L'atomismo vaisesika e la logica nyaya
Le critiche e le teorie dei materialisti hanno esercitato un influsso più o meno forte su tutti i grandi sistemi filosofici indiani; dove però sono state rielaborate in modo più consono a tutta l'esperienza culturale indiana è nell'atomismo vaisesika e nella logica nyaya, due sistemi che, originariamente indipendenti, si avvicinarono sempre di più e si completarono a vicenda per difendersi dagli attacchi delle scuole idealistiche.
La scuola vaisesika (da vaisesa, particolare) fondata secondo la tradizione da Kanada, a cui è attribuito il testo principale del sistema, i Vaisesika-sutra (I secolo d.C.?) — « particolarizza » la realtà in sei categorie, che non hanno solo un valore gnoseologico, ma una vera e propria sussistenza ontologica: sostanza, qualità, attività, generalità, particolarità ed inerenza. Tra le sostanze — in numero di nove, e cioè aria, acqua, terra, fuoco, etere, tempo, spazio, anima ed intelletto — le prime quattro sono composte — secondo la scuola in esame — dei corrispondenti atomi (anu, sottile), eterni ed indivisibili, percettibili soltanto nei loro aggregati, le molecole, della grandezza di un granello di polvere visibile in un raggio solare. « L'atomo è la parte costitutiva di una molecola binaria. Ed esso è eterno. »
Non è difficile rendersi conto dell'opposizione e degli aspri dibattiti che la teoria atomista sollevò nella tradizione filosofica indiana, quale abbiamo potuto caratterizzarla nella nostra breve rassegna. Alcuni filosofi idealisti, come il buddista Vasabandhu, la contestarono con argomentazioni che divennero celebri, del tipo: « Se l'atomo venisse a trovarsi contemporaneamente a contatto spaziale con sei altri atomi, esso avrebbe sei parti. Se invece gli atomi coincidessero tutti e sei nel medesimo spazio, tale aggregato avrebbe la grandezza di un solo atomo. Se d'altro canto l'atomo non venisse a contatto con altri atomi, di che cosa sarebbero composti gli aggregati? »
A tali contestazioni di natura logica la scuola vaisesika scelse significativamente di rispondere con un richiamo all'esperienza: « Gli avversari obiettano che l'atomo, avendo delle parti, non può dirsi atomo, giacché è opinione comune che l'estensione delle parti che lo costituiscono è minore di esso atomo; allora, diciamo noi, chiamiamo pure atomi queste sue parti; ma gli avversari non lo ammettono, perché queste parti hanno a loro volta delle parti. Se così è, concludiamo noi, si cade in un regresso ad infinitum, ed allora non può più ammettersi l'esistenza di aggregati di diverse dimensioni, perché il numero finito di coefficienti, che è ragione della minore o maggiore estensione, non sarebbe più possibile, in quanto tutte le cose sarebbero composte indistintamente da un infinito numero di coefficienti. Ma l'esperienza ci prova che le cose hanno di fatto differenti estensioni e noi dobbiamo perciò concludere che la divisibilità degli aggregati non può procedere all'infinito. »
Pur considerando gli atomi eterni ed increati, il sistema vaisesika sentì il bisogno di attribuire il loro ordinato aggregarsi e dissociarsi ad un dio — Isvara, la cui funzione ci ricorda quella del demiurgo del Timeo platonico — e concepì l'ordine del mondo come governato da leggi essenzialmente morali, come quella del karman, e non fisico-meccaniche. Si approfondiva in tal modo la differenza dall'atomismo greco già manifesta nella concezione vaisesika della natura non atomica di cinque delle nove sostanze: etere, tempo, spazio, anima ed intelletto. L'anima, ad esempio, veniva concepita come una sostanza eterna ed immateriale, non direttamente percepibile ai sensi, la cui esistenza, oltre che testimoniata dai Veda, sì può indurre dai suoi effetti direttamente sperimentabili: cognizione, desiderio, avversione, volizione, piacere, ecc.
La metafisica della scuola vaisesika, salvo l'esistenza necessaria di un dio ordinatore, fu accettata dall'altro grande sistema realistico dell'India antica, il nyaya (ragionamento corretto), che si interessò soprattutto di problemi gnoseologici ed elaborò un linguaggio tecnico estremamente preciso, contributo notevolissimo alla logica indiana. Il suo testo fondamentale, i Nyaya-stdra attribuiti a Aksapada, risalirebbe al III secolo d.C., ma la sua letteratura durò per più di un millennio, con una serie di importanti opere originali e di commenti, e fu rinnovata alla fine del XII secolo da Gangesa Upadhyava, fondatore della scuola navanyaya (nuovo nyaya).
Col trascorrere del tempo però la scuola nyaya si inaridì in un'abile ma sterile sofistica, irrigidita nella ripetizione meccanica delle proprie formule. Simile essa stessa ad una ritualistica, non fu forse estranea, nei suoi sviluppi più tardi, al diffondersi di sette mistiche in India.
