Platone : vita, opere e pensiero
Vita in sintesi:
427 Platone nasce ad Atene. Diogene Laerzio ci riferisce che Apollodoro indicava come data di nascita l'ottantottesima Olimpiade (428-425), nel mese di Targelione, corrispondente al nostro maggio-giugno, nel giorno in cui gli abitanti dell'isola di Delo dicevano essere nato Apollo. "Platone" non e' il nome che gli era stato imposto dai genitori, ma un soprannome. In Diogene Laerzio sono riportate tre differenti interpretazioni del nomignolo: secondo alcuni, era stato il maestro di ginnastica a chiamarlo cosi' per l'ampiezza della sua corporatura (in greco platos significa appunto estensione e ampiezza), secondo altri aveva avuto questo nomignolo per l'estensione e l'ampiezza della sua fronte; secondo altri ancora, invece, per l'estensione del suo stile. La prima indicazione e' la piu' probabile. Il suo vero nome era Aristocle, nome del nonno paterno. Il padre di Platone, Aristone, discendeva da una famiglia che vantava tra i suoi antenati il re Codro. Anche la madre Perictione apparteneva a una nobile e potente famiglia, di cui Diogene Laerzio scrive quanto segue: "Platone era figlio di Aristone e Perictione (...), che faceva risalire la sua ascendenza a Solone. Dropide era fratello di Solone ed era padre di Crizia, del quale era figlio Callescro. Di Callescro furono figli Crizia, che fu uno dei Trenta [scil. tiranni] e Glaucone. Glaucone fu padre di Carmide e Perictione. Da Perictione e da Aristone nacque Platone". Da Perictione e da Aristone nacquero anche Adimanto e Glaucone (Platone stimo' e onoro' questi suoi fratelli, introducendoli come interlocutori nella Repubblica), e una figlia di nome Potone, da cui nacque Speusippo, che sara' successore di Platone nella direzione dell'Accademia.
409-407 Periodo della efebia. Stando ad Aristosseno (fr. 11 Wehrli), Platone avrebbe preso parte per tre volte a campagne militari: a Tanagra, a Corinto e a Delio, appunto in questo periodo di tempo. A Delio avrebbe ottenuto anche un premio per il suo valore.
408-407 A vent'anni Platone divenne discepolo di Socrate. Prima di diventare discepolo di Socrate, Platone si dedico' ad attivita' poetiche e frequento' l'eracliteo Cratilo. Diogene Laerzio ci riferisce alcune notizie, che, per quanto possano essere inquinate, contengono senza dubbio elementi di verita': "C'e' pure chi dice, come Dicearco nel primo libro Delle vite, che egli abbia partecipato alle gare di lotta all'Istmo, e che abbia studiato pittura e scritto poesie, prima ditirambi, poi anche canti lirici e tragedie. (...) Si narra che Socrate abbia sognato di avere sulle ginocchia un piccolo cigno che subito mise ali e volo' via e dolcemente canto', e che il giorno dopo, presentandosi a lui Platone come alunno, abbia detto che il piccolo uccello era appunto lui. Studiava filosofia all'inizio (...), seguendo le teorie eraclitee. Poi mentre si accingeva a partecipare con una tragedia all'agone, udita la voce di Socrate, dinanzi al teatro di Dioniso, brucio' l'opera esclamando: "Efesto, avanza cosi': Platone ha bisogno di te". Da allora, dicono - e aveva vent'anni -, fu discepolo di Socrate fino alla sua morte". Sui rapporti di Platone con l'eracliteo Cratilo si veda anche quanto dice Aristotele in Metafisica, libro primo, capitolo sesto. Gli anni passati accanto a Socrate furono decisivi per Platone, a tutti gli effetti, non solo per il suo pensiero, ma anche per le sue scelte esistenziali.
404 Si conclude la guerra del Peloponneso e si impone la supremazia di Sparta; ad Atene assumono il governo gli oligarchici con i cosiddetti "Trenta tiranni", fra cui elemento di spicco era proprio Crizia, zio di Platone, che lo invito' a partecipare al governo, da cui, peraltro, questi presto si ritrasse deluso.
403 In seguito alla rivolta dei democratici, Crizia muore nella battaglia di Munichia, e cade il governo dei Trenta tiranni.
