Aristotele non guarda all'ideale, ma al reale; non si dà un principio generale assoluto, ma ambiti particolari che richiedono comportamenti differenti.
4. In Platone è centrale il concetto di armonia (es. la simmetria di forme nella sua teoria atomica). Si tratta di un pensiero puramente concettuale, senza alcun riscontro empirico e valido relativamente a oggetti poco complessi. Tuttavia tale concetto viene esteso alla concezione dello stato, come armonizzazione delle parti.
5. "Il bene è ciò a cui tutto tende".
Fin dall'inizio emerge nell'etica la profonda unità dell'aspetto teorico e di quello pratico. Nella questione del bene ne va tanto dell'azione (praxsis), quanto della scelta (prohairesis) di compierla; tanto dell'arte (techne) intesa come produzione, quanto del metodo (methodos) per esercitare l'arte.
"Il bene è ciò a cui tutto tende". Aristotele è ironico quando dice che questa è la definizione che comunemente si dà del bene; infatti Platone non lo definisce in questo modo, ma come kalon agathon (unione di bellezza e bene), cioè come armonia, bellezza buona di ordine divina. Quella di Platone è una definizione oggettiva di bene. Invece in Aristotele non si dà alcuna definizione del bene in sé, ma esso è definito sempre in relazione alla situazione concreta della vita; la domanda sul bene è sempre connessa ai nostri desideri, alle nostre aspirazioni e ai nostri bisogni.
Sulla base di questa differenziazione si possono individuare due semantiche morali:
1. l'imperativo morale (il dovere) con i concetti di legge e giustizia
2. il desiderio (il volere), che fine conto delle nostre aspirazioni, pulsioni e bisogni.
Il concetto aristotelico di bene si inserisce in questa seconda semantica morale. Il bene non è un principio assoluto, già dato in partenza a cui l'uomo deve commisurarsi, ma è ciò che deriva dalla nostra condotta nella situazione concreta, ciò che emerge naturalmente dalla vita.
La questione dell'etica non riguarda il dovere, il dover essere, ma ciò che è bene volere. (bene è diverso da giusto. cfr. Kant, rientrando nella semantica dell'imperativo, parla di giusto, di legislazione, non di bene).
Logos: non principio o ragione, ma occorre recuperare il significato di proporzione, armonia, ordine (cfr. latino ratio). Il bene non è tutto ciò a cui noi tendiamo, ma è il fine che unifica in maniera migliore, cioè che armonizza, i nostri desideri e bisogni. Saggezza (phronesis)= capacità di armonizzare.
Importanza dellìattività pratica. Nella questione del bene non si può prescindere dal valutare l'appropriatezza dell'azione rispetto alla situazione; bene=sapere come agire bene. E' importante, quindi, conoscere il contesto dell'azione, anche facendo riferimento ad altri saperi; in questo senso l'etica ha comunanza con le arti (arte=techne), è una scienza pratica, cioè una produzione che richiede conoscenza; agire bene è una competenza, non un sapere previo, ma una conoscenza che si acquisisce solo agendo.
Virtù (aretè): capacità di trovare il giusto mezzo per raggiungere il fine. Il mezzo non è tale solo in senso strumentale, ma ci permette di realizzare, e quindi di comprendere, il fine. Il bene diventa l'unione di azione appropriata e fine buono. L'etica dell'imperativo non considera i mezzi, ma solo i fini, Aristotele, invece, connette mezzi e fini.
Quale criterio per giudicare il fine buono? Esistono fini in sé e fini che sono mezzi per altri fini. Essere fine in sé però non è criterio sufficiente per giudicare la bontà del fine (esistono fini in sé che tuttavia non sono fini alti). Allora Aristotele distingue tra ciò che è bene per il singolo e ciò che è bene per lo Stato. Si tratta di una differenza non quantitativa, ma qualitativa: lo Stato è superiore al singolo perché è autosufficiente (autarkeia= non avere bisogno di altri, è diverso da autonomia=autolegislazione).
Il singolo non è autossuficiente, la relazione gli è essenziale. Lo stato è il bene più alto, perché, in quanto autosufficiente, può garantire il benessere, l'armonizzazione di ogni singolo cittadino (cittadini però non sono gli schiavi, le donne e i bambini, anche se verso di essi è possibile il legame di amicizia- philia).
Precisazione: nell'etica aristotelica non si può parlare di relativismo, ma di relazione alla situazione. E' forzando la lingua-relata, ma no relativa.
Typos: non contorno, cornice ma esempio. Si danno due esempi di definizioni:
1. Per criterio (concetto):distinzioni nette tra gli oggetti, che mirano a vedere a quale categoria concettuale appartengono.
2. Per esempi: non si danno distinzioni nette, ma si descrive tipologicamente l'oggetto per definirlo. Questo permette maggiore elasticità, ci si occupa anche di ciò che sta in mezzo a distinzioni concettuali nette (ad esempio una risposta evasiva è una bugia?). Noiose di paradigma (paradeigma): struttura tipologica che regola casi concreti, non è regola eterna e assoluta (cfr. Kuhn: anche la scienza procede per paradigmi).
Il procedere per esempi relativi a casi concreti è elemento costitutivo del metodo aristotelico. L'etica è ambito pratico, non può -e non deve!- essere ridotta a conoscenza teorica astratta e formale; necessità di un sapere pratico, non astratto, che si realizza nell'azione. Per questo motivo nell'etica non si può procedere per distinzioni concettuali, ma per esempi. La ragione filosofica, non è per suo difetto intrinseco, ma per aderenza alla situazione, non può pretendere in ogni ambito lo stesso grado di esattezza (di astrazione). Non in tutte le situazioni, quindi, possono essere applicati gli stessi principi, non in tutte le situazioni desideriamo le stesse cose. La situazione stessa è in continua evoluzione verso direzioni che non possiamo dominare e anche la nostra azione concorre al mutamento della situazione. In questo contesto dinamico, non serve una conoscenza teorica, ma una conoscenza pratica e acquisita praticamente.