Il problema centrale affrontato dalla scuola nyaya è la distinzione della conoscenza vera da quella falsa o approssimata. La prima sarebbe fondata su quattro pramana (« mezzi di retta conoscenza »): la percezione, l'inferenza, la comparazione (upamana, conoscenza di un oggetto per mezzo della sua somiglianza con un oggetto noto) e la testimonianza (sabda, parole e scritti di persone degne di fede, fra cui naturalmente la rivelazione). La conoscenza falsa o approssimata sarebbe invece fondata sulla memoria, sul dubbio, sull'errore e sul ragionamento ipotetico. Sorprendentemente moderno è il criterio che afferma la necessità di verificare la verità o la falsità della conoscenza attraverso i risultati della sua sperimentazione pratica.
Il primo dei pramana è, come abbiamo detto, la percezione (pratyaksa, ciò che cade sotto gli occhi), « prodotta dal contatto di un organo di senso con l'oggetto ». Questo contatto viene stabilito dalle vibrazioni emanate dagli organi sensori, che raggiungono l'oggetto percepito, ed è reso possibile dalla corrispondenza fra l'oggetto e l'organo sensorio: per i pensatori nyaya il tatto, che ha sede nella pelle, è collegato con l'aria; il gusto, che ha sede nella lingua, è collegato con l'acqua; l'olfatto, localizzato nel naso, è collegato con la terra; la vista,localizzata nell'occhio, è collegata con il fuoco, cioè la luce; l'udito, localizzato nell'orecchio, è collegato con l'etere.
Sesto senso è considerato l'intelletto (manas), che funge da mediatore fra gli altri sensi e l'anima, e rende così possibile la conoscenza. Opponendosi alle teorie dei logici buddisti, i pensatori nyaya sostengono l'unità tra conoscenza sensibile e conoscenza discorsiva: nella percezione, momento non soltanto sensorio ma mentale, sarebbero già insiti pensiero e linguaggio, né vi sarebbe conoscenza discorsiva senza rappresentazione sensibile. I concetti, dai buddisti ritenuti semplici immagini della mente, acquistano così nella gnoseologia nyaya valore di realtà.
Alla percezione segue, fra i mezzi di retta conoscenza, l'inferenza (amammo), che può essere a priori (dalla causa all'effetto), a posteriori (dall'effetto alla causa) ed analogica (dal particolare al generale). I tre termini di cui essa consiste prendono il nome di paksa (termine minore), sadhya (termine maggiore) e linga (termine medio, che permette di collegare il termine maggiore col termine minore). Con essi i logici nyaya costruiscono una forma di sillogismo che articolano in cinque membri:
1) pratijna, o asserzione: « Sulla collina vi è del fuoco »;
2) betu, o ragione: « perché vi è del fumo »;
3) udaharana, o proposizione generale con esempi: « Dovunque vi è del fumo vi è anche del fuoco, per esempio in cucina »;
4) upanaya, o applicazione: « Nella collina vi è del fumo »;
5) nigamana, o conclusione: « Dunque sulla collina vi è del fuoco ».
Sillogismo ed inferenza sollevarono vivaci discussioni che dettero luogo ad una accurata catalogazione dei principali errori o sofismi logici e delle ragioni più frequenti che li causano: chala, l'ambiguità, cioè l'uso della parola in un senso diverso da quello proposto ; jati, ossia il discorso che non porta a nessuna conclusione; nigrahastama, cioè argomenti che implicano, in una discussione, la sconfitta di chi vi fa ricorso o di chi non li avverte. I sofismi principali si hanno:
i) quando non si verifica sempre esatta la corrispondenza del termine medio col termine maggiore (medio irregolare);
2) quando il termine medio afferma l'opposto di quello che vorrebbe provare (o medio contraddittorio »), come ad esempio « il mondo è eterno perché causato »;
3) quando il termine medio è « contraddetto mediante inferenza », come ad esempio « il suono è eterno perché udibile » contraddetto da « il suono non è eterno perché è prodotto »;
4) quando il termine medio è esso stesso dubbio e necessita a sua volta di dimostrazione (petitio principii), come ad esempio « il suono è una qualità perché percepito dall'occhio »;
5) quando con la percezione si accerta la non esistenza del termine maggiore corrispondente al termine medio, come nel caso « il fuoco è freddo perché è una sostanza a, dove la percezione prova che il fuoco non è freddo.
Da un paragone che viene subito fatto di compiere con la logica aristotelica appare chiaro che, diversamente dal sillogismo aristotelico, che poggia soltanto sul rigore logico formale, i pensatori nyaya combinarono nel terzo membro del loro sillogismo l'inferenza con la percezione, convinti che il ragionamento sillogistico non possa garantire la validità delle conoscenze per semplice coerenza logica, e che per produrre conoscenza nuova esso debba essere verificato dalla percezione.
La loro teoria fu attaccata dai logici buddisti che limitarono ai concetti-immagini mentali il rapporto che il sillogismo stabilisce fra i termini del ragionamento, e negarono che tale rapporto possa essere percepito coi sensi. Inutili parvero loro anche il primo, il secondo ed il quinto membro del sillogismo, sìche lo restrinsero al termine minore e a quello medio.