399 Socrate viene condannato a morte. Della condanna furono in larga misura responsabili i democratici, che dal 401 avevano saldamente ripreso il potere. E questo convinse Platone che per il momento era bene tenersi lontano dalla vita politica militante. Probabilmente, subito dopo la condanna di Socrate, Platone si reca a Megara, con alcuni Socratici (forse per evitare possibili persecuzioni, che potevano venirgli inflitte per aver fatto parte del circolo dei Socratici). Ma a Megara, probabilmente, si ferma solo per poco tempo.
388 Platone si reca in Italia meridionale, spinto dal desiderio di conoscere le comunita' dei Pitagorici. Dalla Lettera VII (388 C) sappiamo che conobbe Archita. Durante questo viaggio si reca a Siracusa presso il tiranno Dionigi I, che probabilmente egli sperava di convertire al suo ideale di re-filosofo e agli ideali espressi nel Gorgia (scritto subito prima o subito dopo questo viaggio). A Siracusa stringe un forte legame di amicizia con Dione, parente del tiranno, in cui Platone ritiene di trovare un discepolo capace di diventare re-filosofo. Dionigi si irrita fortemente con Platone, al punto da farlo vendere come schiavo a Egina. Fortunatamente, a Egina si trova il socratico Anniceride di Cirene che lo riscatta, come ci narra Diogene Laerzio. (La narrazione, forse, e' un po' forzata; Platone potrebbe essere stato costretto a sbarcare a Egina, che, essendo in guerra con Atene, potrebbe averlo preso come schiavo; questa e', comunque, un'ipotesi). Oltre a questo sicuro viaggio in Italia, perche' di esso si parla nella suaLettera VII, e' possibile che Platone ne abbia fatti anche altri in Africa. Ci dice Diogene Laerzio: "Ando' a Cirene da Teodoro il matematico, quindi in Italia dai Pitagorici Filolao ed Eurito. E di qui in Egitto dai profeti, dove dicono gli sia stato compagno Euripide. (...) Platone aveva anche deciso di incontrarsi con i Magi, ma le guerre in Asia lo costrinsero a rinunziarvi". Si tratta di viaggi possibili, ma non confermati in modo preciso.
387 A partire da questa data, Platone, tornato ad Atene, si impegna a fondare una scuola. Acquistato un ginnasio e un parco dedicato all'eroe Accademo, apre qui una scuola che viene chiamata, dal nome dell'eroe, Accademia. Il Menone e' probabilmente il primo manifesto programmatico della scuola. L'Accademia si afferma subito e richiama molti giovani e uomini illustri.
367 Platone si reca una seconda volta in Sicilia, a Siracusa. Morto Dionigi I, gli era succeduto Dionigi II, che, a dire di Dione, avrebbe potuto realizzare i disegni di Platone ben piu' del padre. Ma Dionigi II si rivela subito essere come il padre. Esilia Dione con l'accusa di tramare contro di lui. Trattiene Platone quasi come un prigioniero.
365 In seguito allo scoppio di una guerra, che impegna personalmente Dionigi, Platone puo' lasciare Siracusa e tornare ad Atene.
361 Platone si reca per la terza volta in Sicilia a Siracusa. Dione, che si era rifugiato ad Atene, lo convince ad accogliere il pressante invito di Dionigi II a ritornare, sperando di placare il tiranno. Ma i rapporti con Dionigi si aggravano subito e di molto. Solo per l'intervento di Archita e dei Tarantini Platone si salva.
360 Platone ritorna ad Atene.
357 Dione riesce a prendere il potere in Siracusa.
353 Dione viene ucciso da una congiura capeggiata da Callippo.
347 Platone muore in Atene all'eta' di circa ottant'anni.
Le opere:
Il corpus delle opere di Platone, come ci è pervenuto, è formato dall'Apologia di Socrate, da 34 dialoghi e da 13 lettere: in tutto 36 titoli, che vennero raggruppati in 9 tretalogie dal drammatico Trasillo (sec. I d. C). Questo ordinamento è tutt'ora seguito nelle edizioni critiche; ma non tutti i dialoghi sono ritenuti autentici. Sulle Lettere i pareri sono discordi; ma sono generalmente ritenute autentiche la VII e l'VIII. Quanto alla cronologia, la critica moderna ha puntato su tutti i dati disponibili, ma decisivo è risultato il criterio "stilometrico"; poiché è attestato che l'ultima opera di Platone sono le Leggi, si ha così un termine di riferimento, a partire dal quale le altre opere possono essere scaglionate all'indietro, sulla base della frequenza di un certo numero di stilemi, quali particelle, iato ecc...La classificazione complessiva, generalmente accettata, salvo qualche variante, è la seguente:
- dialoghi giovanili cosiddetti "socratici" (396-388 circa): Apologia di Socrate, Critone, Ipparco, Ippia minore, Alcibiade primo, Protagora, Eutifrone, Liside, Carmide, Lachete, Ippia maggiore, Ione, Menesseno.