Eudemonia: felicità La difficoltà di rendere, nella traduzione, la sua ampiezza di significato indica che si tratta di un concetto multiforme: il bene e la felicità si presentano in forme differenti rispetto alla situazione, al contesto.
Bios (vita): non è la vita in senso biologico (zoè), ma vita che contiene in sé la propria ragion d'essere, il proprio senso, vita come pienezza di essere. Cosa definisce una vita buona? Cosa ha senso in sé? Aristotele individua diversi modelli di vita a cui corrispondono nozioni differenti di ben e felicità (Platone-> definizione oggettiva di ben; Aristotele-> definizione contestuale di bene )
vita politica
vita contemplativa-teoretica
vita dedita al piacere
vita per la ricerca del denaro
Solo i primi due modelli di vita sono propri della natura umana, in quanto hanno che fare con la razionalità (la vita dedita al piacere non caratterizza la natura umana, è propria anche degli animali; la vita per il denaro non è fine in sé, in quanto il denaro è sempre mezzo per altri fini). La realizzazione di questi due primi modelli è fine in sé e, in tale senso, in essi di dà la possibilità della felicità.
Sembrerebbe esserci una contraddizione: la felicità è fine più alto, poiché fine in sé, ma essere fine in sé non è condizione sufficiente per valutare la bontà di un fine. La contraddizione è soltanto apparente. Nella struttura teleologica (telos= fine, scopo) di Aristotele si distinguono fini particolari, i quali sono parziali e vanno riconosciuti come tali, e fini generali che danno forma alla vita, ordinandola (es. il piacere è certamente parte importante della vita umana, quindi fine particolare, ma non può essere ciò che la struttura, che la ordina). Il fine generale è, quindi, da intendersi come l'armonizzazione dei fini particolari, e, per questo motivo, fine in se stesso. La felicità è, quindi, armonia, logos, unione armonica di tutte le realtà e le prospettive della nostra vita (bisogni corporei, legami sociali, vita intellettuale, ecc...): è ciò che rende la vita umana una unità dotata di senso. In questo senso la felicità è un fine in sé. La felicità non è solo sentimento, ma è connessa alla ragione, viene colta dalla ragione intesa come logos.
La relazione fine-mezzo (fini che diventano mezzi per altri fini) non è da intendersi in senso di successione lineare, ma come funzione, organizzazione funzionale all'interno di una rete complessa di relazioni (si tratta di un modello organicista: le parti di un organismo svolgono differenti funzioni le une in relazione alle altre). La felicità come vita piena, senza alcuna mancanza, è da intendersi, quindi, come vita perfettamente organizzata, autosufficiente, quindi, in ultima istanza, perfettamente armonizzata; il sistema autosufficiente è quello armonico. L'autarchia diventa il paradigma della felicità. (Si noti qui il procedere per esempi del metodo aristotelico: si descrive la situazione di autosufficienza e la si definisce come felicità).
Felicità come ergon (non opera, ma funzione): svolgimento e realizzazione, in base a una scelta volontaria, della funzione che ci è propria; non agire in maniera disordinata, ma secondo le nostre funzioni (compiti). La virtù è la capacità di realizzare ciò che ci è proprio in maniera adeguata (qui troviamo anche l'accezione di ergon come opera, nel senso del compimento delle proprie funzioni). La propria funzione è quella di essere perfettamente integrato nell'unità della propria vita, raggiungendo, così, la felicità. L'autosufficienza viene, perciò, intesa come saper svolgere bene la propria funzione nella situazione concreta. La felicità è dare forma compiuta a tutta la vita.
Il bene viene quindi definito come:
1. avere forma di vita armonica
2.attività pratica
3. azione che si inserisce nel logos (armonia)
4.svolgere-realizzare bene la propria funzione
5.agire secondo le nostre capacità e conoscenze
Aristotele distingue tra virtù intellettuali (dianoetiche) e virtù morali (nell'uso corrente e' rimasta soltanto l'accesso e morale del termine).
Virtu'= capacità, capacità dia gire bene ( saper fare votato all'azione-produzione; comunanza con le arti). Si può conseguire solo agendo; prima seguendo determinati modelli e, via via, affinando la propria capacità di agire bene, fino a farla diventare interamente acquisita, come una nostra seconda natura (cfr. latino habitus). Il comportamento morale e' kata ton logon (in accordo con il logos), saper agire accordandoci al logos.
Problema: se agire bene e' una capacità che può essere conseguita solo agendo, allora sembrerebbe che la virtù presupponga già l'essere virtuoso. La circolarità e' soltanto apparente: poiché non si dà alcuna virtù astratta da mettere in pratica, solo nell'azione si può acquisire la capacità di agire bene. In altre parole, nell'azione sia propende una capacità che, pur appartenendo i per natura (disposizione), tuttavia deve essere appresa, fatta propria ( habitus, seconda natura).
Problema: contrariamente a Platone, per Aristotele nell'etica non si dà alcunché di oggettivo, immutabile, ma si valuta soltanto ciò che è conveniente, opportuno, relativo alla situazione (altra affinità con le arti: non si danno regole assolute, ma necessita' di rispondere in maniera adeguata alla situazione). Se nulla e' stabile, come possiamo delineare il bene e la virtù rispetto al logos?
