Avicenna : la metafisica e l'antropologia
Ibn-Sina, che gli scolastici latini conobbero con il nome di Avicenna, era persiano di origine e nacque ad Afshana (presso Bokhara) nel 980. Dotato di ingegno precoce, a 17 anni era già famoso come medico ed ebbe la fortuna di guarire il principe di Bokhara, che lo colmò di favori e gli aprì l'immensa biblioteca del suo palazzo. In seguito Avicenna fu a Sorsan, dove aprì un corso pubblico di insegnamento e cominciò a comporre il suo celebre "Canone di medicina".Costretto ad abbandonare quella residenza per i torbidi che vi erano scoppiati, si recò ad Hamadan, dove fu nominato visir di quel principe. In questa carica rischiò di fare una brutta fine perché le truppe, scontente del visir, si impadronirono di lui e chiesero la sua morte. Il principe lo salvò e lo tenne presso di sé come medico.Egli allora compose diverse parti della sua grande opera sulla "Guarigione" (Al Scifà).Dopo la morte del suo protettore si recò ad Ispahan, dove divenne segretario di quel principe, che accompagnò spesso nelle sue spedizioni. Queste fatiche contribuirono a minare la sua salute già compromessa da una vita agitata e laboriosa: Avicenna amava la vita, e si dedicava volentieri agli amori ed al vino. Avendo accompagnato il suo principe in una spedizione contro Hamadan, si ammalò e morì in quella città nel 1037, all'età di 51 anni circa. La "Vita di Ibn-Sina" scritta dal suo discepolo Sorsanus è stata tradotta in latino e stampata davanti a diverse edizioni latine delle sue opere.
L'attività di Avicenna si estende a tutti i campi del sapere. Il suo "Canone di medicina" fu l'opera classica della medicina medievale. Le opere che interessano la filosofia sono il "Libro della guarigione (Al scifà) e il "Libro della Liberazione (Al Najat): il primo era una vasta enciclopedia di scienze filosofiche in diciotto volumi; il secondo, diviso in tre parti, era un riassunto del primo.
Le edizioni latine delle opere di Avicenna sono traduzioni di questa o di quella parte delle due opere principali. Alla fine del XII secolo Gerardo di Cremona tradusse il Canone di medicina; Domenico Guindisalvi e il giudeo Avendeath tradussero "La Logica", una parte della "Fisica", la "Metafisica", il "De caelo", e molti altri scritti scientifici.
Rapidamente, tra la fine del XII e il principio del XIII secolo, l'Occidente cristiano giunge a conoscenza, attraverso queste traduzioni di Avicenna, di quasi tutta l'opera di Aristotele, di cui anteriormente conosceva solo la logica. Ma con tutto ciò, l'Occidente latino conobbe ben poco dell'opera di Avicenna.
Quest'opera infatti fu vastissima (forse più di 250 opere); e il riconoscimento della sua importanza sia per la filosofia orientale come per quella occidentale nonché per la scienza (e per la biologia e medicina in specie), hanno indotto gli studiosi moderni a pubblicarne e a tradurne alcune parti inedite.
Tra queste hanno importanza per la filosofia: "Trattati mistici; "Epistola delle definizioni"; "Libro di scienza"; "Libro delle direttive e delle note"; "Logica orientale", che è parte di una grande opera andata perduta "Giudizio imparziale fra gli occidentali e gli orientali". Il titolo di quest'ultima opera ha fatto pensare ad un esito teosofico o mistico della filosofia di Avicenna in contrasto con l'impostazione filosofica e razionalistica delle opere che conosciamo.
In realtà non esiste alcuna base per una simile ipotesi: la quale è smentita, oltre che dal frammento che di quell'opera abbiamo sulla logica, anche dal contenuto del "Libro delle direttive" che anche esso appartiene agli ultimi anni di Avicenna e che non testimonia mutamenti sensibili nelle conclusioni della sua filosofia. Le fonti di questa filosofia sono Aristotele, Plotino (che però Avicenna non distingue dal primo al quale attribuisce la "Theologia", un centone di passi delle "Enneadi") e Al Farabi; ma agli Stoici soprattutto si avvicina il suo concetto del mondo come il dominio di una forza razionale che lo guida con infallibile necessità.
Avicenna descrive in termini chiaramente scolastici il compito della filosofia: questo compito consiste nel dimostrare e chiarire razionalmente la verità rivelata. I fondatori della fede insegnarono e tramandarono la loro dottrina in virtù dell'ispirazione divina.