- dialoghi della maturità (scritti fra il primo e il secondo viaggio in Sicilia): Gorgia, Menone, Eutidemo, Cratilo, Repubblica, Fedone, Simposio, Fedro
- dialoghi della vecchiaia: Teeteto, Parmenide, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi; e le Lettere.
La filosofia e la reminiscenza:
Per Platone il filosofo non è né il sapiente né l'ignorante. L'unico vero sapiente è la divinità, ma né il sapiente né l'ignorante cercano il sapere, il primo perché già lo possiede e il secondo perché non lo possiede, ma neppure avverte il desiderio di possederlo. Il filosofo è invece una figura intermedia tra questi, caratterizzata dal desiderio e dalla conseguente ricerca del sapere che ancora non possiede. Questo tema sviluppa la rappresentazione di Socrate, data da Platone nei suoi primi dialoghi: Socrate, ossia il filosofo, non sa, ma sa di non sapere e perciò si avvia alla ricerca del sapere. In questo senso l'atteggiamento fondamentale del filosofo è l'èros, ossia l'amore. Come il dio Eros, il filosofo è figlio della Povertà, in quanto è privo e bisognoso del sapere, ma è anche figlio di Poros, ossia della capacità di cercare di procurarsi ciò di cui è privo, trovando la via per arrivare a esso. In questo orizzonte trovano collocazione le metafore della via da percorrere e della caccia, con le quali frequentemente Platone descrive l'attività filosofica. Essa non consiste, dunque, come sovente pretendevano i sofisti, nella trasmissione del sapere da chi sa a chi non sa, come in una sorta di travaso a un recipiente pieno a uno vuoto. La funzione della scuola filosofica fondata da Platone non consiste in queste operazioni di travaso. Qual'è la sua funzione? La medicina greca, già nel V secolo, aveva posto al centro della sua pratica terapeutica la nozione di dieta, intesa come modo di vita fondato su determinate regole allo scopo di preservare o riconquistare la salute. Essa consisteva essenzialmente in un equilibrio tra alimenti ed esercii fisici. Platone utilizza questo modello anche per descrivere la forma più alta di vita, ossia la vita filosofica. Ma nel suo caso si tratta non tanto di formulare divieti o prescrizioni alimentari, come avevano fatto i pitagorici e come faranno i cinici, quanto di trovare una dieta dell'anima. Essa deve condurre ad armonizzare le passioni e l'intelletto, sottoponendo le prime al controllo e al comando del secondo. In questa prospettiva la stessa dialettica si configura come una forma di esercizio dell'intelletto, in grado di irrobustirlo e consentirgli di svolgere al meglio le sue funzioni.Ma quali sono gli equivalenti del nutrimento per quanto riguarda l'anima? Secondo Platone, essi sono i mathèmata, ossia gli oggetti di apprendimento. Tra questi rientra anche la virtù. Sul problema dell'insegnabilità della virtù, ossia delle doti che fanno di un uomo un uomo nel senso pieno della parola e un buon cittadino, si erano soffermati sia i sofisti, sia Socrate. Per Platone non è la città storicamente esistente che può insegnare la virtù, come aveva pretese Protagora. Neppure i grandi politici ateniesi del passato erano stati in grado di trasmettere ai propri figli le doti in cui eccellevano. Agli occhi di Platone la morte di Socrate è la conferma dell'essenza di virtù nella città che ha condannato l'uomo migliore. E Socrate è per Platone il sostenitore della tesi secondo la quale la virtù deve fondarsi sulla conoscenza di quale sia il vero bene.