La virtù viene, allora, definita come mesotes (medieta'), media tra eccesso e difetto ( ad esempio il coraggio e' media tra temerarietà e codardia). Non è la media matematica (oggettiva), ma relativa alla situazione. Si acquisisce individuando ciò che è kata ton orthon logon ( orthos=dritto; l'armonia giusta), l'azione che ha la giusta incidenza rispetto alla situazione. In questo senso l'azione non è di per se' giusta, ma dipende dal contesto; un'azione giusta in un contesto, puo' essere sbagliata in un altro.
Torna il modello organicistico- funzionalistico: nella ricerca del giusto mezzo non si valuta soltanto la situazione in se', ma l'insieme delle situazioni e dei soggetti coinvolti in esse, l'insieme delle relazioni reciproche.
Differenza fondamentale:
1. Aristotele: l'azione non definisce, bensì mostra, manifesta, fa emergere la virtù. La virtù risulta dall'azione, non è definita da essa.
2. Kant: l'azione definisce la virtù. Definizione oggettiva di virtù, indipendente dalla situazione.
Caso concreto: La verità va sempre detta? Una promessa va sempre mantenuta?
Per Kant si, sempre e in ogni situazione. (cfr. Sul presunto diritto di mentire per amore dell'Umanità:all'assassino che cerca l'innocente nascosto in casa mia non poso mentire).
Per Aristotele solo riferendoci alla situazione possiamo valutare e sia opportuno mantenere la promessa o dire la verità (nota bene: non si tratta di alcun calcolo utilitaristico, ma di valutazione delle condizioni e del giusto mezzo).
In realtà la questione è più complessa: Kant per salvaguardare la Dignità dell'essere umano, distingue tra Person (persona) e Menscheit (Umanità). Cfr. seconda formulazione dell'imperativo categorico:"Agisci in modo da trattare l'umanità nella tua persona così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo" (trad.mod.). Della menzogna si deve rispondere dinanzi all'umanità (presente anche nell'assassino), non dinanzi alla persona.
L'umanità è il principio assoluto, che acquista valore normativo (diventa una norma); in Aristotele, non si dà alcun principio normativo astratto, ci si riferisce al soggetto concreto, non all'Umanità.
Ulteriore precisazione: come Aristotele, anche Kant ammette che, se la situazione lo richiede, si possa usare l'essere umano come mezzo in vista di un fine; a condizione, tuttavia, che sia usato anche come mezzo, e non solo come mezzo.
Piacere= soddisfazione che si prova per la realizzazione di ciò a cui per natura tendiamo. La virtù è connessa al piacere (quindi, parallelamente, anche ali oltre); la virtù non esclude il piacere, anzi esso è suo elemento costitutivo. Trasformando un habitus una disposizione naturale che ci è propria si unisce virtù e piacere.
Cfr. Rawls ( Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2004, p.351), che enuncia il "principio aristotelico":
"a parità di condizioni gli esseri umani provano piacere nell'esercitare le loro capacità effettive (le loro doti innate o acquisite), e il loro piacere aumenta via via che la capacità si realizza o cresce la sua complessità. L'idea intuitiva qui esposta è che gli esseri umani provano maggior piacere nel fare una cosa quando aumenta la loro competenza nel farla, e di due attività che svolgono ugualmente bene essi preferiscono quella che si avvale di un più ampio repertorio di distinzioni più sottili e complesse" .
Aristotele si riferisce a Eraclito: per un meccanismo interno all'azione, se essa si svolge in assenza di difficoltà, la sua realizzazione comporta minore soddisfazione; mentre proviamo maggior piacere nella realizzazione di un'azione più complessa. Quindi, il piacere non è soltanto ciò a cui tendere in maniera astratta, ma l'azione che rende reale ciò che ancora non lo è e che, tuttavia, è possibile; è rendere reale (realizzare) il massimo grado del possibile. La felicità diventa, quindi, una sfida, mettere alla prova la nostra capacità di realizzare qualcosa di complesso; felicità come raggiungimento dell'eccellenza (non si dà felicità come assenza di preoccupazioni).
Differenza tra etica e arte: arte mira soltanto alla produzione di qualcosa, ciò che conta è solo il risultato. Nell'etica considerare solo il risultato non basta: l'azione non deve essere soltanto compiuta, bensì anche meditata, scelta deliberatamente, assunta di per sé, e messa in relazione con la totalità della nostra vita (cfr. "una rondine non fa primavera"). Ciò significa che un'azione compiuta isolatamente (occasionalmente, fortuitamente, casualmente), anche se buona, non si inserisce nel logos, pertanto, in un certo senso, è un'azione che non mi è propria, non mi appartiene veramente. L'appartenenza è da intendersi nel senso di funzionalità (non in funzione di, ma in relazione con): ciò che faccio volontariamente, mi è proprio in quanto il mio volere è funzionale alle aspettative della realtà in cui sono collocato.
Es. del linguaggio: quando parliamo, entriamo in una lingua; traducendo in parole un'intuizione entriamo in un flusso linguistico dominato da leggi proprie (automatismi). Il linguaggio ha una propria costituzione alla quale io vengo ad appartenere. Si deve cercare la giusta misura di questa appartenenza: attingere all'universalità del linguaggio, esprimendo, però, attraverso di essa l'individualità del parlante.
Quando si è trovata la giusta misura, essa non può essere ulteriormente perfezionata, è già la migliore possibile. La misura ha in sé la sua propria misura.
