Introduzione alla storia della filosofia antica
La prima storia della filosofia è stata scritta dal filosofo Aristotele (IV secolo a.C.), grazie al quale conosciamo i caratteri costitutivi che la filosofia avrebbe assunto ad opera dei pensatori ionici. La ricostruzione operata dallo Stagirita condiziona ancora oggi, per la carenza di testi di quei pensatori, la nostra conoscenza e valutazione dei più antichi pensatori greci.
Nel primo libro della "Metafisica", prima di esporre le dottrine dei suoi predecessori sui principi e sulle cause di tutte le cose, Aristotele attua una delucidazione del movente che li spinse ad attuare ricerche e indagini di questo tipo. Egli individua questo movente nella meraviglia, che progressivamente da oggetti a portata di mano si estende alla totalità dell'universo e conduce una forma di indagine disinteressata, avente come unico obiettivo la conoscenza stessa. Ho pensato di riportare qui un pezzo del I libro della "Metafisica", che secondo me è molto significativo nel comprendere appieno l'indagine filosofica.
"Basta guardare a quelli che per primi hanno esercitato la filosofia, perché risulti chiaramente che la sapienza non è un sapere produttivo. Infatti gli uomini, sia da principio sia ora, hanno cominciato a esercitare la filosofia attraverso la meraviglia. Da principio esercitarono la meraviglia sulle difficoltà che avevano a portata di mano; poi, progredendo così poco alla volta, arrivarono a porsi questioni intorno a cose più grandi, per esempio su ciò che accade alla luna, al sole e agli astri e sulla nascita del tutto. Chi si pone problemi e si meraviglia crede di non sapere; perciò anche colui che ama i miti è in certa misura filosofo, perché il mito è costituito da cose che destano meraviglia. Sicché, se gli uomini filosofarono per fuggire l'ignoranza, è evidente che cercarono il sapere per il conoscere, e non per trarne un utile. Ne è prova ciò che è accaduto: infatti quando ormai possedevano quasi tutte le cose necessarie e quelle occorrenti per un'esistenza confortevole e piacevole, gli uomini cominciarono a esercitare questo tipo di intelligenza. E' chiaro dunque che noi non cerchiamo questo sapere per nessun altro uso, ma come dell'uomo diciamo che è libero quando esiste per se stesso e non per altro uomo, così cerchiamo questa scienza come quella che è l'unica tra le scienze a essere libera, perché è l'unica che ha come fine se stessa. Perciò giustamente si potrebbe pensare che il possesso di essa non è umano, perché in molti sensi la natura degli uomini è serva, sicché, secondo Simonide "Dio soltanto avrebbe questo privilegio" [...]. Ma la divinità non può essere invidiosa, e, secondo il proverbio, i poeti raccontano molte menzogne; e non bisogna credere che ci sia un'altra scienza che valga più di questa. La scienza più divina è anche quella che vale di più. E questa, della quale parliamo; è la sola scienza che possa essere divina, in due modi: perché è divina fra le scienze o quella che soprattutto Dio potrebbe avere, o quella che fosse scienza di cose divine. La sapienza di cui parliamo è la sola alla quale siano toccate queste due proprietà: si ritiene infatti che la divinità sia una delle cause di tutte le cose e un principio, e la divinità è l'unica che potrebbe possedere questa scienza o almeno quella che potrebbe possederla nel grado più alto. Tutte le altre scienze sono più necessarie di questa, ma nessuna è migliore di essa. Il possesso di questa scienza deve in qualche modo portarci a uno stato contrario a quello nel quale si dà inizio alle ricerche.
Come abbiamo detto, tutti gli uomini incominciano con il meravigliarsi che le cose sono come sono, per esempio a proposito degli automi che si muovono da sé, o dei solstizi o della incommensurabilità della diagonale del quadrato con il lato (del fatto che non esista un'unità così piccola con la quale si possa misurare la diagonale e il lato, si meravigliano soltanto quelli che non ne hanno mai considerata causa). Ma bisogna arrivare al contrario dalla meraviglia iniziale, e, come dice il proverbio, a ciò che è migliore. Del resto così avviene nei casi citati, quando si è imparato: infatti la cosa che più meraviglierebbe un uomo che conoscesse la geometria sarebbe proprio la commensurabilità del lato e della diagonale." ( Metafisica, I, 2 982b 11- 983a 21)
Aristotele, secondo me, in questo brano intende evidenziare che il sapere al quale la filosofia si ispira non coincide con il sapere utile e proprio delle tecniche produttrici di oggetti. Esso è un sapere disinteressato, ricercato al puro scopo si sapere, non per fini diversi dalla conoscenza stessa.
Lo Stagirita non separa drasticamente il filosofo da chi investiga i miti. Miti e problematiche filosofiche destano entrambi la meraviglia, in quanto contengono qualcosa di inaspettato e, quindi, di primo acchito inspiegabile: basti pensare agli straordinari contenuti dei racconti mitici su dei ed eroi, lontani dalle consuetudini della vita quotidiana.
Ma Aristotele connette anche esplicitamente il meravigliarsi alla convinzione di non sapere, ed è impossibile non intravvedere in questo collegamento un riferimento alla prima figura di filosofo in senso vero e proprio, ossia Socrate, il quale aveva appunto sostenuto di sapere una sola cosa, cioè di non sapere.
La filosofia appare in questo contesto posteriore cronologicamente alla nascita delle tecniche necessarie alla sopravvivenza , ma anche delle arti le quali procurano diletto e perfezionano la qualità della vita. La distinzione operata tra questi due livelli di tecniche era forse stata esplicitamente stabilita già dal pensatore Democrito.
Secondo lo Stagirita la filosofia, per poter essere esercitata, richiede scholè, ossia "tempo libero" dalle attività lavorative, ma anche politiche e militari, e non può dunque essere svolta da coloro che sono impegnati in queste attività.
Da un'altra parte, non essendo subordinata a fini dissimili dalla conoscenza stessa, essa è da considerarsi come un'attività totalmente libera, mentre le altre hanno sempre un carattere puramente strumentale.
Questo appello al carattere libero e non subordinato ad altro della filosofia era particolarmente forte in una società come quella greca, dove si poteva percepire immediatamente la presenza degli schiavi i quali erano considerati come esseri completamente subordinati. Al modello negativo rappresentato dallo schiavo, Aristotele contrappone quello totalmente positivo, ossia, quello del filosofo.