I filosofi aggiungono alla dottrina tramandata il discorso e la considerazione dimostrativa. I fondatori della fede non distinsero né chiarirono il contenuto della loro dottrina, ma ne dettero soltanto i principi e i fondamenti: spetta ai filosofi esporre e delucidare chiaramente ciò che in essi è ancora oscuro ed involuto.
Ma se la filosofia aggiunge alla tradizione religiosa la considerazione dimostrativa, dall'altro lato la tradizione religiosa, rappresentata dai profeti, estende il dominio della verità umana al di là dei limiti cui può giungere la dimostrazione necessaria. E difatti essa consente di affermare con certezza anche la realtà di ciò che l'intelletto è incapace di dimostrare o di cui esso può riconoscere solo la possibilità.
Il principio della speculazione di Avicenna è, come di quella di Al Farabi, la necessità del'essere. Tutto l'essere in quanto tale è necessario. "Se una cosa non è necessaria in rapporto a se stessa, egli dice, bisogna che sia possibile in rapporto a se stessa, ma necessaria in rapporto a una cosa diversa".
La proprietà essenziale di ciò che è possibile è proprio questa: avere necessariamente bisogno di un'altra cosa che lo faccia esistere in atto. Ciò che è possibile rimane sempre possibile in rapporto a se stesso, ma gli può accadere di essere in modo necessario in virtù di una cosa diversa. L'esistenza in atto è dunque sempre necessità. Il possibile rimane tale finché non ha esistenza in atto: quando riceve l'esistenza in atto, riceve al tempo stesso la necessità.
Questo implica in primo luogo che ogni possibile agisce e richiama l'essere necessario come causa della sua esistenza attuale. E in secondo luogo implica che l'essere necessario esiste di per sé, cioè in virtù della sua stessa essenza ed è intelligibile unicamente per questa essenza.
Esso è semplice, senza legami, senza deficienze e senza materia.
Nel "Libro delle direttive" Avicenna insiste sulla superiorità di questa prova di Dio desunta dalla semplice considerazione dell'essere: "Quando consideriamo lo stato dell'essere, egli dice, l'essere è testimone di sé in quanto essere ed esso stesso, dopo di ciò, testimonia tutto ciò che viene dopo di lui all'esistenza".Se l'essere necessario è assolutamente semplice, ciò che è possibile ed esiste solo in virtù dell'essere necessario non è mai semplice, giacché implica in sé due elementi: quello per il quale è possibile rispetto a sé, e quello per il quale è necessario rispetto ad altro.La possibilità e la necessità entrano a comporre la sua natura rispettivamente come la materia e la forma. Avicenna interpreta, infatti, la distinzione aristotelica di materia e forma come distinzione tra il possibile e il necessario: la materia è possibilità, la forma, come esistenza in atto, è necessità.Ciò che non è necessario di per sé, necessariamente è composto di materia e di atto, quindi non è semplice. L'essere che è necessario di per sé è invece assolutamente semplice, quindi privo di possibilità o di materia.
Questo concetto dell'essere necessario (necesse esse) è il cardine di tutta la speculazione di Avicenna. In primo luogo esso è il fondamento di quella distinzione reale tra l'essenza e l'esistenza che doveva diventare uno dei maggiori temi speculativi della scolastica cristiana nel secolo XIII e specialmente del tomismo.
L'essere necessario è difatti l'essere che esiste per essenza o la cui essenza implica l'esistenza; mentre l'essere che non esiste in virtù della propria essenza esiste solo come effetto dell'essere necessario.
Questa distinzione sarà a fondamento del principio dell'analogicità dell'essere, fondamentale per il tomismo. In secondo luogo, l'essere necessario introduce in tutti i rami e le forme dell'esistenza la sua stessa necessità.
Ogni contingenza o possibilità del reale è esclusa giacché il possibile non può passare all'essere se non per l'azione del necessario; ma con quest'azione diventa esso stesso necessario nella sua esistenza (per quanto non nella sua essenza). Questa radicale eliminazione della contingenza dell'essere (che implica fra l'altro la necessità della stessa creazione divina) è il punto fondamentale in cui la dottrina di Avicenna doveva venire in contrasto con le esigenze della scolastica cristiana interessata a mantenere la libertà della creazione e nella creazione.
Bisogna tuttavia osservare che,nonostante questa esclusione di ogni possibile dalla realtà, Avicenna espone un concetto del possibile assai più preciso e rigoroso di quello ammesso da Aristotele. Egli infatti distingue due sensi di possibile.
Nel primo senso possibile è il "non possibile"; in questo senso ciò che non è possibile è impossibile e pertanto lo stesso necessario è possibile.
