Il monismo shivaita
Tra il IX e l'XI secolo si svilupparono, soprattutto nel Kaschmir, una serie di scuole filosofiche che alla rivelazione dei Veda sostituirono quella degli Agama. Il culto del dio Siva è il motivo centrale di questi testi, composti in un periodo ancora imprecisabile, che, ricollegandosi probabilmente alla religiosità aborigena dell'India prearia, riconoscevano una universale fratellanza fra tutti gli uomini, senza riguardo a caste e a nazionalità (arii e dravida).
La più importante delle scuole scivaite è quella che si formò attorno ad Abhinavagupta, pensatore enciclopedico e uomo di elevatissima cultura dell'XI secolo, che, per le sue idee sull'esperienza estetica - universale e tale da interrompere il corso del samsara - può considerarsi anche il fondatore dell'estetica indiana.
Per le scuole scivaite, che presentano forti tendenze mistiche, la realtà è una assoluta unità, per sé indescrivibile, che si identifica con la altrettanto indescrivibile essenza dell'io umano, e Shiva è il mezzo con il quale l'assoluto si rende accessibile agli uomini, ottenebrati dalla nescienza innata e dalla accumulazione del karman.
La causa materiale ed efficiente dell'universo è dio, un dio però non esterno ma identico al mondo. Tutti i possibili accadimenti non sono che manifestazioni dell'evolversi della coscienza divina e manifestazioni della sua libera volontà. La potenza divina entra in funzione in virtù della sua incondizionata autonomia, e produce l'attuarsi del mondo come « un ordinato succedersi di onde sulla superficie del mare ». Il processo di moltiplicazione si immagina secondo trentasei categorie, che non sono però altro che mere manifestazioni dell'assoluto. Una di queste categorie è la maya, potere di limitazione e di oscuramento, principio della qualità, da cui ha inizio il processo di individuazione.
Nell'affrontare, sotto l'influenza degli scritti di Bhartrhari, il problema della conoscenza, gli scivaiti sostennero, in polemica con i logici buddisti, la sostanziale unità dei due momenti della conoscenza (conoscenza sensibile e conoscenza discorsiva), che non potrebbero esistere separatamente. L'individuale percepito è per gli scivaiti già un'immagine discorsiva, l'universale stesso che, in contatto con le immagini di spazio e di tempo, si priva dell'eternità e dell'ubiquità.
Peraltro l'oggetto prima di apparire come universale o come particolare al conoscere discorsivo, vibra in unità con la coscienza, preesiste in noi, come racchiuso nella tensione iniziale precedente ogni nostro conoscere. Questa tensione costituisce il nucleo più profondo della nostra coscienza, ed è chiamata dagli scivaiti « volontà »: il conoscere discorsivo non sarebbe che una autodeterminazione della « volontà » innata che spontaneamente si limita nelle singole nozioni, ed i tre stadi della parola di Bhartrhari (la « grossa », la « mediana », la « veggente ») ne rappresenterebbero soltanto tre aspetti.
Un importante concetto del pensiero scivaita è la libertà che caratterizzerebbe l'io. La molteplicità non sarebbe frutto della nescienza, ma al contrario, giudicata positivamente, sarebbe frutto della libertà dell'io che attraverso di essa si afferma e si esprime. Senza la molteplicità l'io si ridurrebbe a statica identità, priva di vita. Le cinque operazioni attribuite tradizionalmente a Siva (creazione, mantenimento, riassorbimento, grazia e oscuramento) non sono più considerate come stadi di una realtà che si evolve indipendentemente dalla nostra coscienza, ma come momenti della coscienza e dell'io che si esprimono attraverso questo processo.
E' chiaro allora che l'io, la coscienza che si identifica con l'assoluto, è lo stesso samsara, che ne rappresenta la storia senza la quale esso non sarebbe che un nome. La liberazione dell'anima individuale, oscurata per effetto della maya e del karman, consisterà proprio nel riconoscere la sua natura divina, nel riconoscere la beatitudine e la libertà divine che si nascondono nel dolore apparente del samsara. Come già aveva affermato Nagarjuna, anche per gli scivaiti « il nirvana non è, in realtà, altro che il divenire fenomenico ».