In Aristotele non c'è un termine per indicare la volontà, ma solo per volontarietà (hekousion) e involontarie (akousion). E' differente rispetto a Kant, che parla esplicitamente di volontà (cfr. incipit della Fondazione della metafisica dei costumi: "non è concepibile nulla di incondizionatamente buono all'infuori di una volontà buona"). E' possibile isolare la volontà? Definire cosa sia in sé?
Aristotele non si interroga su di una presunta volontà in sé avente potere causale sulle azioni, ma sui motivi (piacere, dolore, desideri, fini, sentimenti, ecc...) che casualmente producono l'azione. Questo però non nega la volontarietà dell'azione, intesa come esercizio volontario dei motivi (accettazione, rifiuto, affinamento, ecc..). La molteplicità dei motivi deve essere armonizzata in unità, e tale unità è equiparabile a ciò che noi intendiamo per volontà.
La concezione aristotelica è, per certi versi, in accordo con le neuroscienze contemporanee, che tendono a negare l'esistenza della volontà e della libertà, sebbene si distanzi ante litteram dal loro esito deterministico. E' atteggiamento naturalistico: ricondurre un fenomeno agli elementi naturali che lo causano/producono.
Aristotele comincia descrivendo ciò che è involontario (akon): quando siamo costretti a fare qualcosa (la costrizione può essere sia esterna, che interna/psichica) o quando facciamo qualcosa ignorando cosa stiamo facendo (es. ubriachezza).
Volontario (hekon)= ciò che ha origine in me, che viene da me. E' ancora atteggiamento naturalistico: si cerca l'ordine fisica dell'azione, indipendentemente dalle influenze esterne (es. è volontaria l'azione che dobbiamo compiere, pur non volendolo). E' molto diverso dal nostro concetto di volontà: si tratta soltanto di individuare nell'autore l'origine dell'azione, non implica alcun processi di deliberazione/decisione (anche i bambini e gli animali, in questo senso, agiscono volontariamente).
SI può tracciare un confine netto tra volontario e involontario? No, nell'esperienza concreta sono entrambi compresenti. (es. buttare in mare i propri beni durante una tempesta per salvarsi è sia volontario che involontario: sono io a decidere di compiere l'azione per potermi salvare, nondimeno sono costretto dalle condizioni esterne).
Si è responsabili solo delle azioni volontarie; le azioni involontarie non sono imputabili.
Aristotele introduce fra le azioni involontarie un'ulteriore distinzione:
1. azioni commesse per ignoranza: pur essendo involontarie, sono imputabili; si è responsabili della propria ignoranza (ad esempio il medico che, per ignoranza, fa morire il proprio paziente, prescrivendogli il farmaco sbagliato, pur non volendo causare la sua morte, ne è responsabile: è responsabile di ignorare ciò cui era tenuto sapere)
2. azioni commesse ignorando qualcosa: non sono involontarie, ma non-volontarie (non hanno che fare con la volontà). Quindi, non sono imputabili, non se ne è responsabili (es. se, ignorando che lo fosse, servo del cibo avariato ai miei commensali).
Il rammarico, però, può mutare un'azione non volontaria in involontaria. Cioè, dispiacendomene mi faccio carico di azioni non-volontarie che, tuttavia, hanno origine in me. Così facendo, me ne assumo la responsabilità; riconoscendomi come autore di esse, le riconduco alla totalità della mia vita.
Nel raggiungimento della virtù non conta solo l'azione, ma anche la scelta (prohairesis). Non agiamo soltanto, ma anche deliberiamo ( a differenza della volontarietà , la deliberazione, in quanto attività razionale, non è prerogativa di animali e bambini). Possiamo deliberare soltanto su ciò che è in nostro potere, su ciò che possiamo modificare; in tal senso i mezzi possono essere oggetto di scelta, ma non i fini, poiché non sono a mia disposizione.
Ciascuno è misura a sé, non c'è un criterio oggettivo che ci guida nella scelta. Così nella scelta facciamo ricorso all'esperienza acquisita, al carattere, inteso come abitudine stabile (habitus). Diventa decisiva l'educazione: la garanzia della bontà delle mie scelte deriva dall'esperienza che ricevo nell'educazione. Con un gioco di parole: la mia misura si commisura su di una misura ricevuta nell'educazione.
La vita morale mira alla costruzione di un carattere (exsis) stabile. Il carattere non è da intendersi in senso psicologico (temperamento), ma è la personalità morale costruita tramite scelte ed esperienza. Il carattere pur dipendendo da me; una volta acquisito diventa stabile e permanente. Risulta cosi che un cattivo carattere, poiché acquisito, è difficile da correggere. Tuttavia siamo responsabili delle scelte che ci hanno portato ad acquisire quel determinato carattere. Si è ciò che si è divenuti e si è responsabili delle scelte compiute per divenirlo.
La scelta è attività pratica, è una sfida: acquisire, tramite l'esperienza, la capacità ri realizzare ciò che mi è proprio, che è a mia misura. La realizzazione dell'azione è resa possibile dalla scelta; la scelta dà la direzione e senso all'azione e, in questo senso, la realizza.
La scelta (prohairesis) è l'atto finale della deliberazione (boulesis), essa precede l'azione (pro=prima). Nella scelta interviene la saggezza (phronesis; virtù diagnostica che unisce prohairesis e boulesis), cioè la capacità di operare una scelta ben deliberata.
Ci si propone di collocare la posizione aristotelica all'interno del dibattito attuale riguardo la libertà della volontà e delle azioni, in particolare proponendola come modello alternativo a quello proposto dalle neuroscienze, in cui prevale però sovente un'impostazione deterministica. Così facendo non ci troviamo più nell'ambito proprio dell'etica, non ci si chiede più come si debba agire, ma come accade che si agisca.