Al sapere, dunque, e non alle emozioni o ai piaceri, spetta la guida della condotta umana: il piacere non può essere identificato con il bene. I beni sono molteplici, ma il bene vero e proprio per l'uomo è quello che riguarda la sua anima. Esso consiste in una condizione analoga a ciò che la salute è per il corpo. Da questo punto di vista la filosofia si costituisce come medicina, terapia dell'anima.Ma dove può essere ricercato e appreso il sapere capace di generare il bene dell'anima? Non nella città. La vera sede per cercarlo diventa la scuola filosofica. Ciò che occorre tuttavia chiarire in via preliminare è che cosa significa apprendere e come è possibile apprendere. Secondo Platone già prima della nascita ciascun individuo possiede il sapere entro di sé, ma al momento della nascita questo sapere viene dimenticato, pur continuando a rimanere latente nell'anima. Il compito dell'interrogazione filosofica è di far affiorare alla luce questo sapere.Nella scuola filosofica sapere e virtù diventano acquisibili, perché il sapere non si inventa né si costruisce dal nulla, ma è da sempre disponibile a chiunque, purché si sappia come attingerlo. La condizione di ciò è una ricerca interpersonale, condotta mediante il metodo delle domande e risposte.
Nel Menone Platone mette in scena uno schiavo, ignorante di geometria, il quale opportunamente interrogato da Socrate su un problema geometrico, riesce a rendersi conto dell'errore delle soluzioni che egli via via propone e a riconoscere alla fine la soluzione corretta. Questo episodio è interpretato da Platone come una conferma del fatto che il sapere, presente nell'anima dello schiavo, ma dimenticato al momento della nascita, è stato da lui ricordato sotto lo stimolo delle domande poste da Socrate. L'apprendimento non è altro, dunque, che un processo di reminiscenza (anamnesi). La condizione di possibilità di questo processo è data dal fatto che la natura, ossia tutto ciò che è, è una totalità di parti legate tra loro da legami di affinità, come quelli che intercorrono i membri di una famiglia. E' sufficiente ricordarsi di una sola di queste parti per poter risalire alle altre, individuando i legami che intercorrono fra esse. Lo strumento per compiere queste operazioni è indicato da Platone nel ragionamento causale. Esso è capace di cogliere i rapporti stabili di dipendenza tra le varie parti del sapere e, dunque, tra le proposizioni dalle quali esso è costituito. Ma così facendo, tale ragionamento non fa altro che mettere in chiaro i legami sussistenti tra le cose stesse. Nel Menone Platone fa consistere la scienza in questo modello di ragionamento, che mette in grado di distinguere tra vero e falso e di rispondere alla domanda:"perché?". Ora, poiché la causa è ciò che consente di rispondere a questa domanda, diversamente dall'opinione, che è fluttuante, cioè può essere vera o falsa e non sa rendere conto di ciò che afferma.
Dai dialoghi socratici alla teoria delle idee:
I primi dialoghi di Platone hanno argomenti prevalentemente di etica, ruotando intorno al tema della virtù: l'Eutidemo ha per oggetto la pietà, il Liside l'amicizia, il Carmide la saggezza, il Lachete il coraggio, l'Ippia minore la veracità. Ma nessuno di essi arriva a una conclusione netta; donde la definizione di "aporetici", comunemente usata per questi dialoghi. A una prima conclusione sul tema della virtù in generale giunge invece il Protagora: tutte le virtù si riducono a una sola, la sapienza (sophia), e perciò la virtù è suscettibile di insegnamento. Ne risulta un profondo intellettualismo: l'equazione virtù= sapienza implica che chi conosce il bene non può che seguirlo e che nessuno agisce male volontariamente, bensì solo per ignoranza.Il tema dell'identità della virtù nelle sue varie forme è sviluppato nel Menone: "Anche se sono di molti tipi, in tutte le virtù ha da esservi una sola forma, per cui sono virtù". Quindi, per rispondere alla domanda che cos'è la virtù, occorre fissare gli occhi su una tale "forma" o "idea" (eidos). E' questa la nozione che d'ora in poi sarà al centro di tutta la riflessione di Platone e che ne segna la novità maggiore rispetto al socratismo.
Subito, nell'Eutifrone, la ricerca è rivolta a determinare "che cos'è in sé stessa quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sante sono sante", onde usarla come modello per giudicare ciò che è santo e ciò che non lo è. Contemporaneamente Platone procede a criticare le dottrine avversarie, cominciando dai sofisti.