Nel secondo senso, che è quello proprio, il possibile è una terza alternativa al di fuori dell'impossibile e del necessario e in tal caso il possibile è ciò che può essere o non essere; e né l'impossibile né il necessario possono dirsi possibili.
Ovviamente, in questo secondo senso il possibile si sottrae a quei paradossi cui dava luogo nella logica di Aristotele.
L'assoluta semplicità dell'essere necessario consente ad Avicenna d'intenderlo come assoluta unità, anzi di identificarlo con l'Unità stessa nel senso platonico.
Avicenna, come già Al Farabi, unisce il concetto platonico dell'uno a quello aristotelico dell'Atto puro; e nello stesso tempo identifica l'Uno e l'Intelletto, che invece i neoplatonici distinguevano.
"Poiché è il principio di ogni esistenza, l'Uno conosce da sé le cose di cui è principio: sa che è principio di quelle cose di cui ciascuna è perfetta nella sua singolarità (le cose celesti) e anche di quelle altre che sono soggette alla generazione e alla corruzione. Queste ultime le conosce sia nella loro specie, sia nei loro individui; ma quando conosce questi enti mutevoli, non li conosce cioè con una intelligenza individuale".
La derivazione di tutti gli esseri dall'Essere necessario non è una creazione intenzionale. Non sussiste un'intenzione creatrice nella Causa prima: questa intenzione implicherebbe una molteplicità di elementi nella natura dell'Uno, che è invece semplicissimo. Bisognerebbe che la scienza e la bontà della Causa prima la costringesse ad avere questa intenzione o che questa le fosse suggerita dalla considerazione di una utilità o di un vantaggio che le potrebbe venire; e tutto questo è assurdo.
Non c'è in Dio né desiderio né bisogno né intenzione: Dio è causa in virtù della sua stessa essenza; e ciò di cui essa è causa, il mondo, segue necessariamente dall'essenza divina. Il mondo così è altrettanto eterno che Dio.
La derivazione del mondo da Dio accade (come già Al Farabi aveva asserito riproducendo Plotino) attraverso il pensiero del pensiero cioè attraverso la scienza che Dio ha di sé o l'autoriflessione divina.
"La causa prima è una intelligenza unica, che conosce se stessa: necessariamente dunque conosce tutto ciò che risulta da sé, sa che l'esistenza di tutti gli esseri nasce da sé, che essa è il principio e che non c'è niente nella sua essenza che impedisca alle cose di derivare da essa".
Anche la Provvidenza, cioè il governo del mondo, si esercita allo stesso modo: Dio conosce l'ordine secondo il quale il bene si distribuisce nel mondo e per questa semplice conoscenza il bene stesso deriva da Lui in modo tale che ne deriva l'ordine più perfetto possibile.
Avicenna è veramente il filosofo della necessità assoluta. Nulla per lui si sottrae al principio che ogni essere è necessario: neppure la volontà umana.
Le decisioni della nostra volontà devono avere una causa, come tutto ciò che passa all'essere dalla semplice possibilità. Ma la serie delle cause che le producono rimonta al di là dell'anima stessa, agli avvenimenti terrestri.
Ora gli avvenimenti terrestri sono determinati da quelli celesti: dunque la serie di tutti gli effetti dipende necessariamente dalla necessità della volontà divina.
"Se fosse possibile ad un uomo, dice Avicenna, conoscere tutte le cose che accadono in cielo e in terra nella loro natura, egli conoscerebbe tutti gli avvenimenti futuri e anche il modo del loro accadimento".
Da ciò egli ricava la giustificazione della predizione astrologica. Certamente l'astrologo non può dall'ispezione del movimento dei corpi celesti trarre predizioni infallibili, ma ciò è dovuto alla molteplicità delle circostanze da cui dipende l'avvenimento futuro, molte delle quali sfuggono alla sua considerazione, non alla falsità o insufficienza della sua scienza.
L'antropologia:
Ciò che distingue gli animali dotati di ragione da quelli che ne sono privi è il potere di conoscere le forme intelligibili. Questo potere è l'anima razionale che si suol anche chiamare intelletto materiale, cioè intelletto in potenza o intelletto possibile. Le forme intelligibili giungono all'anima in tre modi distinti.In primo luogo, attraverso una emanazione o infusione divina, senza alcun insegnamento e alcuna acquisizione d'origine sensibile: in tal modo è data all'uomo la conoscenza dei primi principi. In secondo luogo, per mezzo del ragionamento discorsivo e del pensiero dimostrativo; in questo modo giungono all'anima le specie intelligibili che sono oggetto della considerazione logica. In terzo luogo, attraverso i sensi, con l'aiuto di una capacità naturale ed innata. Mediante le specie intelligibili che così pervengono all'anima, l'intelletto in potenza diventa diventa intelletto in atto, identico con le specie stesse, in modo che è nello stesso tempo soggetto e oggetto di conoscenza (intelligens et intellectum).