Concezione funzionalistica dell'agire: l'azione è fenomeno complesso, è inserita in diversi ambiti dell'esistenza e diversi motivi la influenzano.
L'azione, essendo sempre inuma contesto, è una reazione alla situazione in cui è collocata: l'azione risponde alla situazione, ma è anche influenzata da essa. Ad esempio il timoniere compie l'azione di guidare la nave: alcuni elementi delazione sono in suo controllo (es. i movimenti corporei per girare il timone), altri non sono a sua disposizione (es.le condizioni atmosferiche) e, tuttavia, fanno parte delazione, poiché, influenzandola, ne costituiscono il contesto. Si mira all'individuazione del motivo-guida, che indirizza (non determina) l'azione. E' una semplificazione concettuale (astrazione) pensare che ci sia soltanto un motivo che guida l'azione; c'è sempre una combinazione di più motivi.
Come si connettono le disposizioni alle azioni? Le azioni sono mutevoli, mentre le disposizioni sono stabili. Nell'azione ricreiamo le disposizioni; attitudini e sul carattere. Man mano che agisco acquisisco un'esperienza che mi caratterizza, che diventa una mia seconda natura (exsis, habitus), costituita sulla base della mia prima natura (la tendenza naturale che mi è propria).
Siamo co-autori delle nostre azioni, con-causa (synaitia) delle nostre disposizioni (cfr. P. Ricoeur, Sè come un altro). L'azione viene da me (in questo senso può essere detta libera), ma non dispongo totalmente di essa; gli elementi dell'azione in mio controllo (es. i movimenti corporei) sono connessi alla situazione esterna, che influenza e determina l'azione. Si tratta di una visione olistica: prospettiva dell'interno, all'interno della quale si inserisce l'azione.
Esperimento di Benjamin Libet per provare empiricamente la libertà: si chiede alla persona di compiere un movimento (es. piegare un dito) e di indicare l'esatto momento in cui decide di farlo. I risultati dell'esperimento mostrano che la decisione segue, e non precede, l'attivazione dei gruppi neuronali responsabili movimento. Questo risultato venne interpretato come determinismo, senza di libertà: non c'è una mente che comanda il cervello, ma il cervello si mette in funzione prima che io decida di compiere il movimento (ovvero: io decido ciò che il mio cervello ha già iniziato a compiere).
Il modello aristotelico può fornire un'interpretazione alternativa dei risultati dell'esperimento: la scelta di compiere l'azione di fonda sulle nostre disposizioni. La decisione non è soltanto l'atto della scelta, ma l'intero processo deliberativo (in parte inconscio) e l'atto della scelta è soltanto l'ultima fase di tale processo.
Tuttavia, ammettere ciò non significa cadere nel determinismo: l'azione rimane libera poiché ha origine in me stesso, è compita da me. L'errore delle neuroscienze è di intendere la libertà come assenza di predeterminazioni, invece è da intendersi come evento speciale nel quale esprimo totalmente la mia personalità; l'azione libera è quella che dipende dall'intero della mia personalità (cfr. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza; è indicativo il fatto che la traduzione tedesca dell'opera sia stat intitolata da Bergson stesso "Zeit un Freiheit", tempo e libertà).
Argomento classico delle neuroscienze come la libertà è quello del determinismo: anche il cervello in quanto amerai, segue le leggi naturali dove non si dà libertà, ma determinazione causale (lo stesso non vale per la mente, in quanto non è possibile definire scientificamente cosa sia).
Nella critica al determinismo ci può venire in soccorso la concezione teleologica, finalistica (telos=fine) del reale di Aristotele: egli ammette processi creativi, i quali sono regolati da un principio deterministico (nesso causa-effetto); tuttavia, escludendo il regresso all'infinito, salendo a ritroso la catena causale è necessario postulare una causa non causata: il motore immobile (attività in sé compiuta, essere che pensa se stesso come esistente), il quale unifica e muove gli altri enti non per cassazione, ma per attrazione (tendere a).
In questo senso, il determinismo non riesce a dare una spiegazione globale dell'interno, ma solo di un determinato gruppo di fenomeni. Esso vuole essere una spiegazione globale, ma per essere tale dovrebbe potersi guadagnare un punto di vista assoluto, dal quale considerare l'intero che intende spiegare come un sistema chiuso. In questo senso, la sua pretesa è illegittima e perde totalmente di significato. Si tratta soltanto della trasposizione di una legge particolare su di una prospettiva globale.
Precisazione: un sistema è aperto quando è esposto all'influenza del contesto in cui è collocato. Se si include nel contesto anche l'ambiente, ogni vivente è un sistema aperto. Questo dimostra ancora infondata la pretesa del determinismo di fare della totalità un sistema chiuso.
Le leggi di natura non descrivono il reale corso delle cose, ma solo condizioni ideali e astratte, isolate dal contesto reale della vita. Nella vita reale non ci sono leggi di natura rigidamente determinate, ma leggi di struttura, dove per struttura si intendono la condizione di possibilità di una dorma di realtà. Al variare della struttura emergono forme diverse di realtà e causalità. Ad esempio, molecole, processi biologici, processi psichici e sentimenti hanno struttura diversa, quindi sottostanno a leggi diverse e, in questo senso, sono reali differenti. (Cfr. S. Langer, Philosophy in a new key, il sentire è riverberazione; la vita psichica può essere sentita, ma non definita). Nell'emergere di nuove forme di realtà, tuttavia, quelle precedenti non vengono annullate, bensì preservate.