Nel Gorgia è esaminata l'arte retorica, che si propone la mera persuasione degli ascoltatori: un "credere non accompagnato dal sapere", dice Platone, perciò neppure una téchne, ma solo un'empeirìa, poiché non fondata sulla comprensione razionale della natura delle cose.Il Menone, dedicato alla critica dell'eristica, formula per la prima volta la teoria della reminiscenza, che rimarrà centrale nella gnoseologia di Platone. Attraverso domande opportune, Socrate riesce a far sì che uno schiavo, del tutto ignorante di geometria, pervenga da sé alla dimostrazione del teorema di Pitagora. Ciò è possibile, conclude Platone, perché l'anima dell'uomo ha acquisito la conoscenza della verità in una vita precedente e può quindi ricordarla (anamnesi). Per questa teoria Platone ricorre al mito orfico dell'immortalità dell'anima e della reincarnazione. Ma procede anche, nel Fedone, a una dimostrazione razionale dell'immortalità dell'anima, fondata sulla dottrina delle idee. Le idee sono in realtà invisibili, stabili, sempre identiche a sé stesse; e l'anima è capace di coglierle solo in quanto è simile "al divino e all'immortale". Il rapporto fra l'anima e le idee non è esaurito però dalla conoscenza intellettuale, ma investe tutt'intera la vita dell'uomo. Lo mostra il Simposio, dedicato al tema dell'amore (éros). L'amore è presentato, secondo il mito, come un demone, figlio di pòros (risorsa) e penìa (povertà), partecipe quindi della bellezza di ambedue: non ha la bellezza, ma la desidera, non ha la sapienza, ma aspira a possederla. Diversi sono i gradi di bellezza: dei corpi, dell'anima, delle leggi, delle scienze; e infine viene l'idea della bellezza, che costituisce il termine ultimo dell'ascesa dell'éros: "Bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s'accresce né diminuisce". Elevandosi fino all'idea, l'éros consente quindi il passaggio dall'ignoranza alla scienza.Un tema analogo tornerà nel Fedro, dedicato all'analisi della natura dell'anima.
Le idee e l'immortalità dell'anima:
Platone esclude che le entità del mondo sensibile, ossia quelle percepibili mediante gli organi di senso, possano essere l'oggetto proprio della scienza. Infatti, la loro mobilità e modificabilità le rende incompatibili con la stabilità che deve essere propria della scienza: una scienza, se è realmente tale, non può non essere sempre vera. Ciò non significa che le percezioni non possano svolgere una funzione nel processo di reminiscenza, che conduce all'apprendimento delle nozioni in cui consiste la scienza vera e propria.Con i sensi, sostiene Platone nel Fedone, è possibile, per esempio, percepire oggetti che vengono detti uguali, ma di fatti questi non sono mai perfettamente uguali. Ciò conduce a pensare come distinto da questi oggetti sensibili, che sono detti uguali, l'uguale, ossia ciò che è sempre perfettamente e veramente uguale.Questa entità è designata da Platone con il termine idea, che significa propriamente "aspetto o forma visibile". La differenza è che essa può essere vista non con gli occhi, bensì soltanto con l'intelletto.La percezione degli oggetti sensibili risveglia, dunque, il ricordo delle idee, le quali permettono di misurare l'inferiorità e la deficienza degli oggetti sensibili rispetto a esse.Così, qualunque oggetto sensibile possa essere detto bello, non coincide mai con l'idea della bellezza nella sua perfezione e immutabilità.L'idea non è dunque una semplice rappresentazione o concetto, che noi ci formiamo percependo gli oggetti sensibili. Essa è invece il modello e il criterio in base al quale possiamo denominare belli determinati oggetti sensibili. Infatti, è perché già possediamo l'idea di bellezza che possiamo designare belli questi altri oggetti.Nei primi dialoghi Platone aveva presentato l'indagine di Socrate proiettata alla ricerca di definizioni, ossia di risposte corrette alla domanda: "Che cos'è x?" (dove x sta per bello, il giusto e così via). Per Platone la risposta a questa domanda consiste nel rintracciare l'idea in questione (per esempio l'idea di bellezza, di giustizia e così via). L'idea è dunque un universale. Ciò significa che i molteplici oggetti sensibili, dei quali l'idea si predica, dicendoli per esempio belli o giusti, sono casi o esempi particolari rispetto all'idea: una bella ragazza o una bella pentola sono casi particolari di bellezza, non sono la bellezza.L'idea, in quanto universale, si pone a un livello più alto rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti. Infatti, mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati dal divenire e dal mutamento, soltanto delle idee si può propriamente dire che sono stabilmente sempre se stesse.Proprio questa differenza di livelli ontologici, ossia di consistenza di essere, qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti. L'attività di un artigiano, per esempio di un costruttore di letti, è allora descrivibile da parte di Platone come un insieme di operazioni, le quali mirano a foggiare un determinato materiale (in questo caso il legno) secondo il modello dell'idea del letto, alla quale egli si riferisce costantemente con il suo pensiero. Ciò non significa che l'idea sia per Platone una semplice rappresentazione mentale. Essa è invece dotata di esistenza autonoma, né dipende per la sua esistenza dal fatto di poter essere pensata.
