Il dialogo
Il genere dialogico ha avuto la sua massima espressione in Platone, che in forma di dialogo ha concepito la maggior parte dei suoi scritti, soprattutto quelli giovanili, che hanno Socrate come protagonista.
Per Platone la forma dialogica è la maneira in cui lo scritto può meglio riprodurre l'essenza del filosofare, e cioè il movimento della ricerca: il pensare stesso, in fondo, non è che un dialogo dell'anima con sé stessa (Teeteto, 189e): in forma dialogica sono perciò composte molte opere a carattere intimistico o meditativo dell'antichità, come i Soliloqui di Agostino o il Monologion e il Proslogion di Anselmo d'Aosta.
Nei dialoghi platonici l'esposizione del movimento della ricerca è prevalente anche rispetto alla fissazione del contenuto teorico o dottrinale, ragione per cui molti di essi presentano conclusioni apiretiche o sono di fatto inconclusi. Essi offrono una drammatizzazione della ricerca filosofica, il cui metodo è la dialettica, ovvero il procedimento che esamina varie alternative di un dato problema, confutandole o provandole. Questo metodo "brachilogico" si contrappone a quello dei "lunghi discorsi" tipico dell'arte oratoria cara ai sofisti: il suo scopo è l'educazione alla verità. Quando però questa sorta di "teatralizzazione" della ricerca filosofica (i dialoghi platonici furono realmente rappresentati in epoca romana) cede il passo a una sistematizzazione in chiave metodica della dialettica, come accade di fatto già nel Sofista o nel Politico, l'essenza originaria del genere dialogico passa in secondo piano a favore di uno stile positivo che della tipologia del dialogo conserva solo l'andamento, nella forma di una esposizione di tesi e antitesi da difendere o confutare logicamente.
Aristotele (che pure ha scritto dialoghi, come il Protrettico, per la maggior parte perduti) svaluta il dialogo platonico, classificandolo nel genere letterario delle "imitazioni in prosa" o mimi (Poetica I, 1447 b8), insieme ai dialoghi di Senofonte ed Eschine: il mimo era uno schizzo di vita quotidiana in forma dialogica, diffuso soprattutto in Sicilia.
Aristotele porta a compimento la trasformazione del dialogo in dialogo metodico o argomentazione dialettica, dandone una formalizzazione nel libro VIII dei Topici: si tratta di un procedimento con cui si può portare un interlocutore a trarre le giuste conseguenze da determinate premesse. Questo intento teoretico segna una delle strade che il genere dialogico prenderà nella storia successiva, quella delle disputationes medievali, a loro volta anticipate dalle disputationes in utramque partem di epoca romana. Cicerone ne ha fornito significativi esempi: in esse maestro e allievi danno prova delle loro abilità argomenattive nel sostenere o refutare tesi contrapposte (come nel confronto tra le tesi scettica e dogmatica del Lucullo).
L'uso di mettere a confronto tesi contrapposte al fine di meglio argomentarle e giustificarle (quaestio), confutando le obiezioni contrarie, ovvero l'applicazione del metodo socratico a questioni soprattutto di carattere teologico, viene introdotto nel Sic et Non da Abelardo (autore, fra l'altro del Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano) e dà origine al metodo scolastico della disputatio, che si affermò soprattutto tra il sec. XIII e il XIV: la disputatio, che vede l'intervento di un respondes e di un opponens, è uno scambio di domande e risposte tra maestro e allievi, o tra allievi, o altri personaggi, su argomenti prefissati o a piacere (quodlibet).
Delle varie quaestiones disputatae dell'epoca si hanno celebri esempi in Bonaventura e in Tommaso d'Aquino (La Verità), fino alle Disputazioni metafisiche (1597) di Suarez, che assumono di fatto un carattere enciclopedico.
Questa dimensione dottrinaria, logicizzante, argomentativi, assunta nella fase più tarda dal dialogo platonico, ispira gran parte dei dialoghi dell'epoca moderna, come il Dialogo sui massimi sistemi (1632) di Galileo, il Dialogo di un filosofo cristiano e d'un filosofo cinese sulla natura di Dio (1708) di Malebranche, i Tre dialoghi tra Hylas e Philonous (1713) di Berkeley, i Nuovi saggi sull'intelletto umano (1765) di Leibniz, i Dialoghi sulla religione naturale (1779) di Hume, il Bruno (1802) di Schelling. Spesso per la scelta del dialogo come genere espositivo di tesi filosofiche è dovuta alla possibilità di presentare, soprattutto in epoche di forte controllo del libero pensiero, tesi contrarie alle opinioni comuni, anticonformiste o critiche dell'ortodossia: così in Giordano Bruno (Dialoghi italiani, 1584), in molti libertini (Dialoghi composti a imitazione degli antichi di La Mothe Le Vayer, 1630; Stati e imperi della Luna e del Sole di Cyrano de Bergerac, 1657 e 1662; Dei miserabili arcani della Natura regina e dea dei mortali di Vanini, 1616), in Fontanelle (Dialoghi dei morti, 1683).
L'altra direzione imboccata dal dialogo platonico è quella pedagogica e moraleggiante delle diatribe, definite da Ermogene nelle Forme del discorso come "lo sviluppo di un qualche breve pensiero morale, in maniera da mantenere nell'interlocutore lo stato d'animo dell'oratore. Ne sono esempio i Florilegi di Stobeo, che inaugurano il cosiddetto stile "fiorito" (ricco di espedienti retorici come l'uso di diminutivi, proverbi, locuzioni del linguaggio comune e aneddoti), o le Diatribe di Epitteto.
In epoca contemporanea il dialogo, pur a fronte di una rivalutazione della sua valenza filosofica in sede teoretica sia nelle filosofie del dialogo sia nell'ermeneutica, soprattutto gadameriana, è pressoché scomparso come genere di scrittura filosofica, sostituito da altre forme, come quella epistolare o narrativa (romanzo, racconto e persino rappresentazione teatrale, di cui si hanno esempi importanti soprattutto nell'esistenzialismo, in particolare in Sartre).
Bibliografia
Dizionario filosofico Abbagnano
L'universale, filosofia