Intermezzo: Nel libro X la felicità massima è individuata nella vita contemplativa, poiché autosufficiente e attività senza costrizioni. La contemplazione ci permette di cogliere il logos, l'ordine che è proprio della totalità.
Perché la posizione aristotelica risulta più attuale delle neuroscienze contemporanee? (Cfr. S. Toulmin, Cosmopolis). Dopo il Rinascimento, con l'affermarsi della meccanica classica, si tenta in filosofia di adattare la realtà alla teoria, e non viceversa. Questo tentativo implica un modello di pensiero che procede per concetti rigidi, facendo perdere le nuances della realtà (ad es. il metodo cartesiano dell'evidenza è metodo disgiuntivo: o è chiaro e distinto oppure non lo è, senza alcuna sfumatura intermedia).
Tali teorie, che tendono a ridurre la complessità del reale, arrivano a influenzare anche il nostro modo di percepire il reale stesso facendo sfuggire alla nostra percezione le sue sfumature. Contro questa impostazione di battono la fenomenologia e l'ermeneutica, che possono essere considerate come tentativi di ri-guadagnare una visione più ampia del reale.
Indice dei Libri dell'Etica Nicomachea
Libro I: sulla felicità, (ciò a cui ogni uomo tende, il bene più grande)
Libro II: sulla virtù (al singolare). Definizione della virtù come medierà (mesotes)
Libro III: su volontarietà e involontarietà
Libro IV: sulle virtù (al plurale). Descrive (non definisce) varie forme di virtù
Libro V: sulla giustizia (virtù particolare)
Libro VI: sulle virtù dianoetiche (intellettuali)
Libro VII: sul piacere e il rapporto con le passioni
Libro VIII- IX: sull'amicizia
Libro X: sul piacere e la felicità
Sulle virtù dianoetiche
La virtù è la capacità non solo morale, ma anche intellettuale, teorica.
Cinque virtù dianoetiche:
- Nous (intelletto): capacità di cogliere le verità prime (es. il tutto è superiore alla parte) Intelligenza che coglie i principi primi.
- Episteme (scienza): sapere scientifico (necessario). Sapere che si fonda su principi necessari, scienza rigorosa (es. la morale non è episteme).
- Sophia (sapienza): sapere che ha carattere di episteme e che riguarda la teoria, le cose necessarie. Conoscenza dei principi necessari.
- Phronesis (saggezza): capacità di operare una scelta ben delibera. Sapere partito, connesso all'esperienza (i giovani non possono essere saggi, perché hanno poca esperienza, ma possono diventarlo) e necessario per la vita pratica. Si diventa saggi attraverso l'esperienza; con cattiva esperienza si diventa dissoluti e si è irrecuperabili, perché l'assunzione di un carattere (essi) è irreversibile, diventa una seconda natura.
- Techne (arte): capacità di produrre qualcosa
Nous, episteme e sophia sono virtù diagnostiche che riguardano la teoria. Phronesis e teche sono sempre virtù dianoetiche (riguardano i criteri con cui si agisce), ma relative alla pratica.
Sulla giustizia (libro V)
La giustizia (dikaiosyne) è l'unica virtù alla quale viene dedicato un intero libro; già tradizionalmente era oggetto di trattazione privilegiata (cfr. Platone, Repubblica).
La giustizia è virtù della relazione, ha dimensione politica, la relazione le è strumentale.
-Platone: nell'analisi della giustizia il passaggio dall'individuale al collettivo (al politico) avviene poiché è più facile definire la giustizia relativamente all'individuo collettivo. E' meno accentuata la differenza qualitativa tra i due ambiti.
-Aristotele: salto qualitativo tra dimensione individuale e dimensione politica (cfr. 1134a-b).
La giustizia è la virtù che ci si aspetta da chi governa, a cui competono onori e privilegi. Per Aristotele è giusto che chi governa, in virtù della sua funzione pubblica, abbia maggiori privilegi, ma che non accumuli un potere personale altrimenti potrebbe abusare della sua funzione publica.
La giustizia non mira all'egualitarismo, ma a stabilire un equilibrio, una proporzione: cioè che a ciascuno sia dato in maniera equilibrata, senza che nulla sia tolto ad altri.
Come le altre virtù, anche la giustizia è capacità di individuare il giusto mezzo; tuttavia, l'individuazione del giusto mezzo nella politica è questione più complicata, poiché il giusto mezzo non va valutato solo in relazione alla situazione (come ad esempio il coraggio), ma relativamente alla situazione a gli altri. In altre parole, nella distribuzione equilibrata di beni si deve tener conto sia dei beni da distribuire (incomparabili tra loro), sia di chi è a ricevere tali beni.
Nella distribuzione proporzionale dei beni si deve tener conto dei beni esistenti e delle persone che li ricevono, mettendoli reciprocamente in relazione. Si dà luogo a una vera e propria equazione:
Bene a: persona A= bene b:persona B
La giustizia non fonda soltanto l'agire politico, ma è virtù più ampia che riguarda la sfera dei rapporti inter-personali. La giustizia non ha rilevanza soltanto politica, ma anche sociale, si applica anche alle dimensioni sociali non strettamente politiche. Ad esempio anche nella stipulazione dei contratti (rapporti tra privati) o negli cambi commerciali ha rilevanza la giustizia: si dice giusto quel contratto o quello scambio commerciale all'eguaglianza, alla proporzione delle parti (es. stabilire la giusta ricompensa per una prestazione, o il valore di scambio di un oggetto rispetto a un altro).
I rapporti sociali, pur differenziandosi dalla politica, hanno anch'essi un carattere politico: ade esempio la stipulazione di un contratto palesemente ingiusto ha valenza politica, poiché mina le condizioni sociali, è un'ingiustizia verso la società; anche se il contratto è stipulato da due soggetti consenzienti, si tratta di una relazione collettiva.