In che senso questi oggetti puramente intelligibili, che sono le idee, sono gli oggetti veri e propri della scienza? Quando si tratta di spiegare perché un determinato oggetto artigianale oppure un'entità naturale siano fatti in un determinato modo piuttosto che in un altro, la vera risposta, secondo Platone, consiste nel definire il fine in vista del quale essi sono fatti nel modo in cui sono fatti. Ciò equivale a dire ciò che è meglio per essi. E il meglio per ciascuno di essi corrisponde appunto all'idea. Per questo aspetto l'idea è dunque la causa, per cui un oggetto è costituito in un determinato modo e la conoscenza dell'idea consente di spiegare perché esso sia in quel modo e non diversamente.Come da sempre esistono le idee, così da sempre esistono e sempre esisteranno le anime umane in grado di conoscerle. L'esistenza delle idee diventa, nel Fedone platonico, il punto di partenza per dimostrare anche l'immortalità dell'anima. Se conoscere è richiamare alla memoria nozioni che, incarnandosi, l'anima ha dimenticato, ciò vuol dire che l'anima preesisteva alla sua incarnazione in un corpo e che la sua natura deve essere congenere a quella delle cose conosciute antecedentemente, ossia alla natura delle idee di cui le cose sensibili suscitano il ricordo. Ma come le idee sempre esistono, così deve essere anche per l'anima.Se l'anima non sopravvivesse alla morte del corpo, essa apparterrebbe al genere delle cose sensibili e sarebbe quindi anch'essa un corpo composto soggetto a nascita e morte. Ma in tal caso essa non potrebbe avere accesso alla conoscenza di entità come le idee, le quali non sono soggette né a generazione né a corruzione .Ma poiché l'anima può conoscere queste entità, apparterrà anch'essa al genere delle cose invisibili e immutabili. Un'ulteriore prova è data dal fatto che l'anima partecipa dell'idea di vita, in quanto è ciò che appunto anima, dà vita a un corpo. Essa non può, dunque, accogliere entro di sé l'idea opposta a quella di vita, ossia l'idea della morte. E' come il numero tre: esso non è il dispari, in quanto oltre al tre esistono anche altri numeri dispari, ma partecipa dell'idea del dispari e quindi non può mai accogliere entro di sé l'idea opposta, ossia l'idea del pari.Come il tre non potrà mai essere pari, così l'anima non potrà mai morire, ossia accogliere in sé il contrario della vita.
La revisione della dialettica:
I procedimenti da seguire nella dialettica vengono presentati nel Fedro: "ricondurre ad un'unica forma ciò che è molteplice e disseminato" (synagoghe) e "smembrare l'oggetto in specie, guardandosi dal lacerarne alcuna parte" (diàiresis).Platone insiste particolarmente su questo secondo aspetto; una volta divisa un'idea secondo le sue specie, ognuna di queste può, a sua volta, rappresentare un'idea che comprende ancora altre specie, ognuna di queste può, a sua volta, rappresentare un'idea che comprende ancora altre specie, cosicché il metodo della divisione permette di cogliere i rapporti e la gerarchia delle idee. Esse vengono indicate e analizzate nel più complesso dei suoi dialoghi: il Parmenide.Anzitutto, esistono idee per ciascuna delle realtà della nostra esperienza? La risposta è che per cose come giusto, bello, quiete, movimento, pluralità, unità ecc... ci sono certamente idee. E' dubbio invece che ci siano idee di cose come uomo, fuoco, acqua ecc... Non ci sono certamente idee di cose come cappello, fango, sudiciume ecc...Poi si pone il problema del rapporto fra le idee e oggetti sensibili: come può un'idea essere partecipata da più oggetti, senza che la sua unità si frantumi nel molteplice?Inoltre, dal momento che l'idea è la forma unica sotto cui si raccolgono più oggetti, se noi consideriamo la totalità di essi più la loro idea, dovremo raccogliere il tutto sotto un'altra idea ancora e così all'infinito (è questo il cosiddetto argomento del terzo uomo, di cui parla anche Aristotele nella Metafisica).Ma la difficoltà più grave, secondo Platone, è che "le cose della nostra esperienza sensibile, che pure hanno lo stesso nome delle idee, sono ciò che sono in relazione fra di loro, e non rispetto ai generi" (uno schiavo, per es., è tale in rapporto a un uomo concreto che è il suo padrone, non in rapporto all'idea di padrone).Altrettanto vale a proposito delle idee (che ora Platone designa di preferenza col termine "genere"): sembra che esse debbano essere in rapporto solo fra loro, e non con le cose concrete.L'assoluta separatezza fra idee e cose renderebbe quindi vana la stessa affermazione dell'esistenza delle idee, in rapporto alla conoscenza della verità. Per uscire da quest'aporia, nel Parmenide Platone affronta la discussione del rapporto fra l'uno e i molti, fra l'essere e il non-essere, sostenendo che dell'essere, come concepito dagli Eleati, non è lecito predicare alcunché, neppure che è uno, in quiete ecc.
