La critica dei materialisti
In radicale opposizione con tutto lo spiritualismo e l'idealismo indiano, oltre che con la tradizione vedica, si posero fin da tempi molto antichi i materialisti, chiamati in India nastika (negatori) per le critiche ed i dubbi sollevati contro tutte le altre scuole, e più spesso carvaka (forse dal nome di uno dei loro maestri). Troviamo illustri rappresentanti dell'indirizzo materialistico in ogni periodo della storia indiana; dal musico Brhaspati Laukya, nominato nel Rg-Veda, al saggio Javali che nel Ramayana — uno dei due maggiori poemi epici dell'India antica —si racconta avesse sostenuto che non vi è alcun essere superiore al monarca terreno. E' dunque probabile che i pensatori materialistici avessero dato luogo nei secoli a diverse scuole filosofiche, ma per l'opposizione della restante tradizione filosofica indiana tutte le loro opere sono andate oggi perdute, così che per la ricostruzione del pensiero carvaka ci si deve accontentare delle citazioni sparse in opere buddiste, giainiste ed induiste, che ne deformarono spesso le teorie, attribuendo fra l'altro ai maestri del materialismo una condotta licenziosa ed un comportamento antisociale.
In campo gnoseologico i filosofi carvaka che - vengono sempre presentati come esperti nell'uso dei cavilli sofistici - ritenevano che alla conoscenza della verità possa portarci soltanto la percezione sensoriale, e che sia dubbio tutto ciò che non è riconducibile ad essa. Piena di ambiguità, assurdità e contraddizioni giudicavano la « testimonianza » di altri individui ed opere, compresi i Veda, e nessuna validità attribuivano all'inferenza, che implica una relazione universale non percepibile coi sensi. Su quest'ultimo punto però alcuni carvaka - spinti forse dalle difficoltà che ne derivavano alla stessa vita quotidiana - furono meno radicali ed ammisero che l'inferenza possa essere un mezzo di « conoscenza probabile » (ad esempio: dove c'è fumo, c'è fuoco), purché non pretenda di anticipare il futuro. Certo i carvaka non credevano alla relazione di causa ed effetto, e ritenevano che tutti gli eventi siano spontanei ed accidentali, tali da non rendere necessario il ricorso ad alcun essere soprannaturale come loro causa prima.(1)
Tutti gli oggetti che conosciamo con la percezione sensoriale sono formati dalla combinazione di quattro elementi primari ed eterni: terra, acqua, aria e fuoco (l'etere è negato in quanto non percepibile). Anche la coscienza non sarebbe altro che una mescolanza di questi elementi; per le sue particolarità caratteristiche essi la paragonavano ad una miscela velenosa di elementi che presi uno per volta non procurano alcun male. Alla dissoluzione del corpo, anche gli elementi della coscienza, che ne sono una parte, si mescolerebbero con altri elementi, dando luogo a nuovi composti.
« Immagina, » dice ad esempio un passo materialistico, in polemica con le filosofie animistiche, « che alcuni uomini avendo afferrato un ladro che ha commesso peccato me lo presentino: " Eccoti, signore, un ladro che ha commesso peccato; a costui infliggi quella punizione che desideri. " Così io direi: " Allora, o signori, dopo aver gettato quest'uomo vivo in un orcio, dopo avere a questo chiuso la bocca, dopo averlo coperto con pelle fresca, dopo aver fatto sopra a lui una spessa cementatura con umida creta, dopo averlo collocato in un forno, ponete fuoco. " E quelli dopo aver consentito dicendo: " Va bene " pongano fuoco. Quando noi conosciamo che quest'uomo è morto, allora, dopo aver tirato giù quell'orcio, dopo averlo liberato dall'involucro e dopo avergli aperto la bocca, celermente noi guardiamo pensando: " Forse noi possiamo vedere la sua anima (jiva) mentre esce. " Ma noi non vediamo l'anima uscire. Questa appunto è la prova per la quale io penso: " Anche così non c'è un altro mondo, non c'è frutto e maturazione delle azioni buone o cattive."
In campo morale alcuni filosofi carvaka - i più estremisti — negavano l'esistenza stessa del bene e del male, ed ammettevano solo un cieco impulso vitale; altri, rifiutando la teoria del karman e delle conseguenze che in questa od in un'altra vita possono derivare dalle azioni buone o cattive, affermavano che unico scopo ragionevole per l'uomo è il piacere, la soddisfazione dei sensi. Opponendosi al pessimismo di tutte le scuole idealistiche, essi non condannavano la vita come piena di dolore, e ritenevano anzi la somma dei piaceri maggiore di quella dei dolori, e la stessa sofferenza capace di farci meglio apprezzare la felicità (il piacere perpetuo creerebbe la noia). Sulla base di questi principi è dunque impossibile liberarsi dal dolore, neppure tagliando ogni legame di affezione con questo mondo, giacché il nostro cuore diverrebbe « arido come il deserto », ed è stolto evitare le occasioni del piacere per timore del dolore che può nascondersi in esso. Condotta morale è vivere coraggiosamente, gioendo del piacere e soffrendo del dolore.
Le idee rivoluzionarie testé accennate in campo gnoseologico e morale portarono i materialisti a posizioni assai progressiste anche sul piano politico. Tutti gli uomini sono uguali di fronte al piacere: ad esso hanno ugual diritto i brahmani come i membri delle classi più umili, e non si deve per il proprio piacere far violenza ad altri; il re terreno, arbitro della giustizia sociale, non trae il proprio potere da altro che dal riconoscimento del popolo.
(1) Alla problematica gnoseologica dei carvaka si avvicina quella degli scettici, di cui è stata recentemente pubblicata un'opera, forse del IX secolo. Essi, compiendo un passo oltre la negazione carvaka della validità dell'inferenza, giungono a negare anche la validità della percezione, in base al fatto che non possiamo mai essere sicuri che l'oggetto percepito dai sensi sia la vera causa della nostra percezione, e che la percezione sia esatta.