Aristotele riconosce una genialità nella società: l'invenzione della moneta, che consente la misurabilità di beni tra altro diversi. Tuttavia, la moneta non è soltanto un sistema di calcolo, essa evidenzia un legame sociale fondato sulla fiducia. La moneta acquista un valore soltanto sulla base di una fiducia collettiva nel fatto che essa abbia un valore. In essa è presente un elemento morale: la fiducia in un patto collettivo.
Il reciproco fidarsi è costitutivo della società. In questo senso la virtù politica e virtù sociale sono connesse: a entrambe è essenziale la relazione cona altri, entrambe sono connesse alla moralità. Per questo la politica è definita come architettura della morale.
Che si abbiano bisogni e desideri e che altri possano soddisfarli è cosa naturale. La politica consiste nel considerare la collettività come luogo di soddisfacimento dei bisogni e desideri.
Nella trattazione della giustizia si vede come la filosofia aristotelica sia in grado di render conto dei diversi livelli della realtà (in questo caso: singolo, collettività, ecc...). Non è una filosofia dogmatica, ma descrittiva. In un certo senso, Aristotele può essere considerato come il creatore del nostro vocabolario filosofico, cioè ci ha fornito strumenti concettuali ( i termini, le descrizioni, ecc...) per comprendere la realtà nella sua complessità. Disponendo di poche categorie concettuali rigide si ha difficoltà a comprendere la realtà, invece un vocabolario ricco ci permette di differenziare la realtà. Un vocabolario povero impoverisce la nostra percezione e comprensione del reale (sapere il nome di una cosa significa conoscerla, distinguerla dalle alle altre cose). Vediamo ciò che il nostro vocabolario ci permette di vedere, di qui l'importanza della ricchezza del vocabolario aristotelico.
Diverse forme di giustizia
Giusto: virtù che tende alla proporzione, ricerca del giusto mezzo in termini generali (universali). Trova nella legge un tipico modo di rappresentarsi.
Equo: giustizia che interviene a correggere l'indeterminatezza della legge (che è universale). E' una applicazione determinata della legge a un caso non contemplato dalla legge nel suo carattere di universalità. Tuttavia, l'equità non costituisce un'eccezione della legge.
Giusto naturale: è indipendente dalla prescrizione di una legge (ad esempio i diritti umani appartengono all'uomo in quanto tale, senza che siano sanciti da particolari forme legislative).
Giusto per convenzione: norme sancite da una certa legislazione.
Esercizio della giustizia verso se stessi
* Platone: concezione individuale della giustizia (armonia tra le tre parti dell'animo umano), poi estesa all'ambito politico (armonia delle tre classi sociali). Si dà la possibilità dell'ingiustizia verso di sé, laddove si lascia prevalere una delle tre parti dell'animo sulle altre.
* Aristotele: la giustizia è costruttivamente relazionale, non si dà giustizia o ingiustizia verso se stessi. Ad esempio compiendo il suicidio non si commette ingiustizia verso se stessi, ma verso la società. Il suicidio, in tale senso, non è legittimo poiché danneggia la collettività, non perché ingiusto di sé.
All'interno del discorso aristotelico, che si fonda su una concezione armonica dell'uomo, si trova una lacuna riguardo ai temi del male, della sofferenza e del conflitto che lacera l'individuo, i quali saranno invece tratti peculiari della modernità e del Cristianesimo.
Aristotele propone un modello etico elitario (per pochi) e astratto, non aderente all'interno dell'esistenza. Esso presenta problemi di applicabilità concreta.
Sull'amicizia (libri VII-IX)
La filia (amicizia, ma anche amore) può essere sia una virtù in sé, sia accompagnarsi alle altre virtù; è un bene esteriore necessario alla felicità.
Essa richiede una comunanza di vita, per questo motivo una persona non può avere legami di amicizia con l'umanità intera, ma solo con un numero ristretto di persone.
L'amicizia richiede una proporzione (eguaglianza) nella relazione e piena condivisione. In questo senso è differente dalla benevolenza.
Tre tipologie di amicizia:
Amicizia fondata sull'utile: amicizia che si fonda su una reciproca utilità (es. negli affari).
Amicizia fondata sul piacere (es. amicizia erotica): amicizia fondata su un accrescimento e condivisione di piacere, si è congiunti dallo stesso piacere. E' un grado più elevato di amicizia, poiché tocca più in profondo la natura umana e implica un coinvolgimento personale e interiore forte.
Amicizia fondata sulla virtù: si è uniti dal voler esercitar la virtù e tendere alla felicità che ci è propria. E' la volontà di realizzare il meglio che ci è possibile. Unisce anche l'amicizia per il piacere e per l'utilità. Fra le tre forme di amicizia non c'è netta contrapposizione.
Aristotele ammette la possibilità di legami di amicizia verso tutti, anche verso gli chiavi (considerati nelle società ricche come strumenti inanimati, oggetti di proprietà). L'amicizia tra schiavo e padrone può avvenire poiché non di rado lo schiavo è più istruito e virtuoso del padrone stesso;in questo modo si ha amicizia con lo chiavo in quanto uomo.
Nell'evoluzione storico-culturale, soprattutto nel Cristianesimo a partire da San Paolo (cfr. Lettera a Timoteo, Lettera a Tito, Lettera a Filemone), si dà un progressivo svuotamento dall'interno della nozione di schiavitù in quanto struttura sociale.