In alternativa, la posizione propria di Platone è enunciata nel Sofista: il non essere non si contrappone all'essere come la sua negazione assoluta, ma è da intendersi come diverso, quindi come una negazione relativa, che ha una sua realtà al pari dell'essere. Quando infatti di un'idea o di una cosa si dice che essa è, non perciò si intende che si identifichi con l'idea stessa dell'essere, bensì che semplicemente ne partecipa, al pari delle infinite altre idee o cose, di cui si dice che sono.Analogamente avviene quando si procede ad attribuzioni di predicati: se di qualcosa, per es., si dice che è identico a sé stesso, non perciò lo si identifica con l'identità stessa; tant'è vero che contemporaneamente si può dire di esso che è diverso da altri, ossia che partecipa anche della diversità.Essere, identità, diversità sono tre dei cinque "generi sommi" che Platone considera nel Sofista: gli altri due, quiete e movimento, sono esempi di idee che non possono essere predicate contemporaneamente di un medesimo soggetto (altrimenti avrebbe luogo una contraddizione); mentre questi altri due generi partecipano degli altri tre.In tal modo è indicata la varietà dei rapporti fra le idee: alcune infatti si partecipano reciprocamente e altre no.Di qui anche la giustificazione dei giudizi negativi: allorché si nega che alcunché appartenga a qualcosa, non si intende negare l'essere a quest'ultimo, bensì semplicemente asserirne la diversità nei confronti di quel che partecipa di tale predicato; e questo è l'unico senso legittimo della negazione dell'essere.Platone presenta una siffatta conclusione come il "parricidio" che è necessario compiere nei confronti di Parmenide.L'affermazione dell'esistenza del non-essere nel senso dell'altro da permette anche di risolvere il problema dell'errore (che già era impostato nel Teeteto): il discorso falso è quello che dice "cose diverse da quelle che sono".
L'ultimo Platone:
Oltre a riformulare la teoria delle idee, nell'ultima fase del suo pensiero Platone cerca di dare una nuova soluzione al problema morale.Nel Filebo si afferma che il bene, deve essere qualcosa di perfetto e autosufficiente, non può che essere una mescolanza, in giusta misura, di piacere e intelligenza; senza quest'ultima, infatti, si ignorerebbe completamente se si sta godendo o no; né può essere concepita una vita immune dal piacere e dal dolore.Il Timeo è dedicato alla trattazione della cosmologia, attraverso la presentazione di un "mito verosimile". Non si dà scienza, infatti, se non di ciò che è stabile e certo e che si apprende col nous; quel che nasce e muore, e si apprende con l'opinione, può tutt'al più dar luogo a un discorso probabile.Il cosmo materiale, per Platone, ha una causa, un principio, rappresentato dal Demiurgo, un artefice divino che ha tratto il mondo dal caos, dandogli ordine e dorma, secondo un modello.Questo modello è il "Vivente in sé": il mondo si presenta dunque come un grande organismo, dotato di un'anima e di un corpo.L'anima del mondo è formata dall'essenza dell'indivisibile, dall'essenza del divisibile e da una terza essenza, che è una mescolanza dell'identico e del diverso.Il corpo è rappresentato dai quattro elementi di Empedocle, terra, aria, acqua, fuoco, ai quali il Demiurgo dà una struttura di carattere geometrico, costituendoli in figure solide.