L'intelligenza in potenza, la semplice sostanza intellettuale, si trova soltanto nei bambini, che sono ancora privi di ogni forma o specie intelligibile. In seguito, senza l'aiuto di alcuna scienza e di alcuna meditazione, si raggiunge la conoscenza dei principi primi. Tali principi sono le verità immediatamente evidenti, cui si assentisce appena si intendono, come, per esempio, "Il tutto è maggiore della parte" e "Due contrari non possono simultaneamente appartenere ad un'unica cosa".
Essi non possono derivare dall'esperienza sensibile: che non può essere il fondamento di un giudizio necessario, perché non esclude il giudizio contrario a quello che suggerisce.
Quei principi devono essere dunque il prodotto di un'emanazione divina alla quale l'anima è unita continuamente o saltuariamente. Una volta che, in virtù di tale emanazione, l'anima ha acquistato la conoscenza dei primi principi, l'intelletto di essa è già in atto e la sua attività può arricchire il patrimonio intelligibile che le è stato somministrato dall'alto.
Interviene allora l'attività discorsiva dell'intelletto, che procede per composizione e divisione, cioè per analisi e sintesi, e questo lavorio è diretto dai primi principi di cui l'anima è in possesso. Altre forme intelligibili o conoscenze razionali l'anima ricava per via di astrazione dall'esperienza sensibile. L'astrazione e l'attività discorsiva che compone e divide, sono dunque i due mezzi fondamentali attraverso i quali l'anima umana acquista e arricchisce le sue conoscenze razionali e costituiscono l'intelletto acquisito.
C'è poi una via diretta di acquisizione, ma è eccezionale e riservata a pochi: "In alcuni uomini le veglie prolungate e una certa intima unione con l'Intelletto universale (cioè l'Intelletto in atto di Dio) hanno dato al potere della ragione una tale disposizione che l'anima razionale di questi uomini, per conoscere e accrescere la scienza, non ha più bisogno di alcun ragionamento discorsivo, di alcun soccorso della riflessione. Questa disposizione si chiama santità e l'anima che ne è dotata si chiama santificata. Ma questa grazia e questa dignità sono accordate soltanto ai profeti ed agli apostoli, nei quali risiede la salvezza".
Questa è senza dubbio un'eccezione: per gli altri uomini il rapporto immediato con l'emanazione o con l'essere da cui essa proviene è limitato e saltuario perché impedito dal corpo.
Da ciò Avicenna ricava, platonicamente, una prova della immortalità dell'anima: "Quando l'anima si sarà separata dal corpo, la continuità che unisce l'anima con l'Essere che la perfeziona e da cui essa dipende non sarà soppressa. L'unione continua la realtà, da cui essa deriva la sua perfezione e da cui dipende, metterà l'anima al sicuro da ogni corruzione, tanto più che essa non rimane distrutta neppure quando si allontana o si separa da quella realtà. L'anima dunque rimane dopo la morte costantemente immortale, in dipendenza da quella alta sostanza che si chiama Intelletto universale e che i dottori delle diverse religioni chiamano Sapienza di Dio".
Avicenna riporta così l'immortalità, come la santità e la sapienza, alla diretta azione dell'Intelletto divino cioè dell'Essere necessario. Ma poiché l'Essere necessario è anche il bene, la felicità consiste nella contemplazione dell'essere necessario cioè nella scienza di quest'essere, quale è data dalla filosofia.
Attraverso la filosofia l'uomo tende quindi al Bene supremo che è anche la sua origine; e al bene supremo tendono pure tutte le cose create, ognuna nel modo e nella via che le è propria. L'amore di cui Avicenna parla nei "Trattati mistici" è pertanto, in conformità della concezione aristotelica, la tendenza delle cose al bene cioè al fine supremo, tendenza che garantisce l'ordine e la perfezione del tutto.
Nell'uomo, e soprattutto nel saggio, quest'amore è desiderio di contemplazione dell'essere necessario. Avicenna si ferma a sottolineare la superiorità del saggio sugli altri uomini: il saggio fa disinteressatamente, al solo scopo di avvicinarsi alla verità, ciò che gli altri fanno per una specie di scambio commerciale, rinunciando a certi beni in questa vita per avere la ricompensa nell'altra.
La via mistica coincide perciò con la conoscenza filosofica ed entrambe si oppongono alle forme popolari del culto religioso, che tuttavia, secondo Avicenna, è obbligo del sapiente non disprezzare.