Aforisma
Il rapporto dell'aforisma con la filosofia è ambiguo: l'aforisma è infatti la forma di scrittura utilizzata da chi privilegia la "verità in gocce", "la saggezza in pillole".
Si tratta di una forma di sapienza non sistematizzata o "distillata". Così, sebbene sia riscontrabile anche nella filosofia moderna e contemporanea in autori di una certa importanza, in generale nella letteratura filosofia il ricorso all'aforisma è piuttosto limitato, essendo una tipicità del discorso filosofico la costruzione di teorie, corroborate da argomentazioni: l'aforisma, per contro, non argomenta, asserisce.
Ciò, lungi dallo svincolare l'aforisma da ogni contesto teorico, rende ancor più indispensabile - e allo stesso tempo più problematico - il suo inserimento nell'orizzonte teorico di un filosofo.
Emblematico l'aforisma di Nietzsche "Dio è morto", la cui comprensione implica la conoscenza dell'intera filosofia nietzscheana. Tuttavia, a differenza della teoria, che fissa i limiti dell'interpretazione, mirando a costruire credenze condivise o condivisibili, gli aforismi si prestano a molteplici interpretazioni o, come scrisse F:Bacone ne Il progresso della conoscenza (1605) contrapponendo la scrittura metodica (capace tutt'al più di confortare) a quella aforistica (la sola in grado di condurre al vero), "invitano gli uomini indagare ulteriormente".
Essi cioè suscitano nuove domande e il bisogno di scrittura aforistica è dunque la plurivocità semantica, che genia uno spiazzamento concettuale in grado di produrre nuovi pensieri.
Umberto Eco ha distinto aforisma degradato e aforisma critico: il primo è un'affermazione che può essere rovesciata senza perdere apparenza di verità, veicolo di un'opinione accettata o accettabile, che assume spesso una forma paradossale e meta-aforistica, mette in gioco le condizioni della sua accettabilità contrattando l'opinione diffusa.
Questo è il vero e proprio aforisma filosofico, capace, come già Seneca osservò, di fissare in forma icastica una verità.
Sempre Eco ha distinto gli aforismi per "estrazione" dagli aforismi "per creazione", ovvero massime estrapolate da opere di natura non aforistica e massime nate già come aforismi. Al primo genere appartengono i frammenti presocratici, e in particolare di Eraclito, che appaiono come frutto di una sapienza oracolare e spesso sembrano sociale diverse tesi o linee di pensiero.
Il secondo genere è la forma di scrittura utilizzata consapevolmente dai filosofi stoici, in particolare da Seneca e Marco Aurelio: sia le Sentenze di Seneca, sia, soprattutto, i Ricordi di Marco Aurelio sono legati alla pratica di vita filosofica stoica, alla meditazione: hanno un carattere soggettivo, presentano emozioni e pensieri, in una profonda aderenza all'esperienza vissuta.
Nella filosofia moderna e contemporanea è possibile distinguere due tendenze nell'uso dell'aforisma. La prima, pur presente in tutte le culture europee (si pensi per l'Italia al Guicciardini dei Ricordi, 1530, e al Leopardi dei Pensieri, 1845; a B. Gracian e al suo gusto per la agudeza, per quanto concerne la Spagna; a G.C. Lichtenberg per la Germania), trova esemplare espressione nella cultura francese tra il sec. XVI e il XVIII (J. La Bruyere, F. La Rochefoucauld, B. Pascal, N. de Chamfort), dando luogo a massime moraleggianti, spesso riprendendo sentenze e proverbi dell'antichità (come già aveva fatto Erasmo da Rotterdam con i suoi Adagia, 1508-11).
La seconda nasce nel primo romanticismo tedesco (Novalis, F. Schlegel): in questo contesto, l'aforisma esprime in maniera sorprendente e lapidaria una verità derivante da un'illuminazione improvvisa.
Gli aforismi dei romantici sono in realtà frammenti, perché inevitabilmente "frammentario" è il sapere dell'Assoluto.
Svalutata da Hegel, questa scrittura aforistica e frammentaria riemerge in Schopenhauer- che nei Parerga e paralipomena (1851), comprendenti gli Aforismi sulla saggezza della vita, riprende la tradizione latina della massima- e in Nietzsche (per lo meno a partire da Umano, troppo umano, 1878), in cui l'aforisma è ormai libero da ogni legame con una verità assoluta (esso perciò non può essere inteso neppure come un frammento). Tale scelta stilistica consegue al rifiuto del genere del trattato filosofico o del dialogo socratico, in cui si è espressa la filosofia di matrice platonico-giudaico-crisitana, che ha imbrigliato il pensiero in una forma univoca, ma parziale, delle cose: l'aforisma è invece la "forma dell'eternità", capace di esprimere ciò a cui la lunga composizione non può dare voce. La comprensione del breve aforisma ha bisogno però di un impegnativo lavoro ermeneutico che Nietzsche chiama metaforicamente "ruminare".
Dalla fine dell'Ottocento e nel corso del Novecento la scrittura aforistica, per la sua natura antidialettica e antisistematica, è stata strumento espressivo di filosofi e scrittori che hanno criticamente affrontato il rapporto tra verità ed apparenza, chi proponendo una nuova estetica e una filosofia estetizzante, chi una "dialettica negativa", chi una filosofia del linguaggio asistematica, tendente a rivalutare l'aspetto molteplice e irriducibile a unità delle forme di vita (Ch. Baudelaire, O. Wilde, E. Cioran, W. Benjamin, Th. Adorno, L. Wittgenstein).
Bibliografia
Dizionario filosofico Abbagnano
L'Universale, filosofia