Le scienze in India: matematica e medicina
L'organizzazione degli antichi stati indiani costituì un potente stimolo al progresso delle tecniche e delle scienze: interessanti testimonianze ci sono conservate fin da epoca molto antica sullo sviluppo, ad esempio, dell'arte militare con la costituzione dell'esercito di leva, e della scienza delle costruzioni, i cui trattati di edilizia privata, pubblica e religiosa sono stati non senza motivo paragonati al De architettura di Vitruvio.
Ma i sistemi metafisici e religiosi indiani, per il fatto di considerare il mondo empirico come illusorio dal punto di vista conoscitivo e come « grande ammasso di dolore » dal punto di vista etico, non permisero quella unione di scienza e cultura che tanto favorì lo sviluppo delle ricerche naturali in Grecia, particolarmente nel periodo alessandrino.
Accade così che di alcune scienze, anche assai importanti, troviamo in India solo le nozioni più elementari. La geografia rimase circoscritta alla conoscenza del proprio paese; l'astronomia si sviluppò scientificamente solo per l'influenza greca; la fisica e la chimica si arrestarono alle teorie dell'atomo o dei cinque elementi, che abbiamo visto diffuse nella speculazione indiana. Per quanto riguarda la zoologia e la botanica, non si formò una trattatistica particolare che andasse oltre l'interesse veterinario ed agricolo; esse vennero invece studiate in senso filosofico-metafisico da correnti che, come il giainismo, concepivano unitariamente tutti gli esseri viventi, comprese le piante.
A cause metafisiche - come le azioni ingiuste e malvage compiute in una precedente esistenza — piuttosto che a ragioni naturali erano riportate anche le malattie. La medicina, i cui inizi in India si possono far risalire al VII-VI secolo a.C., era perciò ritenuta incapace di eliminare le radici della malattia, onde le si attribuiva prevalentemente il compito di mitigare le sofferenze del malato, soprattutto nei casi di malattie considerate inguaribili, come la pazzia, la paralisi e la tubercolosi.
Malgrado questi limiti la medicina indiana raggiunse, abbastanza presto, un alto grado di specializzazione: in chirurgia venivano praticati interventi assai complessi come quelli della cateratta e della sutura dell'intestino, e con l'operazione della rinoplastica — mediante cui si poneva rimedio alla pena frequente del taglio del naso — si sviluppò anche una tecnica di plastica facciale; in genetica si studiò l'embrione in tutti i suoi stadi di sviluppo; in farmacologia e dietetica ci si servì delle proprietà curative di una grande quantità di piante e persino di alcuni composti metallici. Come remoto antecedente della moderna psicoterapia si può infine considerare la pratica yoga, capace di portare, attraverso il perfetto dominio delle proprie facoltà fisiche e psichiche, a sorprendenti forme di autoanestesia.
Ancora più interessanti per la nostra comprensione della cultura indiana sono i principi generali delle cure mediche, che non trattavano mai l'organo malato come avulso dall'unità-corpo umano, ma consideravano sempre lo stato di salute quale armonia complessiva di tutti gli organi e le membra fra loro. Vivaci discussioni ha suscitato fra gli storici della medicina la dottrina dei tre umori (kapha, o forza dell'anabolismo; pitta, o forza del catabolismo; vayu o forza nervosa), ciascuno dei quali presiederebbe ad un preciso complesso di funzioni vitali e concorrerebbe con gli altri ad equilibrare l'armonia dell'organismo. Tale teoria, in cui si è cercato a torto di ravvisare una derivazione della dottrina umorale di Ippocrate, rappresenta in un certo senso un precorrimento della endocrinologia moderna, e delle tre funzioni fisiologiche essenziali che regolano l'equilibrio organico : anabolismo, catabolismo, energia conservatrice o regolatrice.
Il campo in cui gli indiani hanno dato il maggior contributo allo sviluppo della scienza è senza dubbio quello della matematica, che per il suo carattere eminentemente astratto si avvicinava di più agli interessi della filosofia e della cultura indiana.