Sul piacere (libri VII, X)
La trattazione del tema del piacere (hedoné) tocca due ordini di problemi: decidere se il piacere sia un bene in sé oppure no e analizzare il rapporto (o l'eventuale identità) tra piacere e felicità. Tradizionalmente le risposte date a tali problemi tendevano ad assolutizzare una delle due alternative: o il piacere veniva visto come qualcosa da bandire, poiché indegno della natura umana, oppure considerato come fine in sé, fine assoluto. Aristotele intende trovare la via intermedia tra tali assolutizzazioni.
Il piacere e il dolore accompagnano l'intera nostro avita e influiscono sulla virtù e sulla felicità dell'individuo. Il piacere si accompagna alla felicità e l'assenza di piacere (o il dolore) hanno conseguenze sulla felicità stessa.
Il piacere è ciò che si prova nel compiere l'azione che è conforme a natura, conforme al nostro habitus. Il piacere accompagna un habitus acquisito, non è un comportamento occasionale o casuale, ma necessita di educazione.
Aristotele nega che il piacere sia un movimento, un accrescimento; non si dà più o meno piacere, il piacere è sempre in sé compiuto.
La felicità, tuttavia, non risiede nel piacere; chi prova piacere non è automaticamente felice. La felicità è attività perfetta secondo virtù che investe l'intero dell'esistenza. La felicità è uno stato complessivo, mentre il piacere è sempre puntuale. Non per questo, però, il piacere va disprezzato; anzi, esso svolge un ruolo importante nella felicità: la vita felice e virtuosa è la vita che sa servirsi in maniera appropriata dei piaceri.
Il piacere non è l'intero, ma è parte di un intero più complesso (la felicità). Aristotele in questo modo riesce a evitare l'assolutizzazione di uno dei due corni dell'alternativa: allo stesso tempo valorizza e relativizza il piacere.
A differenza della felicità, il piacere non può essere una vita felice, poiché il piacere è sempre relativo a una mancanza (cfr. Platone, Filebo). In questo senso anche il piacere necessita della virtù, necessita di essere goduto in maniera giusta, armonica con la totalità della vita.
Non riescono a provare piacere l'incontinente (chi conosce ciò che è giusto fare, ma non riesce a adeguarvisi) e l'intemperante (chi non riesce a valutare ciò che è giusto fare), poiché sia non riuscire a resistere al piacere, sia assumere come principio norma sbagliate impedisce di provare realmente piacere.
Quando un uomo si può dire felice? In quanto stato complessivo e non condizione puntuale, la felicità non può essere giudicata a partire da un punto di vista particolare, ma solo al termine della vita (questa concezione è tipica del pensiero greco, che connette al problema della felicità non solo la totalità della vita, ma anche come viene considerata dai posteri la vita dopo la morte della persona).
La vita felice è una vita perfettamente riuscita e piena. La felicità è compiutezza, e la compiutezza, per sua propria natura, la si può riconoscere a posteriori (se la compiutezza fosse definibile a priori ci troveremmo dinanzi a un'etica normativa e non teleologica). La compiutezza non dipende soltanto dal singolo, ma è costruttivamente relazionale, non si è felici da soli ( è diversa dalla compiutezza del saggio stoico, non è compiutezza autarchica). La compiutezza è stato qualitativo, non quantitativo.
Sul tema della pienezza della vita cfr. D. Bonhoeffer, Etica e Resistenza e resa. In particolare, riguardo il tema della morte in pienezza:
"da quando abbiamo conosciuto la guerra, quasi non osiamo assecondare il nostro desiderio che essa (la morte) non ci colga in modo fortuito, improvviso, lontani dall'essenziale, ma nel pieno della vita e dell'impegno. Saremo però noi e non le circostanze esteriori a fare della nostra morte ciò che essa può essere, cioè una morte accettata dal libero consenso".
Sulla sapienza e la felicità (Libro X)
Quali sono il piacere e la felicità più alta? Il piacere intellettuale, poiché è proprio della natura dell'uomo in quanto essere razionale. Il piacere fisico è subordinato a quello intellettuale. Il piacere intellettuale consiste nella contemplazione.
Emergono qui i due poli della concezione aristotelica: la sapienza (sophia) viene definita superiore alla saggezza (phronesis), ma nell'etica si tiene più conto della sapienza. Aristotele non sceglie radicalmente in favore di una delle due virtù.
La concezione aristotelica così confuta il rigido schema che contrappone a un presunto ascetismo del Cristianesimo l'attenzione alla dimensione corporea del paganesimo. In Aristotele, ma a ben vedere anche nel Cristianesimo, sono presenti entrambi gli aspetti: la superiorità dei piaceri intellettuali e l'importanza del piacere fisico.
E' invece il mondo moderno ad aver perso la continuità con il mondo greco. Nella modernità non è più proponibile il modello aristotelico, risulta difficile pensare che l'uomo moderno sia lo stesso di cui parla Aristotele. Nella natura umana non troviamo soltanto la positività, ma anche l'abisso del male (cfr. Dostoevskij).
Filosoficamente il peccato originale è da intendersi come consapevolezza che nell'uomo c'è compresenza di bene e male e che si diventa responsabili del male compiuto da altri. Una concezione di questo tipo è totalmente estranea all'impianto teorico di Aristotele.
Il fatto che l'etica aristotelica non si possa più riproporre nella modernità non significa che essa sia sbagliata. In generale nessuna filosofia, se è veramente tale, è sbagliata. Ogni filosofia, però, necessita di essere ripensata, individuandone le acquisizioni e i limiti, per poi re-interpretarla in maniera personale. Ogni grande filosofia può e deve essere pensata oltre se stessa.