Sviluppi della filosofia ortodossa nella mimamsa, la parola assoluta di Bhartrhari
L'esegesi dei testi vedici non cessò con le Upanisad, e continuò per tutta l'epoca classica. Per proteggere la tradizione contro corruzioni ed interpolazioni si sviluppò la grammatica, che assunse presto nella cultura indiana un'importanza assai superiore a quella della semplice esegesi filologica. Fra il III ed II secolo a.C. vissero una serie di grandi grammatici, tra i quali ricordiamo Panini ed il suo commentatore Patanjali, le cui analisi linguistiche, basate sulla divisione delle parole in radici, suffissi e desinenze, serviranno da modello anche alla glottologia moderna. Il sanscrito regolarizzato e schematizzato dai grammatici non andrà più soggetto a mutamenti nei secoli seguenti, ma il suo uso si diffonderà oltre le cerchie brahmaniche ed oltre i soli fini sacrali, fino a dar luogo, con il cosiddetto « rinascimento sanscrito », ad una fiorente letteratura profana.
Col procedere dei secoli la tradizione religioso-filosofica dei Veda si scisse in due grandi rami: da un lato la corrente mistica e gnostica, raccogliendo l'eredità delle dottrine upanisadiche, sfociò nel movimento vedanta, dall'altro l'esegesi puntuale della ritualistica dei brahmana si sviluppò nella scuola mimamsa, e si approfondì nei commenti filosofici che
Kumarila e Probhakara (VII-VIII secolo d.C.) fecero ai Mimamsa-sutra attribuiti a Jaimini, e redatti probabilmente fra il II secolo a.C. ed il II d.C.
Criticando il soggettivismo buddista, i filosofi mimamsa sostengono la realtà del mondo empirico, formato da atomi - della grandezza di un granello di polvere visibile nel raggio solare - direttamente percepibile coi sensi. L'universo
non ha in sé inizio né fine, e non c'è alcun bisogno di ammettere un dio creatore e distruttore. Le divinità di cui parlano i Veda - testi considerati eterni e non dovuti all'opera dell'uomo — non avrebbero alcuna realtà oggettiva, se non come nomi a cui rivolgere i sacrifici.
Il sacrificio ha per la scuola mimamsa un'importanza grandissima: è esso infatti che elimina il residuo del karman , e separa le innumerevoli anime dai corpi in cui l'azione le ha costrette a trasmigrare. Interrotto il ciclo samsarico le anime, disgiunte dal complesso psicofisico, resteranno eternamente in una condizione di conoscenza potenziale, priva di qualsiasi contenuto.
Più interessante per noi è la teoria della autovalidità delle conoscenze. Tutte le conoscenze - sono secondo i pensatori mimamsa - valide, ed il criterio della loro validità risiede nelle cause della conoscenza stessa. Per ottenere conoscenza non c'è bisogno del ragionamento logico; esso è necessario solo per dimostrare la falsità o sciogliere il dubbio di una conoscenza errata. Da che cosa ha origine l'errore? Secondo i filosofi mimamsa esso è dovuto alla confusione di due conoscenze diverse, di cui non venga riconosciuta la diversità. Così, quando si affermi « questo è argento » riferendosi alla madreperla, la percezione « questo » è esatta, ma non distinta dalla percezione dell'« argento » conosciuto altrove.
Vivaci discussioni suscitò pure nella scuola mimamsa il problema della natura del linguaggio. Secondo il commentatore Kumarila le parole possiedono tre poteri diversi : di denotazione, di connotazione e di intenzione. Il primo ed il secondo potere riguardano il senso letterale e metaforico delle parole, mentre al potere di intenzione sarebbe dovuta la facoltà delle parole di unirsi ad altre e di formare un senso compiuto. Invece secondo il commentatore Probhakara, già la determinazione del senso letterale e metaforico presuppone che le parole siano poste in un contesto, e i tre distinti poteri delle parole non sarebbero in realtà che una nostra astrazione.
Problemi linguistico-metafisici sono discussi anche in una interessante opera grammaticale-filosofica dell'inizio del VII secolo: il Vakyapadiya (Della frase e della parola) del grammatico Bhartrhari.
Per Bhartrhari il pensiero discorsivo, il linguaggio, non è altro che lo svolgimento dell'intuizione sensibile. « Senza essere accompagnata da parola non esiste a questo mondo conoscenza. » Tutto quello che esiste è parola: « Il brahman senza fine e senza principio è la realtà parola che, immutabile, si trasforma negli oggetti sensibili.»
Il linguaggio non è soltanto un fatto fonetico o acustico: è una realtà spirituale. Esso non consiste in una successione di suoni, ma nell'intuizione unica, atemporale che essi producono (teoria dello sphota). Accanto al fonema (la « grossa ») esiste la parola interiore (la « mediana ») e, al di sopra di essa, la parola come intuizione e primo momento della conoscenza (la « veggente »). « La " grossa " è la parola avvertita anche da chi ci sta vicino; oggetto del senso dell'udito, ordinata in una progressione definita, fatta di suoni, essa può essere confusa o costituita da fonemi distintamente pronunciati, corretta o scorretta. La " mediana " è invece la parola interiore che ha, come sua causa e sostanza, la mente soltanto, ma che, malgrado ciò, appare come successiva. La " veggente " è immune da successione; unica ed identica, la potenza di successione è tuttavia in lei sempre presente; essa è mobilissima e concentrata in se stessa ad un tempo; corretta e pura; formata di immagini oggettive che possono essere tuttavia anche immerse e insensibili o perfino mancare affatto; dotata delle immagini di oggetti diversi gli uni dagli altri o priva anche di tali immagini oggettive, che dormono in lei come quiescenti: sicché infinite sono le sue specie. »