Il misticismo vedanta e gli ultimi sviluppi dell'induismo
L'origine del sistema vedanta, che, come abbiamo accennato, risale alla corrente mistica e gnostica del brahmanesimo, è sicuramente molto antica, se al III secolo d.C. si può far risalire il suo testo fondamentale, i Vedanta-sutra attribuiti a Badarayana.
Nel corso dei secoli il vedanta si scisse in molti indirizzi, fra cui si accesero vivacissime polemiche filosofiche. La diffusione delle sue scuole fu enorme, e vastissima la letteratura che ce ne è giunta, cosicché è assai difficile tracciare
una sintesi della sua storia.
La sistemazione classica del vedanta monistico fu condotta a termine da Sankara, considerato il maggiore pensatore dell'induismo. Nei commenti alle Upanisad ed ai Vedanta-sutra che Sankara scrisse nella sua breve vita (788-820 ca.)
si risente anche l'influenza su di lui del buddismo di Nagarjuna.
Secondo la filosofia di Sankara, rispetto alla realtà dell'assoluto - l'ineffabile ed indefinibile brahman o atman — il mondo empirico è soltanto una illusione (maya). Esso, paragonato ad un pezzo di corda che al buio appare come un serpente, « non è né non è »; il suo divenire illusorio è fondato sul brahman come l'apparenza del serpente è fondata sull'esistenza reale della corda.
La via per la liberazione dal dolore, di cui l'uomo soffre per la legge del karman, consiste nella presa di coscienza — ad opera del santo — che il mondo empirico, risultando sospeso fra essere e non essere, non si identifica né con l'uno né con l'altro. Se infatti la molteplicità empirica ed il dolore fossero assolutamente irreali, non esisterebbe la prigionia del samsara; se fossero reali, vani sarebbero i tentativi del saggio per eliminarli.
Interessante nel vedanta di Sankara è la concezione della maya, l'illusione, che non è autonoma dal brahman — nel qual caso si cadrebbe in una forma di dualismo — ma libertà magica insita nel brahman stesso. Attraverso la maya l'unità del brahman si proietta in molteplicità riflettendosi in un numero infinito di individui. Al di fuori della sfera dell'illusione non è neppure il dio creatore, giacché in realtà non esistono né creatore né creature.
Un'altra importante scuola vedanta è la visistadvaita, o scuola del monismo differenziato, fondata da Ramanuja (morto, secondo la tradizione, ultracentenario nel 1137). Egli parte dalle stesse premesse di Sankara, ma giunge alla conclusione che la molteplicità del mondo empirico non è solo un'illusione, al di là dell'essere e del non essere, ma piuttosto qualità eterna e reale del brahman. Con il brahman, l'assoluto metafisico, Ramanuja identificò dio, il quale trarrebbe la sostanza per la creazione del mondo dalla sua stessa infinità, comprendente sia lo spirito sia la materia.
Il mondo materiale — la cui realtà è garantita proprio dalla creazione divina —non sarebbe rispetto a dio qualcosa di nuovo, ma l'assunzione per lui di nuovi modi di essere. In questo senso Ramanuja accetta la teoria della preesistenza dell'effetto (il mondo della differenziazione) nella causa (dio indifferenziato, incondizionato, al di là del tempo, dello spazio e della causalità).
Violenti critici di Sankara furono poi Bhaskara (IX-X secolo) e Madhva (1197-1276), con cui la reazione realista al monismo portò ad una concezione dualistica della realtà.
I dibattiti fra le diverse scuole vedanta continuarono anche oltre la conquista musulmana (XI-XIV secolo), e si può dire che il vedanta rimanga ancor oggi la filosofia più viva dell'India. Una rinascita della religione e della filosofia induista può datarsi anzi proprio agli ultimi due secoli, quando, in seguito alla colonizzazione inglese (fine del XVIII secolo, primi decenni del XIX), la penetrazione del pensiero occidentale ed il crescere del nazionalismo agirono come stimolo ad una maggior presa di coscienza culturale ed allo studio approfondito della storia e della civiltà indigene.
Numerosi tentativi di riforma del brahmanesimo si succedettero nel XIX secolo, dal brahmosamaj, fondato da Ram Mohan Roy nel 1828, che combatté il politeismo e l'idolatria ed abolì fra i suoi seguaci le distinzioni di caste, alla Società teosofica, che predicò anche al di fuori dell'India gli elementi più elevati della religione e della filosofia indù, raccogliendo proseliti soprattutto nelle classi colte indiane.
Sebbene fortemente influenzata dal pensiero occidentale, la nuova classe dirigente dell'India è rimasta profondamente attaccata all'esperienza millenaria della sua antica cultura e della sua tradizione filosofica (Gandhi, Aurobindo Gosh, Tagore, Radhakrishnan), pur combattendo le più arcaiche superstizioni popolari. Nelle università indiane si accosta oggi al pensiero indigeno quello occidentale, ma il vivace spirito nazionalista che anima le ricerche locali di filosofia e di storia della filosofia, teso a trovare una sintesi fra il misticismo indiano e la tradizione scientifica e politica europea, non sa vedere l'effettiva divergenza delle due culture.