È probabile che gli indiani possedessero fin dal secondo millenio a.C. alcune cognizioni più o meno vaghe di matematica. Però i primi documenti autentici di carattere matematico pervenuti fino a noi appartengono ad un'epoca assai più tarda (non potendosi comunque escludere che ricapitolassero argomenti già noti da lungo tempo): sono i Sulva-sutra, databili fra il IV ed il III secolo a.C. Essi consistono in raccolte (scritte in versi) di precise regole, che espongono le norme da seguire nella costruzione degli altari dedicati ai sacrifici; alcune di tali regole testimoniano la conoscenza del teorema di Pitagora e del concetto di numero irrazionale.
Come risulta da documenti di epoca assai posteriore, la più antica matematica doveva anche trovare dirette applicazioni nell'astronomia. Questo legame tra le due discipline permane vivissimo nelle prime opere di vero impegno scientifico dovute agli autori che ora elencheremo. Il fatto però che esse risalgano ad un periodo in cui si erano già avuti (da secoli) stretti rapporti con la cultura greca ed alessandrina fa presumere che tali autori, pur ricollegandosi alla più antica tradizione scientifica indiana, abbiano attinto non pochi dei propri risultati dalla matematica e dall'astronomia occidentali. Sull'argomento sono sorte profonde discussioni fra gli studiosi moderni; esse investono più in generale il problema dell'originalità della matematica indiana.
Il primo grande matematico indiano fu Aryabhata (V-VI secolo d.C.), autore di un notevole trattato di astronomia, che dedica numerose pagine alla matematica; vi si trovano, tra l'altro, l'uso dello zero, alcuni chiari metodi per l'estrazione di radici quadrate e cubiche, un valore molto approssimato di π, una ben costruita tavola di seni e coseni. Dopo di lui va ricordato Brahmagupta (VII secolo), che scrisse un'interessante opera astronomica a carattere didattico, nella quale sono trattate con profondità molte questioni di algebra e di aritmetica (notevole la cura con cui vengono esposte le regole per compiere le operazioni aritmetiche sullo zero). Infine nel XII secolo Bhaskaracarya compose un famoso poema di cosmologia e matematica ove si trovano esposte in forma sistematica tutte le conoscenze astronomiche e algebriche accumulate durante secoli dal suo popolo; con questo scritto egli contribuiva, fra l'altro, a difendere la tradizione della matematica indiana di fronte alla cultura dei conquistatori arabi.
Mentre i greci avevano rivolto la loro attenzione soprattutto alla geometria, sviluppandola con meraviglioso rigore logico e ordine sistematico, gli indiani diedero alla loro matematica un indirizzo prevalentemente aritmetico-algebrico, e furono soliti presentarla in forma dogmatica, non razionale. Appositi vocaboli vennero coniati per designare numeri straordinariamente grandi e straordinariamente piccoli, mentre si coltivarono tecniche mnemoniche per la loro concezione ed il loro calcolo. Alcuni dei risultati più importanti raggiunti dagli indiani in campo aritmetico passarono, attraverso la mediazione araba, in Europa, favorendovi lo sviluppo di questa scienza e l'uso dei grandi numeri; altri risultati, rimasti ignoti, furono riscoperti indipendentemente in occidente qualche secolo più tardi. Basti ricordare, fra i primi, l'uso dello zero, definito come « la somma di due quantità uguali ed opposte », e denotato con un simbolo apposito. L'uso di un simbolo particolare per lo zero, rendendo possibile il sistema di notazione posizionale (già introdotto dai cinesi), apportò — come è ben noto — una enorme semplificazione alle operazioni di calcolo.
Particolarmente importante fu l'introduzione in algebra di un certo simbolismo a base di lettere dell'alfabeto, che permise ai matematici indiani di fare rapidi progressi, di classificare le equazioni secondo il loro grado e di giungere alla formula risolutiva generale delle equazioni di secondo grado. Notevoli furono pure le loro ricerche in trigonometria, basate sulle funzioni trigonometriche ancora oggi in uso (seno, coseno, ecc.), non conosciute dai greci (che invece ricorrevano alla misura delle corde). Va infine ricordata la loro concezione matematicamente assai progredita dell'infinito, che Bhaskaracarya definiva come « una quantità finita divisa per zero », in cui « non vi è alterazione, anche se vi si inseriscono o se ne estraggono molte unità ».