Complessivamente, il mondo ha una forma sferica (essendo la sfera la più perfetta delle figure) ed è dotato di moto circolare. Ma il Demiurgo non ha creato dal nulla, bensì ha tratto il mondo da una sorta di materia prima, un ricettacolo universale, assolutamente informe, giacché deve essere capace di accogliere tutte le forme: lo spazio (chora).Lo spazio è il regno della necessità, di un mero meccanismo bruto, sul quale interviene l'intelligenza del Demiurgo.Nel mondo operano quindi due tipi di cause: quelle finali o primarie, di ordine intellettivo, e quelle meccaniche, subordinate alle prime. Pertanto, in Platone sono presenti tanto il meccanicismo quanto il finalismo, ma è il secondo a prevalere nettamente.Il Timeo prosegue con la descrizione della creazione dei pianeti e degli esseri viventi: ampio spazio è dedicato all'uomo, alle varie parti del corpo e dell'anima e delle loro funzioni.Le Leggi sono l'ultima opera di Platone e rappresentano una revisione, probabilmente legata alle esperienze siracusane, delle sue teorie politiche ed educative. Platone critica l'educazione spartana, tutta incentrata su un'unica virtù, il coraggio; di contro, sostenendo che è la pace e non la guerra la condizione migliore per una città, Platone raccomanda un'educazione in cui al primo posto siano le virtù della saggezza e della giustizia.Comunque, al pari che nella Repubblica, anche ora l'educazione resta compito esclusivo dello stato attraverso le leggi. Quanto all'organizzazione dello stato, le preferenze di Platone si indirizzano ora verso una forma mista di democrazia e aristocrazia.La proprietà privata, che nella Repubblica era abolita, viene qui ripristinata nella forma della proprietà familiare, indivisibile e inalienabile, distribuita dallo stato (l'analisi della legislazione è seguita da Platone nei minimi dettagli).Particolarmente importante è l'elaborazione di una teologia astrale (fondata sull'idea dell'animazione dei corpi celesti) come religione di stato, elemento fondamentale di coesione e di stabilità; così che vanno combattute, anche attraverso sanzioni penali, non solo la religiosità popolare, ma soprattutto l'irreligiosità nelle sue varie forme.
La nuova immagine di Platone:
A partire dai primi anni Sessanta ha preso corpo in Germania, a opera dei rappresentanti della scuola di Tubinga, una nuova tesi sulla filosofia platonica, secondo cui il nucleo del pensiero filosofico ateniese non andrebbe ricercato nell'opera scritta, cioè nei dialoghi, bensì nelle cosiddette "dottrine non scritte"; vale a dire in concezioni che Platone di proposito non avrebbe consegnato alla scrittura, ma comunicato direttamente a pochi allievi nell'ambito di un insegnamento orale.La ragione di tale atteggiamento va ricercata, secondo i sostenitori di questo indirizzo, nelle affermazioni relative ai limiti della scrittura contenute nella parte conclusiva del Fedro. Qui Platone rimprovera alla scrittura l'assenza di controllo del destinatario, la conseguente incapacità di difendersi dal rischio che la dottrina comunicata attraverso di essa venga fraintesa dal lettore e infine l'intrinseca inadeguatezza rispetto al compito di formulare le teorie filosofiche più importanti. Per tutte queste ragioni, all'opera scritta (i dialoghi) verrebbe assegnata una funzione introduttiva rispetto alle dottrine più importanti trattate sistematicamente solo in forma orale. Il contenuto delle "dottrine non scritte" ci è pervenuto grazie alla testimonianza di Aristotele e dei suoi commentatori antichi (Alessandro di Afrodisia e Simplicio). Da essi si può desumere che Platone concepì tutta la realtà (sensibile e intelligibile) come il prodotto dell'azione combinata di due principi supremi, l'Uno e la Diade indeterminata.Il primo, che si identifica con l'idea del Bene, costituisce la causa di tutto ciò che è unitario, ordinato, identico e positivo, mentre la Diade rappresenta il principio della molteplicità e del disordine.In questo modo, le idee non sono più l'istanza ontologica suprema, ma vengono "generate" da un principio di unità e da uno di molteplicità; e probabilmente proprio in base a tali principi Platone finì per identificarle con i numeri. L'interpretazione della Scuola di Tubinga in Italia è stata difesa e sviluppata da G. Reale.